ossimoro
L’ossimoro (dal gr. oksýmōron, comp. di oksýs «acuto» e mōrós «stolto, folle») è un procedimento retorico (➔ retorica) che consiste nell’unire due parole o espressioni che sono inconciliabili nel significato in quanto indicano propriamente una antitesi o contrarietà. Il termine che lo designa («folle acuto») è esso stesso un ossimoro. In quanto espressione dell’antitesi, l’ossimoro unisce contrapponendoli due pensieri o due significati che sono di per sé inconciliabili perché l’uno esprime il contrario dell’altro. Così assordante silenzio, ghiaccio bollente, morte immortale, ecc., sono sì combinazioni nome + aggettivo, ma contrari nel significato in modo da creare una contrapposizione che viene superata nell’accostamento.
Siccome indica idee nettamente contrarie, l’ossimoro è stato anche definito, nella retorica francese (sin da Fontanier 1827), paradossismo (dal gr. pará «contro, contrario» e dóksa «idea, opinione»). Nel paradossismo come nell’ossimoro, due idee normalmente tenute disgiunte in quanto inconciliabili vengono accostate per produrre un inatteso circuito che conferisce loro una sorprendente ‘energia di senso’ in grado di colpire l’ascoltatore o il lettore.
Nella tradizione classica latina, l’ossimoro è contemplato soprattutto nella sua variante di antitesi (contrapositum o contentio), in cui i termini si contrappongono, ma in strutture sintattiche più complesse e in genere predicative e frastiche. Così nella Retorica a Gaio Erennio (opera del I sec. a.C. di autore ignoto, il cosiddetto Pseudo-Cicerone) essa è definita come quella figura che combina idee contrarie (con esempi come: «Ti mostri placabile ai nemici, agli amici inesorabile»: IV, 21, 15, p. 215) per conferire al discorso un tono di solennità.
In ➔ Dante la figura dell’antitesi e dell’ossimoro è spesso usata per esigenze ritmiche o metriche. Per lo più le strutture sono simmetriche («Noi ci allegrammo e tosto tornò in pianto», Inf. XXVI, 136; «e cortesia fu lui essere villano», Inf. XXXIII, 150), sovente accostano ossimoricamente termini antitetici («in caldo e ’n gelo», Inf. III, 87; «si vegghi e dorma», Par. III, 100) (Tateo 19842). In ➔ Francesco Petrarca la figura dell’antitesi trova più ampia collocazione («et al caldo et al gielo», Canz. XI, 13; «et benedetto il primo dolce affanno», Canz. LXI, 5; «cangiar questo mio viver dolce amaro», Canz. CXXIX, 21) fino a esercitarsi nella figura dell’impossibilità, l’adýnaton («lasso, le nevi fien tepide e nigre, / e il mar senz’onda, et per l’alpe ogni pesce», Canz. LVII, 5-6).
Nel Seicento l’ossimoro si presta a un uso costante, come nel Cannocchiale di Emanuele Tesauro (1654, 1670) in quanto asseconda compiutamente la poetica dell’argutezza e della meraviglia (➔ età barocca, lingua dell’). ➔ Giambattista Vico lo definisce come la figura che consiste nell’«affermare di una cosa che essa è quello che non è» (Perelman & Olbrechts-Tyteca 1966: 465).
Saldamente penetrato nelle preoccupazioni retoriche dell’Ottocento, l’ossimoro e l’antitesi rispondono bene alle esigenze di armonizzare le contrapposte passioni e le scelte esistenziali. Così ➔ Ugo Foscolo ne presenta inedite varianti, isolandolo nella posizione forte in fine di verso, come in “Alla sera”: «e mentre io guardo la tua pace, dorme / quello spirto guerrier che entro mi rugge», vv. 13-14. Lo stesso vale per ➔ Giacomo Leopardi, che lo nasconde attraverso ardite inferenze (“L’infinito”, in Canti: «e il naufragar m’è dolce in questo mare», v. 15) o lo afferma per enunciazioni forti (“Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, in Canti: «è funesto a chi nasce il dì natale», v. 143).
Si inaugura così una tradizione, ripresa da ➔ Giovanni Pascoli (“Lampo”, in Myricae: «bianca bianca nel tacito tumulto / una casa apparì sparì d’un tratto», vv. 4-5) e in ➔ Gabriele D’Annunzio (in Alcyone: «Tutto ignori / e discerni tutte le verità», “Il Fanciullo”, I, vv. 61-62; «Abita nella mia selvaggia pace», “Furit aestus”, v. 19). L’ossimoro finisce per penetrare nelle forme più diffuse della cultura mediatica dell’epoca (ad es., in Luigi Mercantini, “L’inno di Garibaldi”: «son tutte una sola le cento città», v. 33).
Nel Novecento l’ossimoro si collega alla nuova sensibilità poetica con rese semantiche inusitate come in Guido Gozzano: «i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!)» e «Ha diciassette anni la Nonna! Carlotta quasi lo stesso» (“L’amica di nonna Speranza”, in I Colloqui, I, v. 2 e II, v. 5). In altri casi è figura adatta a un’ideale immagine di sospensione spazio-temporale, come in ➔ Eugenio Montale («anello d’una / catena, immoto andare» e «degli tzigani è il rombo silenzioso»: “Arsenio”, in Ossi di seppia, vv. 21-22 e v. 33; «e poi l’ululo / del cane di legno è il mio, muto»: “Ballata scritta in una clinica”, in La bufera e altro, vv. 44-45); ovvero, come in Giuseppe Ungaretti, si rivela disponibile a mescolarsi con altre figure, ad es. con l’➔ epifonema («La morte / si sconta / vivendo»: “Sono una creatura”, in Il porto sepolto, vv. 12-14).
A metà Novecento l’uso dell’ossimoro si amplia soprattutto nei titoli (cfr. Beppe Fenoglio, La sposa bambina; Sebastiano Vassalli, L’archeologia del presente) e di qui sempre più diffusamente nei ➔ titoli dei prodotti mediatici (nei film, ad es. Belli e dannati, Non guardarmi, non ti sento). Se ne appropria il linguaggio sportivo (con espressioni di gergo come gol non gol; rovesciata da dritto; beffarda consolazione; ➔ sport, lingua dello), poi quello politico (convergenze parallele; moderatismo intransigente; ➔ politica, linguaggio della). Attualmente l’ossimoro appare con una certa frequenza nel linguaggio pubblicitario e in espressioni di larghissima diffusione (come navigare in rete).
Cicerone, Marco Tullio (1992), La retorica a Gaio Erennio, a cura di F. Cancelli, in Id., Tutte le opere, Milano, Mondadori, 33 voll., vol. 32°.
Fontanier, Pierre (1827), Des figures du discours autres que les tropes, Paris, Maire-Nyon (rist. Les figures du discours, Paris, Flammarion, 1971).
Perelman, Chaïm & Olbrechts-Tyteca, Lucie (1966), Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Torino, Einaudi (ed. orig. Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Paris, Presses Universitaires de France, 1958).
Tateo, Francesco (19842), Litote, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. 3º, ad vocem.