SINIGAGLIA, Oscar
SINIGAGLIA, Oscar. – Nacque a Roma il 31 ottobre 1877 da Angelo e da Gina Fano.
La madre proveniva da una famiglia della borghesia ebraica veneziana, il padre era proprietario di un’azienda siderurgica che forniva travi per l’edilizia.
Il fallimento economico del padre e il suo suicidio nel 1894 lo proiettarono verso una precoce maturità, con l’assunzione del ruolo di capofamiglia e capoazienda, impegnato a rimborsare, come di fatto sarebbe avvenuto, tutti i creditori. Mentre proseguiva gli studi, che lo portarono a conseguire una laurea in ingegneria civile presso la Scuola di applicazione di Roma, con il socio Di Porto trasformò nel 1901 la ditta in nome proprio nella Società anonima Ferrotaie: il giovane imprenditore si mostrò abilissimo nel tessere una rete di alleanze con importanti aziende tedesche, avviando accordi grazie ai quali riusciva a contenerne la presenza sul mercato italiano e ad acquisire importanti conoscenze tecnologiche. Dimostrò anche una notevole versatilità imprenditoriale: quando la Ferrotaie cominciò a risentire della crisi internazionale del 1907, acquistò una tenuta agricola alle porte di Roma e con investimenti e migliorie ne decuplicò in breve tempo il valore. Tornò presto all’attività industriale: nel 1908 diede vita a un’impresa per la produzione di cementi armati, la Vianini, mentre dell’anno successivo è l’impegno finanziario in una società tedesca, la Rueping, per l’iniezione del legname. Questo episodio appare significativo, più che per il fatto economico in sé, per le circostanze nelle quali avvenne. Sinigaglia decise infatti di produrre traversine ferroviarie sfruttando i boschi della Calabria, creando così posti di lavoro per aiutare le popolazioni colpite dal terremoto del dicembre 1908. L’impulso solidale a intervenire disinteressatamente per il benessere del Paese, insieme agli ideali patriottici e nazionalisti, si manifestarono a più riprese nei suoi scritti e ne orientarono sempre l’azione.
Fu con questo spirito di difesa degli interessi nazionali che si immerse nella complicata vicenda della siderurgia italiana sul finire del primo decennio del XX secolo, con l’obiettivo di portare questo settore cruciale al livello dei Paesi più avanzati. Lo Stato sosteneva attivamente l’industria siderurgica nazionale con il protezionismo, le commesse e la concessione del minerale di ferro dell’isola d’Elba. Del costante supporto pubblico avevano tuttavia approfittato uomini d’affari inclini alla speculazione, poco preparati dal punto di vista tecnico-organizzativo e incapaci di un vasto disegno imprenditoriale. All’inizio del secolo la Borsa acquistò un ruolo centrale nel comportamento delle società siderurgiche, così da far risultare utili spesso inesistenti, mentre gli incroci azionari ridimensionavano drasticamente la consistenza del capitale sociale.
Una coalizione di imprese inoltre – il cosiddetto trust siderurgico –, raggruppando un insieme eterogeneo di fabbriche impediva il pieno funzionamento delle unità produttive sulle quali si era di più investito. Del trust facevano parte la Società degli alti forni fonderie e acciaierie di Terni (Società Terni), l’Elba, la Siderurgica di Savona, la Ligure metallurgica, le Ferriere italiane e l’Ilva, ovvero la società che avrebbe dovuto costruire il grande impianto di Bagnoli (presso Napoli). La Società Terni era capofila del trust, ma solo sul piano delle combinazioni finanziarie. Sinigaglia si batté strenuamente per una fusione di queste società, tale che ne risultasse un organismo superiore alla somma delle parti costituenti, capace di promuovere una reale opera di razionalizzazione del settore. Poco più che trentenne, aveva già raggiunto un notevole grado di autorevolezza negli ambienti siderurgici e sembrò pervenire a un clamoroso successo; prevalsero infine gli interessi particolari. Le maggiori società siderurgiche, quelle che facevano riferimento al trust, insieme alla Piombino, controllata dai banchieri romani Bondi, vennero salvate nel 1911 dalla Banca d’Italia, che attuò una complessa operazione. A una società, l’Ilva, venne affidata la gestione degli impianti compresi nel salvataggio e a ciascuna delle società aderenti al cartello furono distribuiti profitti in base alla propria forza contrattuale.
L’obiettivo di Sinigaglia sarebbe stato per un quarantennio quello di contrapporre a questa attitudine spartitoria – e volta a conservare l’assetto produttivo esistente – un programma basato sull’efficienza gestionale e organizzativa, che avesse quale elemento centrale la costruzione e la valorizzazione di impianti a ciclo integrale, ovvero in grado di trasformare il minerale di ferro in prodotti laminati, a un costo tale da consentire alla siderurgia e alla meccanica italiane di competere con i Paesi più avanzati.
Il ruolo svolto durante la prima guerra mondiale e nel turbolento dopoguerra consentì a Sinigaglia di ottenere una posizione ancor più rilevante sulla scena economica e politica italiana. Arruolatosi tra i primi volontari all’inizio delle ostilità, in seguito cedette all’Ilva la sua azienda, la Ferrotaie, pur di restare in prima linea dove, nel corpo dei Genieri, mise a frutto le sue competenze tecniche nella preparazione di esplosivi in grado di scardinare le linee di difesa nemiche.
Ottenuta la medaglia d’argento al valor militare, entrò in contatto con gli alti comandi, che oramai lo consideravano un combattente speciale per la sua perizia in ingegneria militare e l’incondizionato patriottismo. Nell’estate del 1917 Eugenio Chiesa, commissario generale per l’Aeronautica, gli affidò la responsabilità dell’Ufficio produzione apparecchi della Caproni, opponendosi con fermezza, nel maggio successivo, al suo trasferimento presso il ministero Armi e munizioni. A questo importantissimo centro per lo sforzo bellico Sinigaglia approdò poco prima della fine del conflitto, a dirigere l’Ufficio acquisti, in tempo per rendersi conto dell’irrazionalità di un sistema che pagava gli industriali su semplice richiesta, senza alcun controllo. Si adoperò quindi per realizzarne uno assai severo, procurando in breve tempo notevoli vantaggi per le finanze statali.
Da questa esperienza trasse la convinzione che senza un’adeguata struttura di governo la conversione dell’apparato bellico in economia di pace avrebbe provocato un grave stato di malessere sociale. Proponendo un ministero della Ricostruzione, vedeva nel ministro del Tesoro Francesco Saverio Nitti, con la sua attenzione ai problemi dell’industria, l’uomo politico più adatto a realizzare il gigantesco processo di ristrutturazione dell’economia nazionale. Ma da Nitti, presidente del Consiglio dal giugno 1919, lo separavano le posizioni di nazionalismo intransigente assunte nella primavera di quell’anno. Alla fine di aprile, quando il governo decise il ritiro della propria delegazione dalla Conferenza di pace di Parigi per protestare contro l’atteggiamento ostile alle richieste italiane da parte delle potenze vincitrici, Sinigaglia fu tra i fondatori di un Comitato d’azione per le rivendicazioni nazionali. Ne fu nominato vicepresidente, mentre presidente fu Giovanni Giuriati, irredentista, poi braccio destro di Gabriele D’Annunzio nell’avventura fiumana e futuro segretario del Partito nazionale fascista. Ai fasci di combattimento si iscrisse poi nel maggio successivo. In occasione dell’occupazione di Fiume s’impegnò in un’opera di raccolta di fondi presso banchieri e uomini d’affari, mentre, di fatto, era considerato l’ambasciatore del ‘Comandante’ (come D’Annunzio veniva chiamato dai suoi seguaci) presso il governo e le alte gerarchie militari. Ben presto, però, prese le distanze dall’avventurismo dannunziano nel nome di una tendenza contraria a qualsiasi tentativo di destabilizzare il Paese, temendo egli in quel momento sia le forze che ormai guardavano apertamente all’esperienza bolscevica, sia i rischi di una dittatura militare.
Dall’esperienza politica del dopoguerra uscì come un conservatore moderato, e con questo spirito va vista la sua adesione all’ascesa al potere di Benito Mussolini e del fascismo. Del resto, riscuoteva la stima e la fiducia del capo del governo, il quale nell’estate del 1923 gli chiese di occuparsi del salvataggio del Banco di Roma, uno snodo decisivo per i rapporti del regime con i vertici del mondo cattolico, del cui sostegno Mussolini non poteva privarsi. Sinigaglia fu posto a capo della Società finanziaria per l’industria e il commercio (SFIC), dove il Banco di Roma aveva trasferito le proprie partecipazioni industriali e commerciali. Con molta energia portò a termine il compito, risanando le aziende che potevano competere sul mercato, ponendo in liquidazione le altre, incurante dei potenti interessi che andava a colpire e delle durature, aspre inimicizie che si sarebbe creato.
Dopo l’impegno nel risanamento del Banco di Roma non si hanno notizie di altri incarichi pubblici negli anni Venti. Si dedicò allora a rafforzare la sua posizione finanziaria e patrimoniale e si unì in matrimonio con Marcella Mayer, figlia di Teodoro Mayer, figura di spicco dell’irredentismo triestino e, nel 1931, presidente dell’Istituto mobiliare italiano.
La ‘grande crisi’ lo riportò nel vivo delle politiche industriali. Nel 1931 le due maggiori banche miste, che si trovavano nell’assoluta necessità del soccorso pubblico, erano state costrette a concentrare le partecipazioni industriali in società finanziarie, in una sorta di amministrazione controllata sotto la tutela del ministro delle Finanze. Guido Jung, il cui percorso era molto simile a quello di Sinigaglia, a cavallo tra l’attività di uomo d’affari e quella di servitore dello Stato, venne designato quale presidente della finanziaria della Banca commerciale italiana, la Sofindit. Sodale di Sinigaglia dal 1914, quando entrambi militavano nel movimento nazionalista, agli inizi del 1932 gli chiese di svolgere la funzione di consulente della Sofindit, in particolare in relazione ai problemi della siderurgia. Alla Sofindit Sinigaglia ritrovò Giorgio Di Veroli, che ne era il direttore, e che per lui era stato un prezioso aiuto nella vicenda del Banco di Roma, ma soprattutto entrò in contatto con Agostino Rocca, il giovane amministratore delegato della Dalmine che considerava Sinigaglia un ‘maestro’. Il passo alla presidenza della maggiore azienda siderurgica italiana, l’Ilva, controllata dalla Sofindit, fu breve e avvenne nell’estate del 1932, quando Jung, nominato ministro delle Finanze, volle assegnare a Sinigaglia il posto che era di Giuseppe Toepliz, già amministratore delegato della ‘vecchia’ Banca commerciale.
Erano passati più di vent’anni da quando aveva tentato invano di offrire il suo contributo per rendere la siderurgia competitiva a livello internazionale, ma la situazione complessiva del settore non aveva compiuto grandi progressi. Il cartello del 1911 si era disintegrato sotto il peso della domanda bellica, ma uno spregiudicato finanziere, Max Bondi, nell’ultimo anno di guerra l’aveva ricomposto, sotto il nome di Ilva - Altiforni e acciaierie d’Italia, escludendo dal vertice l’imprenditore cantieristico Attilio Odero, che controllava la Società Terni. L’iniziativa avrebbe potuto essere la premessa per l’opera di razionalizzazione e di sviluppo auspicata da Sinigaglia, ma Bondi, al contrario, ne fece la base per acquisizioni e scalate ostili nei settori più svariati, in un crescendo che nel 1921 lo portò alla bancarotta, e l’Ilva, guidata da Odero, entrò nell’orbita della Banca commerciale. Essa possedeva i due impianti che in Italia potevano vantare il ciclo integrale, Bagnoli e Piombino, le cui potenzialità erano ridotte dall’eccezionale abbondanza di rottame prodotto dalla Grande Guerra. Questa congiuntura favoriva in particolare gli impianti che utilizzavano i forni elettrici, come le Acciaierie Falck, certo floride economicamente per i loro proprietari e azionisti, ma insufficienti a sostenere l’industrializzazione di un Paese come l’Italia. Per questa ragione Sinigaglia, appena assunta la massima responsabilità aziendale nell’Ilva, dispose rigorose analisi dei costi: queste dimostrarono che Bagnoli, senza vincoli di cartello (obbligatori in Italia dal 1932), avrebbe potuto reggere il confronto con le più efficienti acciaierie europee. Sinigaglia si preparò quindi a potenziare gli stabilimenti di Bagnoli e Piombino e a specializzare le produzioni degli altri, ma nel marzo 1935 vennero ‘accettate’ le sue dimissioni. Gli erano contrari i dirigenti che vedevano sconvolti i propri modi di operare, difesi dalle tariffe protezionistiche e dalla cooperazione contrattuale. Né meno ostile gli era la comunità dei grandi imprenditori – Agnelli, Falck, Donegani, Motta, Cini, Volpi – che erano già presenti o miravano a entrare nel settore siderurgico. L’azione preannunziata da Sinigaglia ne avrebbe seriamente limitato le possibilità e il raggio d’azione. Non gli giovarono inoltre, in questo periodo, le critiche che mosse apertamente all’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) di Alberto Beneduce; Sinigaglia pensava che le dimensioni e l’eterogeneità dell’IRI fossero troppo ampie per essere governate da uno sparuto gruppo di tecnocrati i quali, per quanto esperti e devoti all’interesse dello Stato, non avrebbero saputo resistere alle pressioni dei grandi interessi privati. Infine, dovette persino subire la voce calunniosa – rivelatasi del tutto infondata – secondo la quale avrebbe tentato di corrompere il discusso costruttore stradale Piero Puricelli, perché favorisse un’impresa nella quale era interessato.
Estromesso dall’Ilva, tentò a più riprese, ma inutilmente, di farsi ricevere dal duce per esporre le proprie ragioni. Dopo il 1935 visse in uno stato di emarginazione, che non gli impedì però di seguire con intensa partecipazione il Piano autarchico per la siderurgia, attuato dal suo ‘allievo’ Agostino Rocca. Questi, nominato nel 1938 direttore generale della Finsider, la finanziaria che raggruppava tutte le partecipazioni in campo siderurgico dell’IRI, pose mano a un progetto che solo nominalmente poteva definirsi autarchico, prevedendo l’importazione di minerale di ferro per uno stabilimento a ciclo integrale a Cornigliano, alla periferia occidentale di Genova. Anche Rocca dovette sostenere opposizioni di ogni genere; del resto, l’impianto non entrò mai in funzione perché smantellato dagli occupanti tedeschi nel 1943.
Nel 1938 Sinigaglia inviò una coraggiosa lettera di protesta a Mussolini contro le leggi razziali, vantando le sue benemerenze di italiano e di fascista. Si dichiarò fascista sino al 1942. In seguito, insieme alla moglie, si convertì al cattolicesimo (una decisione, questa, influenzata dal pontefice Pio XII, Eugenio Pacelli, suo compagno di scuola al liceo Visconti di Roma). L’ardore del neofita lo pose in prima linea nelle battaglie politiche dei cattolici nel dopoguerra. Nel 1945 fu nominato presidente della Finsider. Nel marzo del 1946 si presentò di fronte alla Commissione economica dell’Assemblea costituente dove, avendo come unico alleato il presidente della FIAT, Vittorio Valletta, sostenne la tesi che vedeva l’avvenire industriale dell’Italia indissolubilmente legato alle produzioni di massa e non allo sviluppo di quell’«artigianato organizzato» auspicato da Pasquale Gallo, commissario straordinario per l’Alfa Romeo (Ministero per la Costituente, 1946, p. 126). La siderurgia non gli appariva in sé decisiva per l’economia del Paese, ma in quanto fornitrice, a condizioni competitive sul prezzo e sulla qualità, dell’industria meccanica, l’unico settore in grado di provocare una discontinuità nel percorso di crescita dell’industria italiana. La sua visione ampia dei problemi dell’appartato industriale nazionale trovò allora una sistemazione articolata in due scritti: Alcune note sulla siderurgia italiana (Roma 1946) e Lavoratori e produzione (Roma 1946), in cui apparvero analisi puntuali sui temi dell’organizzazione industriale, delle interdipendenze settoriali, dei mercati, dell’occupazione e tentativi di proporre soluzioni capaci di risollevare le sorti economiche del Paese nell’irripetibile congiuntura del dopoguerra.
Dopo quasi quarant’anni Sinigaglia poté attendere alla realizzazione del suo Piano. Fu un’impresa tutt’altro che semplice, dato l’ammontare delle risorse finanziarie necessario, per il quale era d’obbligo ricorrere agli aiuti americani previsti dal Piano Marshall. E, in effetti, complicata fu la partita che dovette ingaggiare con la European Cooperation Administration (ECA), l’organismo che valutava i progetti ed erogava i fondi. A essa presentò un ambizioso programma che prevedeva la creazione di un nuovo stabilimento a ciclo integrale a Cornigliano, la specializzazione dei grandi impianti di Piombino (rotaie e profilati pesanti) e Bagnoli (profilati medi e leggeri), la riconversione in centri di rilaminazione e di attività di carpenteria degli stabilimenti minori a carica solida. Il suo obiettivo primario era l’introduzione dei più moderni treni di laminazione a Cornigliano (un treno ‘a caldo’ per nastri larghi, due treni continui per la laminazione ‘a freddo’), così da poter produrre coils per l’industria automobilistica, ma anche banda stagnata, lamierino, lamiere zincate. Si trattava dell’aspetto più innovativo della sua proposta: gli stabilimenti a ciclo integrale non avrebbero dovuto limitarsi, come in passato, a rifornire una serie di impianti minori, ma erano destinati ad affrontare direttamente il mercato con prodotti finiti ad alto valore aggiunto.
La prima reazione da parte americana fu ostile: l’ECA ritenne che la produzione siderurgica italiana non potesse superare i 2 milioni e mezzo di tonnellate annue, un traguardo non lontano dai livelli ottenuti prima della guerra, per il quale i due stabilimenti a ciclo integrale già in funzione erano più che sufficienti. Condivisero queste obiezioni anche il maggiore produttore privato di acciaio nazionale, Falck, e la Confindustria: il fronte dei privati sostenne infatti la superiorità della siderurgia da rottame in un mercato nazionale vincolato da insuperabili limiti dimensionali. Anche dopo la bocciatura dei suoi progetti da parte dell’ECA, nel gennaio del 1949, Sinigaglia non abbandonò la lotta. La Finsider operò un arretramento tattico riducendo le previsioni produttive complessive, ma confermò la centralità strategica del nuovo insediamento di Cornigliano, mentre egli si impegnò in una dura polemica, nella primavera del 1949, sulle pagine del Mondo, contro Giovanni Falck e il presidente della Confindustria Angelo Costa, ribadendo l’insufficienza della siderurgia privata da rottame per un Paese che aveva la necessità di sostenere la competizione internazionale. Chiuse inoltre un patto reciprocamente vantaggioso con la FIAT che, rompendo il fronte dei privati, rinunciò alla richiesta all’ECA di un treno di laminazione continuo a favore di un conveniente accordo di fornitura di coils da parte di Cornigliano.
L’ultimo, decisivo passaggio fu il coinvolgimento di autorevoli ‘consulenti’ americani a sostegno del ricorso della Finsider contro la decisione dell’ECA: Sinigaglia poté contare sul parere della società Arthur McKee, specializzata nella costruzione di impianti siderurgici e petroliferi, e della Armco, impresa siderurgica produttrice di laminati piani; questi sottolinearono la validità della filosofia del Piano, che puntava direttamente al mercato con adeguati volumi produttivi, superando finalmente i facili e modesti risultati del vecchio assetto privati-Ilva.
Il 10 novembre 1949 la decisione dell’ECA di Washington, che si pronunciò a favore dei tre stabilimenti e del treno continuo a Cornigliano, sancì la vittoria di Sinigaglia. La Finsider ottenne 32 milioni di dollari (il 15% del totale stanziato per l’industria italiana): di questi, 26,3 milioni furono destinati alla costruzione del nuovo stabilimento genovese, con un investimento industriale di assoluto rilievo, a livello dei maggiori impianti europei. Superati l’iniziale scetticismo degli americani e le resistenze degli italiani, Sinigaglia vide concretizzarsi le idee che sosteneva dal primo decennio del Novecento: non bastava però disporre di nuovi costosissimi macchinari; era necessario padroneggiare tecniche organizzative e metodi di controllo sconosciuti in Italia. Ebbero allora inizio i viaggi negli Stati Uniti di centinaia di tecnici e operai, mentre per mettere al riparo il modernissimo impianto da qualsiasi commistione con l’Ilva, venne creata una nuova società, la Cornigliano Spa.
Parte integrante del Piano Sinigaglia era la chiusura di centri di produzione, che sarebbero altrimenti rimasti in vita al di fuori di ogni logica economica. Ne conseguiva un serio problema di disoccupazione, che egli era certo di poter riassorbire nel breve-medio periodo grazie all’impulso che la Finsider avrebbe dato all’industria siderurgica e a quella meccanica.
Morì a Roma il 30 giugno 1953.
Nello stesso anno entrò in funzione lo stabilimento di Cornigliano. L’Italia, che nel 1951 toccava a stento la produzione di 3 milioni di tonnellate di acciaio, superò largamente i 5 milioni nel 1955, passando dall’undicesimo all’ottavo posto nel mondo.
Fonti e Bibl.: Torino, Fondazione Luigi Einaudi, Fondo Agostino Rocca, ff. 52, 71 e 77; Milano, Archivio storico Intesa Sanpaolo, Banca commerciale italiana, Carte di Raffaele Mattioli, c. 263; Sofindit, cc. 246, 248 e 405; Roma, Archivio storico Banca d’Italia, Carte Jung, f. 29.5; Roma, Archivio centrale dello Stato, Archivio storico IRI, Fondo Finsider.
Ministero per la Costituente, Rapporto della Commissione economica presentato all’Assemblea Costituente, II Industria, II Appendice alla Relazione, Interrogatori, Interrogatorio dell’Ing. Oscar Sinigaglia, Roma 1946, pp. 5-20; ibid., Interrogatorio dell’Ing. Pasquale Gallo, p. 126; F. Amatori, Cicli produttivi, tecnologie, organizzazione del lavoro. La siderurgia a ciclo integrale dal piano autarchico alla creazione dell’Italsider (1937-1961), in Ricerche storiche, X (1980), 3, pp. 557-608; Acciaio per l’industrializzazione. Contributi allo studio del problema siderurgico italiano, a cura di F. Bonelli, Torino 1982, passim; G. Toniolo, O. S. (1877-1953), in I protagonisti dell’intervento pubblico in Italia, a cura di A. Mortara, Milano 1984, pp. 405-430; G. L. Osti, L’industria di Stato dall’ascesa al degrado. Trent’anni nel gruppo Finsider. Conversazioni con Ruggero Ranieri, Bologna 1993, pp. 101-148; G. Mori, L’industria dell’acciaio in Italia, in Storia dell’Ansaldo, III, Dai Bombrini ai Perrone (1903-1914), a cura di P. Hertner, Roma-Bari 1996, pp. 31-66; R. Ranieri, Il Piano Sinigaglia e la ristrutturazione della siderurgia italiana (1945-1958), in Annali di storia dell’impresa, 2000-2005, vol. 15-16, pp. 17-47; L. Villari, Le avventure di un capitano d’industria, Torino 2008; P. Galea, Protagonisti, istituzioni e strutture finanziarie nell’intervento di salvataggio del Banco di Roma. Il contributo di O. S., in L’intervento dello Stato nell’economia italiana. Continuità e cambiamenti (1922-1956), a cura di A. Cova - G. Fumi, Milano 2011, pp. 43-82; R. Ranieri, La siderurgia IRI dal Piano Sinigaglia alla privatizzazione, in Storia dell’IRI, V, Un Gruppo singolare. Settori, bilanci, presenza nell’economia italiana, a cura di F. Russolillo, Roma-Bari 2014, pp. 62-67.