ORTOGRAFIA e ORTOEPIA (dal gr. ὀρϑός "giusto, retto" e γράϕω "scrivo", εἰπεῖν "parlare")
ORTOEPIA L'ortografia dà le nome per scrivere correttamente una lingua, l'ortoepia invece insegna a rettamente pronunziarla; sono quindi due parti della grammatica strettamente connesse; ma in nessun caso, nemmeno in quello di sistemi ortografici strettamente fonetici, l'ortografia riesce a rappresentare senza possibilità di equivoco la pronunzia tipica di una lingua, quella cioè che è considerata come la "pronunzia corretta" per eccellenza.
La maggiore o minore bontà dell'ortografia dipende dal numero dei segni di cui si dispone per rappresentare i suoni della lingua parlata, perché è cosa accettata da tutti che l'ortografia ideale sarebbe quella in cui ogni segno rappresentasse costantemente un solo suono, e ogni suono fosse sempre rappresentato da un solo segno; ma a questo ideale si oppongono difficoltà, d'ordine teorico e pratico, quasi insuperabili.
La fonetica sperimentale ha dimostrato che i suoni di una lingua non sono pronunziati precisamente nello stesso modo da tutti i parlanti: anzi, la pronunzia di ogni fonema presenta un grandissimo numero di varietà, generalmente piccole, che spesso divergono notevolmente dalla pronunzia tipica; d'altro canto, l'analisi della lingua parlata può indicare un numero differente di suoni, secondo i varî analizzatori: basta pensare alle grafie correnti dei dialetti italiani in confronto a quelle usate dai fonetisti e dai glottologi, e confrontare tra di loro le grafie di questi ultimi, per accorgersi subito quanto possano differire tra di loro i risultati, secondo che l'analisi sia più o meno spinta e i criterî adottati siano più o meno rigorosi. Anche nella lingua parlata comune si possono dare differenze notevoli circa i suoni costituenti: si pensi, p. es., che gl'Italiani del nord e quelli del sud non riescono a percepire la differenza tra e aperta ed e chiusa, tra o aperta e o chiusa, differenza invece assai sentita nell'Italia centrale; e mentre i primi sono convinti che la lingua italiana ha soltanto un'e e un'o e i secondi pensano che i suoni sono almeno quattro, i fonetisti ne riscontrano un numero maggiore.
D'altro canto, un'ortografia che cerchi di riprodurre l'ortoepia di una lingua non potrebbe farlo, in ogni caso, se non incompletamente perché dovrebbe trascurare un'infinità di particolari circa l'intonazione, l'intensità, il modo di raggruppare i suoni in gruppi espiratorî, che pure sono importantissimi per un'esatta riproduzione della pronunzia; non potrebbe quindi sostituirsi all'insegnamento dato dall'esempio di una persona che abbia una pronunzia corrispondente in massima alla pronunzia tipica.
In ogni modo, anche superando le difficoltà qui prospettate, anche rinunziando all'ambizioso ideale di rendere graficamente tutte le particolarità ortoepiche per limitarsi a registrare quelle soltanto che sono significative, cioè che valgono a distinguere il significato di due parole simili, quest'ortografia razionale prima o poi diverrebbe antiquata: da ortografia fonetica si cambierebbe in ortografia storica, etimologica, quali sono le ortografie delle lingue che hanno una più lunga tradizione letteraria. Ortografie che oggi si allontanano grandemente dalla pronunzia, come quelle del francese e dell'inglese, resero, a un certo momento della storia di quelle lingue, abbastanza bene la pronunzia; solamente, l'evoluzione fonetica di quelle parlate è stata molto più rapida di quella dell'italiano e dello spagnolo; e questo è il motivo per cui le grafie del francese e dell'inglese sono cattive, mentre quella dell'italiano e del tedesco sono abbastanza buone, e quella dello spagnolo è una delle migliori. Le lingue che si sono creata l'ortografia in tempi relativamente recenti (come il cèco, il croato, ecc.) si avvicinano molto all'ideale della grafia fonetica, quantunque per gl'Italiani, poco abituati ad accenti e segni diacritici, la grafia da esse adottata sembri troppo complicata.
Tra i fatti che più contribuirono a fissare l'ortografia, furono senza dubbio l'invenzione della stampa e la diffusione dell'istruzione; specialmente in paesi, come l'Italia, dove i dialetti sono vivaci, la lingua comune è una lingua che si apprende sui libri e sui giornali: essa si presenta sotto la forma scritta, tradizionale; e bastano piccole modificazioni ortografiche per rendere la lettura e la comprensione più difficili: si pensi, p. es., agli ostacoli che trova una persona di media cultura, che non sia un letterato o un filologo, a una rapida lettura di un libro stampato nel Seicento con le ʃ lunghe e ti al posto di zi. La riluttanza alle innovazioni spiega il fallimento dei tentativi di riforma della grafia tradizionale, anche quando si trattava di modifiche lievissime.
Una storia della formazione dell'ortografia italiana non si è finora tentata; è quindi impossibile spiegare come l'ortografia del latino si sia venuta modificando, per opera del clero e dei notari, per rispondere ai bisogni della nuova lingua. Certo è che ciò non avvenne sistematicamente e che la tradizione ortografica italiana si fissò soltanto durante il Rinascimento e per opera degli stampatori (importantissimi in questo campo l'opera e l'esempio di Aldo Manuzio). Tale adattamento, combattuto tra il desiderio di tenersi fedele quanto più fosse possibile alle tradizioni erudite del latino e quello di rispecchiare la pronunzia toscana, sboccò in un compromesso, che ben presto fu trovato poco soddisfacente: si scriveva infatti ynno, thosco, excellentia, justitia, scripto, hoggi, extrahere, e la grafia trascinava con sè la pronunzia. Il maggior clamore tra le critiche fu suscitato da quelle di G. G. Trissino, il quale, come avviene sempre a chi usa una lingua che non è la sua dalla nascita, trovava necessario che la scrittura indicasse esattamente tutti i suoni, per evitare gli errori contro l'ortoepia. Egli infatti, nello stampare la sua tragedia Sofonisba (1524), usò ε per l'e aperta, ω per l'o aperta, ζ per la z dolce e distinse con j e v i suoni consonantici di i e u; nel 1529 poi fece un altro passo e propose ς per s dolce, k per ch davanti a i atono e lj per gl palatale. Ma delle sue proposte soltanto quella di distinguere u e v ebbe buon esito; le altre fallirono sia per l'infelice introduzione di lettere greche, che male si accordavano con le lettere latine, sia anche perché coloro che osteggiavano le sue idee circa la lingua italiana da basare sull'uso cortigiano, e che in maggior parte erano toscani, coinvolsero nella loro avversione le proposte trissiniane, per loro inutili. Tuttavia, anche un avversario del Trissino come Claudio Tolomei riconosceva la convenienza di liberare l'ortografia dalle complicazioni etimologizzanti introdotte dagli umanisti e di rendere l'ortografia più conforme alla pronunzia. Egli stesso diede l'esempio di scrivere vizio invece di vitio e ninfa invece di nimpha.
Le nuove proposte di riforme ortografiche nei secoli seguenti, non ebbero eco alcuna; e solo nella prima metà dell'Ottocento, G. Gherardini, in varî suoi scritti e da ultimo nella sua Lessigrafia italiana (1849), propugnò un'ortografia latineggiante, basata su criterî etimologici: voleva si scrivesse io facio, noi sapiamo, mi piacia, difùndere, abundare, cultivare, dùbio, febre, produtto, calculo, à, ànno (invece di ha, hanno); ma la proposta non ebbe alcun risultato.
In tempi più recenti sostennero la necessità di una riforma ortografica in senso fonetico, tra gli altri, L. Gelmetti, B. Rinaldi, C. Frisoni, i fisiologi L. Luciani e S. Baglioni, P. G. Goidánich, che nel 1910 fondò anche la Società ortografica italiana.
È indubitabile che attualmente l'ortografia italiana, anche a prescindere dai difetti rilevati dai seguaci dell'ortografia fonetica, non ha una regola fissa su moltissimi punti, che pure sarebbero facilmente regolabili: uso degli accenti acuto e grave, accentazione delle parole non piane, uso delle maiuscole, uso del tratto d'unione; plurale delle parole in cia e gia, delle parole in io con i atono, ecc. In quest'ultimo caso, oltre alla semplice i, sono più o meno usate le forme ii, j, ï, i' (N. Zingarelli) e î (quest'ultima adottata dall'Enciclopedia Italiana). E non si è neanche avuto il coraggio di modificare la grafia di soqquadro, unica parola ancora in uso scritta con due q.
In quanto all'ortoepia, si è d'accordo nel riconoscere come norma l'uso fiorentino delle persone colte: ma anche di questo non si segue la pronunzia della g dolce, della c dolce, la cosiddetta aspirazione; inoltre nella pronunzia dell'e e dell'o qualche volta si contravviene all'uso toscano, e generalmente non si sostituisce l'ò al dittongo uò.
L'ortografia nancese è, come si è detto, poco soddisfacente anche dal punto di vista della regolarità e della eoerenza. Formatasi a poco a poco, nel sec. XII rappresentava abbastanza bene la pronunzia; ma, sotto l'influenza degli scrivani e dei legali, essa fu ricondotta alla grafia delle parole latine, secondo ravvicinamenti etimologici spesso arbitrarî, trascurando le modificazioni che si verificavano nella pronunzia: le consonanti erano non di rado considerate come semplici segni diacritici per distinguere gli omofoni e i varî suoni delle vocali: si scriveva ung perché non si confondesse con VII (nel corsivo ciò poteva avvenire); repcevoir, cheuaulx, enuieulx, congnoistre, soubzsigné, cueur, faict, presbtre, esmoy. Quando Robert Estienne, coi suoi dizionarî latino-francese e francese-latino, venne a codificare l'ortografia, non solo si attenne a questo criterio della "differenziazione", ma lo applicò col maggior rigore e unificò la grafia delle parole che appartenevano a una stessa famiglia. Il suo sistema fu adottato da tutti, compreso il Dictionnaire del 1694 dell'Académie Française. Spetta a Ronsard il merito di avere propugnato la distinzione di j e v da i e u, già proposta da P. de La Ramée (Ramus), e l'introduzione degli accenti acuto e circonflesso sulle vocali nell'interno delle parole, il che permetteva di eliminare molte consonanti parassite. Questa ortografia si diffuse ad opera delle edizioni di C. Plantin e dei Waesberg, e specialmente di quelle degli Elzeviri, che nel sec. XVII inondarono la Francia. Ma solo nell'edizione del 1740 del suo Dictionnaire l'Académie accolse queste riforme, insieme con l'accento grave introdotto da P. Corneille. Dopo di quell'epoca sono da notare la sostituzione di ai a oi nelle parole in cui questo diagramma si pronunziava già da gran tempo e aperta, cosa già praticata dal Voltaire, accolta nell'edizione del 1835 (étoit diventa était, franåois si scrive franåais, monnaie sostituisee monnoie), le lievi modificazioni dell'edizione del 1878 e le tolleranze nell'ortografia sintattica adottate con decreto del ministro della Pubblica Istruzione del 1901.
Con una simile ortografia, è naturale che i trattati di ortoepia per il francese siano numerosissimi: essi si basano tutti sulla pronunzia della buona società parigina.
L'ortografia spagnola è invece una delle migliori che si conoscano. Fissata nel 1492 da A. de Nebrija nella sua Gramática Castellana, si mantenne intatta sino agl'inizî del sec. XVIII, benché la lingua avesse nel frattempo perduto alcuni dei suoni indicati. L'Academia Española sino dalla sua fondazione (1713) stimò conveniente mettere d'accordo ortografia e pronunzia, pur tenendo presente l'etimologia, e con le riforme successive del 1726 (sostituzione di z a å soppresso: alåar diventa alzar); aggiunta di un'h muta alle parole che l'avevano in latino (ombre si scriverà hombre); del 1763 (soppressione di ss, sostituite con la semplice s: altissimo diviene altísimo), del 1803 (soppressione di ch, ph, u etimologiche nelle parole prese a prestito dal latino: chimera quimera, philosophia filosofia, mathematica matématica); del 1815 (sostituzione di cu a qu allorché la u si fa sentire: qual, questión diventano cual, cuestión; di j a x quando questa si pronunziava come la prima: dixo è sostituito da dijo); del 1884 (ammissione di rr intervocalica nei composti: virey è scritto virrey); del 1911 soppressione dell'accento delle particelle á, ó e simili) ha creato un'ortografia semplice, chiara e abbastanza aderente alla pronunzia; né ha trascurato di occuparsi d'indicare l'accento tonico, con un sistema ottimo, e della punteggiatura.
Le riforme, in senso anche più strettamente fonetico, di A. Bello e J. García del Río (1823) non ebbero successo; alcune di quelle decretate nel 1844 dalla Facoltà di filosofia e lettere di Santiago de Chile, su proposta di D. F. Sarmiento, hanno attecchito nel Chile (sostituzione di j a g, davanti e; i, lei, virrei e simili invece di y, ley, virrey, ecc.).
Anche l'ortografia tedesca è abbastanza buona, quantunque in alcuni casi le consonanti siano fatte servire a indicare modificazioni nella qualità e nella quantità delle vocali precedenti. Anche qui si nota nella storia dello sviluppo dell'ortografia il fenomeno già riscontrato nel francese, cioè che l'ortografia, fonetica nei secoli XII-XIV, va col volgere dei secoli diventando irregolare e arbitraria: si hanno grafie come unndt, offt, wirdt, umb, sampt, Thurm, Wirth, thun e tuhn. Il movimento inverso comincia con Lutero ed è, nelle sue grandi linee, sistematizzato da J. C. Gottsched, il quale però introduce piccole differenze di grafia per distinguere gli omofoni (Masse "massa", Masze "misura"; malen "dipingere", mahlen "molire"; Wal "balena", Wahl "scelta"; her "qui", hehr "sublime", Heer "esercito", Herr "signore"; Fiber "castoro", Fieber "febbre", ecc.); una grafia storica propugnano invece J. C. Adelung e J. Grimm. Per una grafia regolata sull'ortoepia combatté a lungo il pedagogista e geografo R. v. Raumer, e nel 1876 una conferenza ortografica tenuta a Berlino e da lui presieduta approvò le norme della nuova ortografia, chiamata, dal nome del ministro del Culto che la mise in vigore, ortografia Puttkammer, che nel 1879 fu prescritta per le scuole della Baviera e nel 1880 introdotta nell'insegnamento prussiano. Il cancelliere Bismarck proibì che si adoperasse nella corrispondenza ufficiale, ma la nuova ortografia guadagnò terreno, nonostante tutte le opposizioni. A rimuovere alcune differenze tuttavia praticate in Germania, Austria e Svizzera fu riunita un'altra conferenza ortografica a Berlino nel 1901, che apportò qualche piccola modificazione (sostituzione di f a ph e t a th nelle parole tedesche, e sostituzione di c con k o z, secondo i casi, nei "Fremdwörter"). L'unificazione dell'ortografia così raggiunta è tanto più importante, in quanto, data la varietà di pronunzia che si riscontra nel territorio della lingua tedesca, su di essa si regola la Bühnenaussprache (pronunzia del teatro), che è la norma ortoepica del tedesco.
Dal punto di vista fonetico, la peggiore ortografia è quella inglese, seconda soltanto a quelle del tibetano e dell'irlandese. Anche qui, si è partiti da un'ortografia fonetica per arrivare a un'ortografia storica addirittura caotica, sia per le profonde modificazioni verificatesi nella pronunzia, sia per l'importanza dei successivi apporti linguistici che conservano l'ortografia originale, sia anche per il fatto che dopo la conquista normanna, i suoni inglesi furono riscritti secondo un'ortografia che si può chiamare anglo-francese. L'attuale ortografia è, grosso modo, quella usuale nel periodo elisabettiano, che aveva subito il solito influsso della mania etimologizzante: il risultato è che i 44 suoni dell'inglese sono rappresentati da più di 500 simboli e combinazioni di lettere.
Innumerevoli sono state le riforme proposte; una sola ebbe una vasta eco e un certo successo. Il Simplified Spelling Board, fondato in New York nel 1906 e presieduto da J. Brander Mathews, pubblicò una lista di 300 parole con grafia semplificata: il presidente Th. Roosevelt ne ordinò l'adozione negli stampati ufficiali, ma le proteste furono tali che l'ordine fu ritirato. Tuttavia, alcune delle proposte sono state generalmente adottate negli Stati Uniti, dove molti scrivono honor, favor invece di honour, favour; catalog invece di catalogue; program invece di programme; altho, thro invece di although, through, e simili.
Ancora minore successo ha avuto la radicale riforma, che, ritenendo unico ostacolo all'adozione dell'inglese come lingua internazionale l'ortografia, è stata proposta da H. E. Zachrisson col nome di Anglic (v. internazionali, lingue).
La pronunzia dell'inglese, il cui dominio è così vasto, presenta grandissime varietà, aggravate dal fatto che l'inglese ha una grande serie di vocali pure; per l'Inghilterra la base ortoepica è data dalla pronunzia del sud, mentre per gli Stati Uniti non c'è una base territoriale; le differenze fra la pronunzia americana e l'inglese non sono indifferenti. Delle ortografie delle altre lingue non è qui possibile parlare: solo è da notare che dopo la rivoluzione del 1917 i Sovieti hanno abolito alcune lettere inutili dell'alfabeto cirillico (tverdyj znak, jat′, i s točkoj, fita); però la grafia resta ancora in parte storica e, per es., sotto l'influenza dello slavo ecclesiastico, il genitivo dei nomi continua a essere scritto ogo, mentre si pronunzia avo.
Bibl.: Per l'italiano è fondamentale l'ottimo manuale di G. Malagoli, Ortoepia e ortografia italiana moderna, 2ª ed., Milano 1912, con numerose indicazioni bibliografiche. Circa la storia dell'ortografia: F. Sensi, M. Cl. Tolomei e le controversie sull'ort. it. nel sec. XVI, in Atti Acc. Lincei, serie 4ª, VI (1890); F. Zambaldi, Delle teorie ortogr. in Italia, in Atti del R. ist. veneto, serie 3ª, III (1892); C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano 1908. Proposte di riforme: L. Gelmetti, Riforma ortografica, ivi 1886; B. Rinaldi, Per l'unificazione dell'ort. it., Torino 1890; C. Frisoni, Sull'alfabeto italiano, ivi 1890; id., Una riforma nell'ort. it., Alatri 1907; L. Luciani, Per la rif. ortogr., Roma 1910; P. G. Goidánich, Sul perfezionamento dell'ortografia it., Modena 1910; S. Baglioni, Udito e voce, Roma 1925.
Per il francese: C. Beaulieu, Histoire de l'orthographe française, volumi 2, Parigi 1927; J. Brunot, La réforme de l'orthographe, ivi 1905; A. Dutens, Étude sur la simplif. de l'orthographe, ivi 1907. - M. Grammont, Traité pratique de pronunciation française, ivi 1916.
Per il tedesco: W. Wilmanns, Die Orthographie in den Schulen Deutschlands, 2ª ed., Berlino 1887; O. Brenner, Die lautlichen und geschichtl. Grundlagen unserer Rechtschreibung, 2ª ed., Monaco 1914; R. Erbe, Fragezeichen zur neuesten Gestaltung der deutschen Rechtschreibung, 3ª ed., Stoccarda 1919; O. Kosog, Unsere Rechtschreibung und die Notwendigkeit ihrer gründl. Reform, Lipsia 1912. L'ortografia è fissata in K. Duden, Rechtschreibung d. deutschen Sprache und der Fremdwörter, 10ª ed., Lipsia 1915. - T. Siebs, Deutsche Bühnenaussprache, 14ª ed., Colonia 1927.
Per l'inglese: A. J. Ellis, On Early English Pronunciation, voll. 5, Londra 1869-89; H. Sweet, History of English Sounds, 2ª ed., Oxford 1888; H. Hart, Rules for Compositors and Readers at the University Press, Oxford, 29ª ed., Londra 1930; T. R. Loundsbury, English Spelling and Spelling Reform, New York 1909; D. Jones, The Pronunciation of English, Cambridge 1909; id., The Englih pronouncing Dictionary, New York 1926; H. E. Palmer, Dictionary of English pronunciation, Londra 1926; British Broadcasting Corporation, Recommendations for pronouncing doubtful words, Oxford 1929; G. E. Fuhrker, Standard English speech, Londra e New York 1932.
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