Martelli, Otello
Direttore della fotografia, nato a Roma il 19 maggio 1902 e morto ivi il 20 febbraio 2000. Elegante interprete del bianco e nero italiano tra gli anni Quaranta e Sessanta, incarnò con modestia e understatement il suo ruolo professionale. L'atteggiamento di artigiano schivo e riservato, pronto a subordinare le proprie scelte stilistiche alle esigenze del racconto, fu il suo punto di forza, e lo fece amare da cineasti dalla forte personalità, come Federico Fellini, che gli affidò alcuni dei suoi film più importanti, da I vitelloni (1953) a La dolce vita (1960). Lontano dall'attenzione dei mass media e dalle scelte autoriali di molti suoi colleghi, sebbene si possa considerare uno dei grandi maestri della fotografia italiana, non ottenne alcun riconoscimento di rilievo, se si esclude una Osella alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia nel 1996.
Abbandonata presto la scuola, lavorò sin dal 1916 come apprendista alla Caesar Film, dove fu assistente dell'operatore Alberto Giuseppe Carta. Nel 1919 esordì come operatore firmando la fotografia del film La contessa Sara di Roberto Roberti. Seguirono fino al 1926 altri tredici film, la maggior parte dei quali diretti da Roberti. Nel 1927, nel momento più buio della crisi produttiva del cinema italiano, acquistò una macchina da presa e ottenne dall'Istituto Nazionale Luce l'incarico di filmare il 15° Giro d'Italia. S'indirizzò così verso il documentarismo, entrando nell'organico degli operatori dell'Istituto. Nel 1928 venne aggregato alla spedizione di Umberto Nobile al Polo Nord, realizzando (come regista, operatore e montatore) il documentario in quattro parti Le eroiche gesta dell'Artide. Nel 1934 ritornò al cinema a soggetto con Il cardinale Lambertini di Parsifal Bassi. Ma fu in virtù della sua attitudine di documentarista che l'anno successivo venne scelto da Alessandro Blasetti per una delle sue prove più caratterizzate in senso realista, Vecchia guardia, dove la fotografia rifiuta le convenzioni luministiche degli anni Trenta e sfrutta la luce naturale disponibile, compatibilmente con quanto consentito dalla modesta sensibilità dei negativi dell'epoca. Appassionato sperimentatore, M. dimostrò di sapersi anche adeguare ai modelli figurativi correnti, fotografando opere più convenzionali basate sull'architettura della 'regola delle tre luci' (taglio, diffusa e controluce). Anche su questo terreno dimostrò di poter ottenere risultati notevoli, con la grande raffinatezza del bianco e nero di Contessa di Parma (1937) di Blasetti. La sua formazione di documentarista riemerse negli anni del Neorealismo, soprattutto quando si ritrovò al fianco di Roberto Rossellini sul set di Paisà (1946), nel quale un'immagine scabra e priva di profondità si mimetizza perfettamente con quelle del cinema d'attualità e con la polverosa piattezza degli scatti dei fotoreporter di guerra. M. ebbe un ruolo importante anche nella definizione del modello figurativo del Neorealismo di Giuseppe De Santis, sperimentando la contaminazione tra stilemi della fotografia documentaristica e l'uso dei grandi proiettori di studio, portati in esterno nelle campagne di Caccia tragica (1947) e nelle risaie vercellesi per Riso amaro (1949). A questo stesso modello s'ispirano anche i film che in quegli stessi anni girò per Rossellini, l'episodio La voce umana di L'amore (1948), ma soprattutto Stromboli ‒ Terra di Dio (1950), nel quale raggelate pulsioni di melodramma si specchiano in un utilizzo psicologico dell'immagine della natura, messa in scena e fotografata con tutte le valenze di un vero e proprio personaggio. Tra la fine degli anni Quaranta e i primi Cinquanta M. incarnò l'anima figurativa più autentica del Neorealismo. Forte della fama che si era conquistato in quel periodo, partecipò (anche se non accreditato) alla prima grande produzione americana in Italia dopo la guerra, Black magic (1949; Cagliostro), diretto da Gregory Ratoff ma orchestrato dietro le quinte dal suo protagonista Orson Welles, la cui fotografia fu firmata da Ubaldo Arata e Anchise Brizzi. Con il passare del tempo lo stile di M. inclinò sempre più verso il gusto della ricostruzione in studio, pur conservando un'attenzione alla realtà che si avverte con maggior evidenza in taluni film (il rosselliniano Francesco, giullare di Dio, 1950, dove rivive la purezza fotografica di Paisà) e appare più remota in altri (i desantisiani Roma, ore 11, 1952, e Un marito per Anna Zaccheo, 1953). Fu anche un attento ritrattista di attrici bisognose di valorizzazione figurativa: Dino De Laurentiis gli affidò il look di sua moglie Silvana Mangano in Anna (1951) di Alberto Lattuada, e Carlo Ponti si rivolse a lui per la fotografia del film che avrebbe dovuto lanciare definitivamente Sophia Loren, La donna del fiume (1954) di Mario Soldati.
Luci del varietà (1950) segnò l'incontro di M. con Fellini, del quale sarebbe stato un fedele compagno di viaggio fino al principio degli anni Sessanta. Pur senza velleità di protagonismo, la fotografia di M. accompagnò l'evoluzione stilistica del primo Fellini, dal crudo realismo di Il bidone (1955) all'eleganza estenuata di La dolce vita. In quest'ultimo film, su richiesta del regista, egli sperimentò un uso inconsueto delle ottiche, con grande profusione di obiettivi da ritratto che mettevano perfettamente a fuoco il personaggio in primo piano e mortificavano la profondità di campo. Usati anche nei movimenti di macchina e nei carrelli, gli obiettivi da 75, 100 e 150 millimetri conferirono all'immagine di La dolce vita un suo particolarissimo sapore, una visione molto raccolta, con figure ben incise e una leggera deformazione prospettica degli sfondi.Schierato politicamente al fianco dei cineasti di sinistra, subito dopo la rivoluzione cubana accettò con entusiasmo l'invito di Alfredo Guevara, direttore dell'ICAIC, di recarsi a L'Avana per aiutare la nascita del cinema del neonato regime di Fidel Castro. Insieme al suo operatore di macchina Arturo Zavattini, figlio di Cesare, filmò due dei tre episodi di Historias de la revolución (1960) di Tomás Gutiérrez Alea, uno dei primi classici del cinema rivoluzionario cubano. Al suo ritorno in patria collaborò ancora con cineasti di primissimo piano, come Vittorio De Sica, Luciano Emmer, Elio Petri e di nuovo Fellini, per il quale fotografò il celebre episodio Le tentazioni del dottor Antonio del film collettivo Boccaccio '70 (1962); ma in quello stesso periodo mostrò di aver smarrito la vena migliore della sua ispirazione e gli stimoli a rinnovarsi. Così, dal 1967 si allontanò dai set e intraprese la nuova attività di produttore televisivo.