GHIGLIA, Oscar
Nacque a Livorno il 23 ag. 1876 da Valentino e Amalia Bartolini. Dopo i primi studi giovanili come autodidatta, negli anni Novanta frequentò gli artisti livornesi U. Manaresi e G. Micheli, nello studio del quale conobbe A. Modigliani, A. De Witt e L. Lloyd.
Nel 1900 il G. si trasferì a Firenze e in seguito condivise con Modigliani, al quale era unito da una intesa amicizia, una camera ammobiliata in via S. Gallo. Su consiglio di G. Fattori frequentò la Scuola libera del nudo incontrando artisti conterranei, come G.C. Vinzio, e altri in vario modo allievi o frequentatori del vecchio e venerato maestro livornese. Tra questi, A. Soffici e G. Melis che, insieme con U. Brunelleschi e G. Costetti, decisero di partire una mattina di autunno di quello stesso anno alla volta Parigi per visitare l'Esposizione universale riportando, ciascuno a suo modo, impressioni e influssi dell'arte parigina.
Firenze in quegli anni andava riproponendosi quale vivo punto di riferimento del dibattito culturale e artistico, allineandosi così ambiziosamente alle esperienze internazionali e, in particolare, a quelle di Venezia e Roma, con iniziative succedutesi già allo scadere del 1896, quali l'Esposizione internazionale "Festa dell'arte e dei fiori" (visitata dal G.) e la nascita della rivista battezzata Il Marzocco da G. D'Annunzio, che in questo stesso giro di anni si insediò presso Settignano rimanendovi fino al 1910. Sulle colline a nord di Firenze, presso la celebre villa "I Tatti", si era trasferito B. Berenson, mentre già dal 1894 A. Böcklin dimorava a villa Bellagio, presso Fiesole, luogo prediletto pure, significativamente negli anni Novanta, da Maurice Denis. Di rilievo, anche le presenze tedesche a Bellosguardo, presso il convento di S. Francesco di Paola, dove abitarono Adolf von Hildebrand e, dal 1905, Max Klinger, o quella dell'artista francese, già membro del gruppo di Pont-Avant, Henry De Prureaux, alla moglie del quale il G. fece un ritratto (ubicazione ignota). Nel 1901, inoltre, A. De Carolis ottenne la cattedra di decorazione presso l'Accademia di belle arti fiorentina, dove strinse amicizia con D'Annunzio: qui la notte del 25 nov. 1902 G. Papini annunciò la fondazione della rivista Il Leonardo alla quale collaborarono, tra gli altri, De Carolis, i giovani artisti G. Costetti e A. Spadini, e, in un secondo momento, Soffici e il Ghiglia.
Il giovane pittore livornese elaborò in questo contesto un personale linguaggio figurativo ove coniugò la tradizione della pittura macchiaiola, in particolare del venerato Fattori, con echi simbolisti assunti da Böcklin e dal coetaneo Costetti, fino alle tendenze di In arte libertas di De Carolis. Forte di queste esperienze, il G. esordì con successo alla Biennale veneziana del 1901 presentando un Autoritratto (ubicazione ignota: Stefani, tav. I) dipinto a Livorno nello stesso anno: si tratta di uno dei primi quadri noti di questo prolifico pittore la cui produzione, per lo più attualmente conservata in collezioni private fiorentine, è stata ampiamente documentata dalle due mostre toscane del 1996, ai cataloghi delle quali si rimanda per le riproduzioni dei dipinti.
Nel 1902 espose alla mostra della Società promotrice di belle arti di Firenze, dove tornò anche l'anno seguente. Sempre nel 1902 sposò Isa Morandini il cui Ritratto (ubicazione ignota: Stefani, tav. II) fu presentato nella "Sala toscana" alla Biennale di Venezia dell'anno seguente.
Il quadro, apprezzato da Papini, G. Prezzolini e da L. Andreotti, venne segnalato per la medaglia d'oro, ma inutilmente. Il successo dell'opera indusse A. Fradeletto, segretario della Biennale, a recarsi a Firenze in vista di una promessa sala personale del G. alla Biennale del 1905: Fradeletto poté vedere un gruppo di impegnativi ritratti, fra i quali quello della Madre e della Signora De Prureaux (entrambi di ubicazione ignota), oltre a L'ava (ubicazione ignota: ibid., tav. V). Tuttavia, la giuria della VI Biennale veneziana accettò solo i dipinti L'ava e il Ritratto della signorina Bertina Merzbacher (catal., p. 123), che vennero esposti nel 1905 nella "Sala toscana".
Gli inviti ad alcune rilevanti manifestazioni artistiche, anche internazionali (tra queste l'Esposizione internazionale del 1904 di Saint Louis, ove presentò Medusa di ubicazione ignota), o la partecipazione con tredici opere alla mostra della Promotrice fiorentina del 1906 dimostrano che il G. era considerato uno dei giovani pittori italiani più promettenti, come confermano i lusinghieri giudizi della critica contemporanea.
In occasione della Biennale veneziana del 1905 il G. poté conoscere direttamente l'opera del gruppo dei Nabis e, in particolare, di F. Valloton, lo stile del quale assimilò in sorprendente anticipo rispetto ai molti altri artisti italiani influenzati dal pittore svizzero, per esempio F. Casorati.
"Nell'opera di Valloton e dei collaboratori francesi della Revue Blanche, da Bernard a Vuillard, Ghiglia poteva apprezzare e riprendere l'uso del colore a taches vibranti di pigmento e le masse potenti e semplificate, saldamente racchiuse in contorni essenziali: motivi questi che inducevano il giovane ad abbandonare il residuo e vincolante naturalismo tardo macchiaiolo, per una pittura scandita in tagli e inquadrature nuovi, con limpide scansioni e nette individuazioni dei volumi" (Pratesi - Uzzani, pp. 61 s.). Queste caratteristiche si riscontrano già nell'Autoritratto al cavalletto del 1906, ma compaiono più chiare in Isa che sbuccia i fagioli, Camicia bianca, entrambi del 1909, e La signora Ojetti al piano del 1910. Altri spunti precisi il G. sembra averli accolti dal danese W. Hammershøi, peraltro presente alla Biennale di Venezia del 1903.
Uno dei momenti più rilevanti dell'attività artistica del G. è quello che matura allo scadere del primo decennio e arriva alle soglie della Grande Guerra. Risale al 1908-09 - grazie all'intercessione dell'amico scultore collezionista Mario Galli - l'incontro con Gustavo Sforni, anch'egli pittore e amico di Fattori, nonché uno dei primi italiani a collezionare opere di E. Degas, V. Van Gogh, e P. Cézanne. Nel 1911 Sforni, dimostrando grande stima per il G., gli propose un "contratto", che sarebbe durato tutta la vita, di lire 500 al mese in cambio di un diritto di prelazione sulle opere che più lo avrebbero interessato.
Il G. sviluppò la sua ricerca magistralmente proprio nel periodo in cui i Cézanne erano più numerosi dei Botticelli (secondo la ben nota boutade di E. Cecchi, Tre volti di Firenze, in I piaceri della pittura, Vicenza 1960, p. 385). Quadri del maestro di Aix erano conservati, oltre che nella raccolta Sforni, nella collezione di Egisto Fabbri e Carlo Loeser. Dal ritorno a Firenze nel 1907, Soffici divulgava congiuntamente a Cézanne, alla cui lezione dedicò diversi dipinti, la pittura di Maurice Denis. Fu V. Pica a pubblicare per la prima volta nel 1908 le opere di Cézanne nel libro sugli Impressionisti francesi, al quale lo stesso Soffici, nonostante l'avversione per il critico, aveva attinto: è così che, nel giugno dello stesso 1908, sulle pagine della rivista senese Vita d'arte, apparve il suo fondamentale e primo saggio critico su Paul Cézanne. Qui Soffici apprezzava "l'unità spirituale" che accomunava i diversi protagonisti delle composizioni cézanniane, dove "uomini, animali, alberi e cieli non erano più raffigurati come personalità isolate o frammentarie; ma riunite in una armonia di linee e di toni". Diversi artisti accolsero tali indicazioni: oltre al G., Fillide Levasti, Arturo Checchi e Costetti. In concomitanza alle proposte sofficiane, Ricciotto Canudo esaltò sulla stessa rivista P. Gauguin e Cézanne quali "nuovi primitivi" e sostenitori di un'arte intesa come superamento della fedele e minuziosa trascrizione "di ogni dettaglio formale" per una "astrazione assoluta della realtà", "evocazione" o "suggestione", ma non "definizione" (Corrispondenze estere. Francia, in Vita d'arte, I [1908], 1, pp. 55 ss.).
Su Vita d'arte, in sintomatica continuità con gli interventi su Cézanne, G. Papini nel 1908 dedicò un appassionato e primo articolo al G. esaltandone l'avvenuta "liberazione pittorica" sull'esempio proprio di Gauguin e di Cézanne, grazie ai quali l'artista livornese riusciva, pur rappresentando "scenette, piccoli quadri intimi" (Papini, p. 280), a "superare gli effetti fedelmente realistici a favore di sintetiche e pure suggestioni pittoriche" (Pratesi - Uzzani, p. 74).
Al milieu artistico intellettuale al quale il G. fa riferimento, maturando in questo giro di anni la sua fervida linea artistica alla quale rimarrà fedele, bisogna aggiungere il nome di Ugo Ojetti. Proprio nel 1908, quando i rapporti tra l'eminente critico e il pittore erano ormai consolidati, il G. eseguì una delle opere più rappresentative, il Ritratto della moglie di Ojetti, Fernanda, noto anche come La signora Ojetti nel roseto (1907: catal., Livorno 1996, p. 37 n. 5). Nel 1909 il G. avrebbe dipinto La toilette della signora Ojetti, una natura morta intitolata anche Lo specchio, e il RitrattodiUgo Ojetti nello studio, databile al 1909-10.
Ojetti inserì l'opera del G. nel meglio della tradizione toscana giustificandola, in particolare, con quella di Piero Della Francesca; a tale riguardo il pittore rispose a Ojetti con una lettera del maggio 1908 (conservata alla Galleria nazionale d'arte moderna di Roma, Archivio Ojetti) scritta da Arezzo, dove era ospite di Pier Ludovico Occhini, direttore della rivista Vita d'arte, ringraziandolo per averlo incluso "nel branco" e ribadendo la giustezza del confronto con Piero tanto che arrivava a dichiararsi "profondamente commosso" dal ciclo pierfrancescano di S. Francesco (la lettera è citata da C. Zappia, in catal., Prato 1996, p. 14).
Alla celebre mostra sugli impressionisti organizzata nel 1910 da Soffici al Lyceum fiorentino per conto della Voce, il G. poté trovare una conferma alla sua volontà di integrare tradizione primitiva, rinascimentale, e la pittura della "macchia" con l'arte francese; nacquero quindi nei primi anni Dieci opere che evidenziano questa mirabile sintesi: Anfore e zucca, databile al 1912-13, La sedia rossa e Calle e aranci (entrambi del 1913: Stefani, tavv. XLIX, L), oppure l'Autoritratto con Sforni del 1913-14 circa.
In questo periodo l'artista si dedicò all'elaborazione critica della sua monografia su Fattori, edita dalla casa editrice Self dell'amico Sforni, diretta da Papini. Il G. lesse Fattori con occhio cézanniano: "la pittura è fondata unicamente sulla legge di saper trovare il tono giusto di un colore e costringerlo nel suo giusto spazio e che l'emozione che fa sorgere l'idea nella mente del pittore è data soltanto dalle dimensioni dei colori" (L'opera di Giovanni Fattori, Firenze 1913, p. 10). Sintomaticamente il G., in una lettera dell'estate 1914 a Sforni, scriveva a proposito del suo lavoro: "penso tutt'uno a Van Gogh, Cézanne, Fattori" (Stefani, p. 165).
Questa è la divaricazione che si apriva all'interno di una generazione di artisti toscani: l'interpretazione di Cézanne offerta dal G. avrebbe pur sempre qualificato una ricerca legata a Fattori; Soffici invece si avvalse di Cézanne per superare il naturalismo ottocentesco e per tornare alla purezza di Giotto e Masaccio coniugando questi spunti, dopo il 1910, con il cubismo picassiano e la sua adesione al futurismo; non sorprende che il 1913 sia l'anno in cui si incrinavano gravemente i rapporti del G. sia con Papini sia con Soffici, che, come è noto, avevano aderito al futurismo fondando la rivista Lacerba.
Dal 1914 il G. trascorse lunghi periodi a Castiglioncello. Qui si dedicò in prevalenza alla natura morta, un tema a lui profondamente caro, concentrandosi sull'oggetto inteso come elemento formalistico anziché prettamente sentimentale: perciò a una stesura densa di materia andò alternando superfici quasi smaltate.
Nel primo dopoguerra il G. riallacciò i rapporti con i vecchi amici Papini e Soffici. Da questo momento, tuttavia, egli lavorò sostanzialmente appartato pur continuando a ricevere attenzione dalla critica. Ojetti scrisse del G. nel 1920 sulla rivista Dedalo e, nel 1921, lo presentò in una collettiva di arte italiana contemporanea alla galleria Pesaro di Milano. Sempre Ojetti favorì l'acquisto di una sua opera (Il piatto giallo, del 1920-21 circa) da parte del Museo d'arte italiana di Lima. Nel 1926 il pittore prese parte alla storica prima mostra italiana di Novecento a Milano esponendo opere quali Vecchioponcho (1924) e l'Autoritratto del 1906. Tre anni dopo tornò alla Pesaro per una mostra che lo vide esporre accanto ai figli Valentino e Paulo, anch'essi pittori. Risalgono ai primi anni Trenta i ritratti di Giuseppina Pichi, della Piccola Finzi e di Giovanni Querci. Nel 1935 egli prese parte alla sua ultima mostra di rilievo, la seconda Quadriennale di Roma, dove espose un nutrito gruppo di opere. In seguito continuò a operare in una dimensione appartata e intimista.
Il G. morì a Firenze il 24 giugno 1945 dopo una lunga malattia.
Un Autoritratto del G. del 1920 si trova presso la Galleria d'arte moderna di Palazzo Pitti a Firenze, dove si conserva anche il Ritratto di G. Papini eseguito dall'artista nella prima metà degli anni Venti.
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