ORTOPEDIA (XXV, p. 635; App. II, 11, p. 466)
L'o., che fino all'immediato dopoguerra era considerata una specialità "anche" chirurgica, è divenuta una specialità eminentemente chirurgica; mentre prima il gesso costituiva per l'ortopedico il principale ausilio terapeutico e il bisturi veniva usato limitatamente, anche per il costante pericolo d'infezione verso cui l'osso è particolarmente indifeso, le parti si sono poi invertite, tanto che attualmente il trattamento chirurgico delle lesioni ortopediche è generalizzato.
A ciò hanno contribuito essenzialmente l'uso degli antibiotici e un costante perfezionarsi delle tecniche operatorie. Si deve, inoltre, tenere presente il notevole mutamento verificatosi nella patologia ortopedica per il venir meno di alcuni capitoli che si era abituati a considerare come fondamentali della specialità: la poliomielite con i suoi esiti, la tubercolosi ossea, il rachitismo e in minor misura la sifilide ossea. Le acquisizioni più recenti (rispettivamente: il vaccino antipolio, la streptomicina, le norme dietetiche e la penicillina) hanno in pratica reso percentualmente insignificanti questi processi morbosi. I chirurghi ortopedici hanno così potuto rivolgere l'attenzione a nuovi problemi e al perfezionamento delle tecniche operatorie.
Per quanto riguarda il trattamento delle scoliosi sono stati realizzati progressi notevolissimi.
Anzitutto, per una più diffusa e accurata indagine dei soggetti in età scolare (visite mediche scolastiche e sportive), si repertano più facilmente quelle modificazioni del normale atteggiamento del tronco che così spesso sono la spia di una futura deviazione assiale della colonna e che consentono d'instaurare dei precoci provvedimenti profilattici (adeguata ginnastica e adeguata attività sportiva). Quando le curve sono ancora plastiche, si usano degli apparecchi ortopedici correttivi, preceduti o meno da una correzione con apparecchi gessati; i tipi più comunemente usati sono il corsetto lionese e il corsetto di Milwaukee. Nelle scoliosi ormai strutturate, ai vecchi procedimenti di correzione a tappe con apparecchi gessati che avevano il difetto di non assicurare una stabilità del risultato, si è passati alla fissazione della correzione ottenuta mediante un intervento di artrodesi vertebrale. Successivamente, per evitare i tempi preparatori, si è ricorsi alla correzione estemporanea con un sistema di retrattori e di distrattori metallici telescopici (tecnica di Harrington) o mediante tiranti in acciaio (tecnica di Dwyer).
Per la lussazione congenita dell'anca si è sempre più affermato, nella fase di prelussazione, l'uso di particolari tutori che, pur mantenendo centrate le teste femorali nelle cavità acetabolari, permettono l'attività dell'articolazione, consentendo così lo stimolo biologico della funzione.
Nei casi di lussazione conclamata, alla vecchia tecnica di Paci-Lorenz, ormai abbandonata perché troppo traumatizzante, si è preferita una riduzione mediante trazione continua; comunque, al minimo dubbio d'instabilità della riduzione, anziché ripetere inutili tentativi, si preferisce ricorrere alla riduzione cruenta. Anche se la sua adozione non è ancora generalizzata, una tecnica che si va affermando è quella delle osteotomie di bacino (tecnica di Chiari, tecnica di Salter), consistente nel modificare l'orientamento della cavità acetabolare e così creare, pur rispettando l'articolazione, un cotile ben continente.
Nel trattamento del piede torto congenito - in cui la genesi della deformazione scheletrica è ravvisabile nell'abnorme trazione di alcuni muscoli, con conseguente retrazione capsulare - si tende ormai a prediligere il trattamento chirurgico (allungamento del tendine di Achille e soprattutto apertura della capsula posteriore tibioastragalica). Questo dev'essere eseguito molto precocemente, intorno al 30°-40° giorno di vita.
La terapia tradizionale, invece, era basata su tentativi di detendere le formazioni retratte mediante correzioni manuali a tappe, fissando ogni volta il risultato ottenuto con l'applicazione di apparecchi gessati per un periodo di otto-dieci mesi; i risultati non erano mai molto soddisfacenti in quanto la correzione avveniva non tanto a spese delle formazioni retratte quanto dello scheletro del piede, a quell'età quasi totalmente cartilagineo e quindi particolarmente vulnerabile.
Un notevole progresso si è avuto nella terapia delle compressioni radicolari (sciatiche, cruralgie, brachialgie) da ernie discali.
Standardizzato il quadro clinico corrispondente alle radici più comunemente interessate, è generalmente facile stabilire il livello della compressione. Nei casi dubbi sia per la diagnosi differenziale, sia per stabilire il livello della lesione, si può ricorrere a una mielografia con liquido opaco riassorbibile e quindi scevro da gran parte dei pericoli riscontrati con le precedenti metodiche. Il trattamento chirurgico si è ormai universalmente affermato. Esso consiste in una emilaminectomia e asportazione del tessuto discale erniato. Per quanto riguarda la colonna cervicale si va affermando la tecnica di Cloward, consistente nell'aggressione anteriore, anziché posteriore, della colonna cervicale. Ciò consente sia uno svuotamento completo dello spazio intervertebrale e l'asportazione dell'ernia e degli osteofiti posteriori che sporgono nel canale midollare, sia l'incastro di un frammento di osso iliaco fra le due superfici dei corpi vertebrali in modo da ricostituire l'altezza dello spazio intervertebrale diminuito per effetto della degenerazione discale.
Innovazioni veramente rivoluzionarie si sono avute nel campo della chirurgia riparatrice delle articolazioni quando queste risultino compromesse per cause differenti ma che riproducono lo stesso effetto: incongruenza dei capi articolari, degenerazione del rivestimento cartilagineo e quindi dolori e rigidità articolari.
Mentre precedentemente i tentativi chirurgici, generalmente non coronati da successo, erano limitati all'interposizione di materiali in genere biologici (fascia lata, pelle) o metallici (cupola di Smith-Petersen) con l'intento di favorire lo scorrimento dei capi articolari, si è successivamente affermato il concetto di sostituzione articolare che può riguardare uno solo dei capi articolari oppure tutta l'articolazione. Nel primo caso si parla di endoprotesi, generalmente usate per sostituire la testa omerale o la testa femorale. In quest'ultimo caso la pratica tende a soppiantare le metodiche di osteosintesi nelle fratture del collo femorale (inchiodamenti, avvitamenti) i cui risultati, soprattutto a distanza di tempo, si sono dimostrati insoddisfacenti. Le protesi sono costituite da una sfera metallica dell'identica grandezza della testa femorale rimossa, unite fissamente (protesi di Moore, di Thompson) o a incastro mobile (protesi di Christiansen) a un collo e a un gambo metallico che viene introdotto nel canale midollare del femore. Invece nella soluzione più radicale, alla quale si deve ricorrere quando tutta l'articolazione è interessata, si sostituiscono entrambi le componenti articolari con una protesi totale o artroprotesi. Le indicazioni a tale intervento sono rappresentate da tutte le forme di degenerazione artrosica primitive (artrosi deformante) o secondarie a processi infiammatori, a lesioni traumatiche (fratture articolari, lussazioni), a processi reumatici (malattia di Bechterew, artrite reumatoide), a displasie congenite. I tipi di protesi totale sono molti e grosso modo si possono suddividere a seconda del materiale usato nella costruzione e a seconda del tipo di fissazione all'osso. Per l'anca l'abbinamento dei due componenti articolari può essere metallo-metallo (protesi di Ring, protesi di McKee) oppure metallo-plastica (protesi di Charnley, protesi di Müller, protesi di Lagrange e Letournel). Per quanto riguarda la fissazione all'osso, questa può avvenire mediante semplice contatto, con o senza incastri (protesi di Ring, di Schivaz), oppure mediante una sostanza cementante.
Attualmente, poiché tale cemento osseo è considerato il responsabile di processi infiammatori che, se pure molto rari, assumono particolare gravità, in quanto costringono alla rimozione della protesi, sono allo studio delle protesi in porcellana che per la loro porosità rendono superfluo tale mezzo di fissazione consentendo uno stretto legame con l'osso. Finora, comunque, la preferenza è andata alle protesi metallo-plastica fissate con cemento. I risultati si sono dimostrati particolarmente brillanti anche a distanza di tempo (esiste un'esperienza ormai quasi ventennale), sia per quanto riguarda la scomparsa dei dolori, sia per il ricupero di un movimento articolare molto soddisfacente.
Per il ginocchio la maggior parte delle protesi metalliche sono composte da due steli che vengono introdotti nei canali midollari del femore e della tibia e riuniti da un perno. Alcune protesi non usano fissazione (Waldius), altre vengono fissate con cemento (Trillat, Guepar). Altre protesi invece non sono cernierate, ma i due componenti (in genere uno di metallo, l'altro di plastica) sono a scivolamento reciproco e ovviamente possono essere usate solo quando è conservata l'integrità dell'apparato legamentoso. Le protesi a scivolamento hanno in genere la componente femorale di metallo, quella tibiale in plastica; alcune sacrificano i legamenti crociati (protesi di Freeman), altre invece sono costruite in maniera da rispettarli (protesi geomedica). Il vantaggio delle protesi a scivolamento sta sia nell'eliminazione degli spazi morti dovuti alla cerniera, sia soprattutto nel fatto che rendono superflui gli steli introdotti nel canale midollare e che sono spesso fonte di complicazioni.
Buoni risultati ha dato l'artroprotesi di gomito mentre ancora del tutto sperimentali sono quelle per il polso e l'articolazione tibio-tarsica.
Un tipo particolare di protesi articolare è quello costruito per le piccole articolazioni delle dita; consiste in un unico pezzo di silicone foggiato in maniera da terminare con due steli sottili che vengono introdotti nelle cavità midollari delle falangi o dei metacarpi; in questo caso il movimento articolare non è garantito né da una cerniera, né dallo scivolamento reciproco dei componenti della protesi, ma unicamente dall'elasticità del materiale con cui è costruita la protesi.
Tutti questi tipi di protesi articolari sono in genere ben tollerati, tanto che solo in casi eccezionali si hanno fenomeni d'intolleranza da corpo estraneo. Le complicazioni che si possono avere, anche se relativamente rare, sono: un processo infettivo che, come già detto, è particolarmente temibile perché costringe alla rimozione della protesi, e la mobilizzazione della protesi per la perdita di presa sull'osso; quest'ultimo inconveniente è ovviabile con un reintervento per ottenere una migliore fissazione.
Per quanto riguarda le protesi esterne per amputati, recentemente ha trovato pratica applicazione nelle protesi dell'arto superiore il comando bioelettrico e bioelettropneumatico, che utilizzano come segnale per il movimento i potenziali di azione generati da alcuni gruppi muscolari durante la fase di contrazione.
Quando un muscolo entra in contrazione, si determina ai suoi estremi una differenza di potenziale elettrico che può essere registrata per mezzo di elettrodi di superficie applicati in particolari zone della superficie cutanea corrispondenti al muscolo in esame. Orbene, la captazione di questi potenziali di azione, debitamente amplificati, permette la chiusura di un circuito e quindi la messa in moto di un micromotore che aziona la protesi.
Si può quindi definire il comando bioelettrico come l'utilizzazione meccanica pratica del segnale generato dal muscolo in contrazíone mediante i cosiddetti "potenziali di azione".
Schematicamente, la protesi si compone di un'invasatura di resina epossidica che deve adattarsi perfettamente al moncone di amputazione, di un amplificatore, di una batteria, e di un micromotore.
Perché una protesi bioelettrica possa funzionare è necessario reperire sul moncone di amputazione due zone cutanee che rappresentano i punti ottimali per la captazione dei potenziali di azione dei flessori e degli estensori; a questi punti si faranno corrispondere gli elettrodi di superficie situati sulla faccia interna dell'invasatura. Si otterranno quindi due segnali provenienti da gruppi muscolari antagonisti che determineranno i due movimenti della protesi: apertura e chiusura delle dita. Questi potenziali, captati dagli elettrodi di superficie, sono assai deboli e precisamente dell'ordine di alcune decine di microvolt; quindi, per essere utilizzati, devono essere amplificati circa 30-40.000 volte da un amplificatore a transistors. L'amplificatore e le batterie al nichel-cadmio sono generalmente allogate in una cintura mentre il micromotore viene situato nella protesi in corrispondenza del polso.
I vantaggi della protesi a comando bioelettrico sono essenzialmente i seguenti: risposta immediata del movimento allo stimolo bioelettrico, possibilità di arrestare il movimento in qualsiasi posizione, e soprattutto la possibilità di mantenere il movimento di prono-supinazione senza interferire sull'apertura e chiusura delle dita.
Quando lo stimolo bioelettrico viene utilizzato per azionare al posto di un micromotore elettrico un muscolo artificiale che sfrutta la forza espansiva di un gas, si realizza la protesi bioelettropneumatica.
In questa protesi lo stimolo amplificato, anziché chiudere un circuito, viene a determinare l'apertura di una valvola permettendo al gas compresso contenuto in una bombola di azionare un qualsiasi motore pneumatico a espansione, a pistone, ecc. Oltre che nelle protesi per arto superiore, questo principio può essere applicato anche nelle ortesi, utilizzando come comando i muscoli mimici e orbicolari, permettendo quindi a grandi invalidi (per es. tetraparetici) di usare, seppure limitatamente, gli arti superiori.