ornatus
La teoria e precettistica dell'o. occupa un posto importante, e talora preponderante, nelle pagine dei trattati di retorica e soprattutto di poetica medievali: ad esempio nella più significativa (e così influente sulla cultura italiana) di queste opere, la Poetria nova di Goffredo di Vinsauf (certamente nota a D.), la trattazione dell'o. prende oltre metà del testo. Nonostante la tendenza, frequente in tali testi, a un'esemplificazione formalistica e quasi ludica dei vari ornamenti dello stile, questi sono tuttavia messi in un rapporto di congruenza - almeno nelle intenzioni programmatiche - col livello contenutistico del discorso cui si applicano. Anzitutto dunque l'uso dei colori e ornamenti stilistici è rapportato dai trattatisti, spesso con minuta esemplificazione, negativa e positiva, alla distinzione fondamentale dei tre gradi dello stile (alto, mediocre, umile o sinonimi) e alla loro relativa ragion d'essere tematica e sociologica (v. particolarmente la Poetria di Giovanni di Garlandia). Accanto a questa tripartizione (e senza che i rapporti fra i due schemi siano sempre chiari ed esplicitati) si afferma a un certo punto nella tradizione retorica medievale l'abitudine di classificare i vari procedimenti di stile entro le due categorie dell'o. facilis (od ornata facilitas) e dell'o. difficilis (ornata difficultas): rispettivamente collegati, se del caso, allo stile medio e a quello alto o sublime. I due livelli dell'o. sono caratterizzati ognuno dalla presenza di determinate figure e colori: caratteristico dell'o. difficilis è in particolare l'uso dei tropi e specie dello stile metaforico (transumptio), mentre all'o. facilis appartengono i cosiddetti ‛ colori retorici ' (ad es. l'annominatio), la determinatio, ecc.: naturalmente si ricava dai testi o è da arguire che (come anche nella teoria dantesca dei vari gradi della constructio: VE II VI 2 ss.) nell'o. difficilis non siano necessariamente esclusi ma possano essere inclusi i procedimenti che caratterizzano il facilis (ma non viceversa, ovviamente), o che certi ornamenti siano comuni ai due livelli (per es. la conversio). Il tutto è spiegato dai trattatisti con puntigliosa dovizia di classificazioni ed esemplificazioni, che attingono largamente ai precetti della retorica classica, in particolare la Rhetorica ad Herennium.
In questa sede non è possibile affrontare il problema dei riflessi che la precettistica delle poetriae medievali ha sopra la concreta prassi stilistica di D.: ma certamente si tratta di un campo di applicazione critica che, come per tutta la letteratura medievale più colta, anche per D. può dare eccellenti risultati, e lo mostrano già i primi tentativi approfonditi fatti in questa direzione (si allude specialmente alle pagine del Boyde, Dante's Style in his Lyric Poetry, sul rapporto fra certi aspetti del linguaggio lirico di D. e la teorizzazione di determinati ornamenti stilistici nei trattatisti, ad es. della conversio com'è presentata da Goffredo di Vinsauf). Qui ci si limiterà al piano teorico. Richiamando anzitutto come nel De vulg. Eloq. (l'Ep XIII è naturalmente più apodittica) D. accolga non solo la tradizionale dottrina della tripartizione stilistica, ma anche la conseguente distinzione (da lui largamente esemplificata, almeno per la tragoedia) dei concreti piani di linguaggio e scelte stilistiche che si confanno ai singoli livelli (V. CONSTRUCTIO; STILI, DOTTRINA degli; VOCABOLI, TEORIA dei): ed è significativo che in queste pagine del trattato (soprattutto in quelle sui vocaboli) s'infittiscano le analogie terminologiche con la trattatistica latina medievale, specie l'Ars versificatoria di Matteo di Vendôme e, ancor più, la Poetria nova. Non compaiono invece esplicite riprese della classificazione dei fatti di stile nelle due categorie dell'o. facilis e difficilis, ma si può supporre che la teorica dei vari gradi della constructio (v.) recuperi implicitamente alcuni elementi di quella tradizionale distinzione.
Più importanti sono però gli spunti di D. - fra Convivio e De vulg. Eloq. - nel senso di una dottrina complessiva dell'ornatus. I termini teorici generali nei quali D. inquadra la sua concezione dell'o. sono quelli comuni al pensiero medievale (e in parte già classico): la nozione dell'o. come qualcosa di separato e separabile dal contenuto o significato (sententia) dell'opera, aggiunto ad esso (additio), e più in genere della bellezza come ‛ veste ' esteriore del pensiero; ma anche la nozione che integra e in parte corregge questo punto di vista, cioè il principio della necessaria corrispondenza o convenientia fra sententia e ornatus (v. CONVENIENZA). Si può dire che le opinioni di D. in materia si muovono entro questi due termini, nello spazio di problemi lasciati aperti dalla loro perdurante divaricazione; e che in sostanza egli tende, coi mezzi propri di tutta una tradizione teorica, a una concezione non superficiale e non meramente formalistica dell'ornatus.
Va precisato che i trattatisti di retorica a D. precedenti e noti, se da un lato finivano spesso con l'approdare, nel loro manierismo ed edonismo esemplificatorio, proprio a quella presentazione estrinseca dei problemi dell'o. che imbarazza D., d'altro canto si mostrano, sul piano teorico, generalmente consci dei pericoli insiti in simili posizioni, e pronti a sottolineare fortemente il momento della convenientia e la necessità di una nozione più pregnante e di sostanza dell'o. stesso, più legata alle esigenze e ai livelli del contenuto. Così ad es. Goffredo di Vinsauf inizia la trattazione degli ornamenti dello stile nella Poetria nova (ediz. Faral, vv. 737 ss.): " Sit brevis aut longus, se semper sermo coloret / intus et exterius, sed discernendo colorem / ordine discreto. Verbi prius inspice mentem / et demum faciem, cujus ne crede colori: / se nisi conformet color intimus exteriori, / sordet ibi ratio: faciem depingere verbi / est pictura luti, res est falsaria, ficta / forma, dealbatus paries et hypocrita verbum / se simulans aliquid, cum sit nihil ", ecc.; ancor più chiaramente all'inizio della parte corrispondente del Documentum de arte versificandi (ediz. Faral, pp. 284-285): " nec facilitas ornata nec difficultas ornata est alicujus ponderis, si ornatus ille sit tantum exterior. Superficies enim verborum ornata, nisi sana et commendabili nobilitetur sententia, similis est picturae vili quae placet longius stanti, sed displicet propius intuenti. Sic et ornatus verborum sine ornatu sententiarum audienti placet, diligenti intuenti displicet ". Preoccupazioni del genere tornano, accentuate, in testi retorici del Duecento italiano, più solleciti di un'utilizzazione spirituale o civile dei precetti dell'ars dictandi.
Bene da Firenze nel Candelabrum, inquadrando l'ornato del discorso umano nel tentativo di adeguare il verbum nostrae fragilitatis al " verbo divinitatis aeterno, in quo est omnimoda elegantia et suavitas et ornatus ", distingue due tipi di ornamento, caratterizzando la vera eleganza come compresenza di entrambi: " sicut homo intrinsecus et extrinsecus est ornatus, ita sermo ipsius utroque gaudeat ornamento. Sed quaedam dignitas est verborum, et illa depingit orationem extrinsecus et colorat, et quaedam dignitas medullam tantum sententiarum attingit, quae ornatum intrinsecus operatur. Ubi vero utraque intervenit exornatio, ibi est omnimoda gratiae plenitudo " (cfr. G. Vecchi, Temi e momenti d'arte dettatoria nel ‛ Candelabrum ' di Bene da Firenze, in " Atti e Mem. Deputazione St. Patria Prov. Romagna " n.s., X [1958-59] 120-121).
E Brunetto Latini, fra i vari avvertimenti analoghi che sono disseminati nella Rettorica e nel Tresor, volti a richiamare a un uso non formalistico della retorica e a un o. connaturato a sostanziosità di contenuti e di dottrina, scrive ad es. (Tres. III X 3): " Mais comment que ta parleure soit, ou par rime ou par prose, esgarde que ti dit ne soient maigre ne sech, mais soient replain de jus et de sanc, c'est a dire de sens et de sentence. Garde qu'il n'aportent laidures nules, mais la bele coulour soit dedens ou dehors, et la science de rectorique soit en toi peinturiere, ki mete la coulour en risme et en prose. Mais garde toi de trop poindre, car aucunefois est couleur a eschiver couleur ", passo che, com'è stato dimostrato da R. Crespo, ricalca, generalizzandone la portata, i vv. 1873 ss. della Poetria nova, di cui basterà riportare gli ultimi: " Nec veniant [verba] facie turpi, sed et intus et extra / sit color et pingat manus artis utrumque colorem. / Attamen est quandoque color vitare colores ").
D'altra parte la polemica dantesca verso una concezione meramente edonistica dell'o. non va vista solo nell'ambito di una teoria retorica astratta ma, con ogni probabilità (anche se le filigrane concrete ci sfuggono), pure come polemica militante verso una prassi poetica contemporanea incline a usi inflazionistici, ludici e polivalenti degli ornamenti retorici, senza la necessaria attenzione alla corrispondenza coi contenuti e a un controllo razionale delle figure impiegate. Si potrebbe allora scorgere in questo atteggiamento, in particolare, un ulteriore anche se notevolmente criptico aspetto della polemica di D. contro la poesia ‛ siculo-toscana ' e in ispecie di Guittone e guittoniani; e in questo senso la posizione teorica dantesca risulterebbe omogenea alla prassi ‛ stilnovistica ' che, com'è notorio, mira tra l'altro a una sistematica deflazione della congestionata retorica dei predecessori immediati. Quanto meno, un'evidente intenzione polemica (sia contro Guittone e guittoniani, o sia invece contro chi utilizzava in modo superficiale e non riflesso il sistema simbolico e concettuale di ‛ figure ' dello Stil nuovo) risalta da Vn XXV 7 e 10, dove D., dopo aver stabilito che se alcuna figura o colore rettorico è conceduto a li poete [latini], conceduto è a li rimatori [volgari], precisa però che l'uso di personificazioni e figure simili è lecito purché non avvenga sanza ragione alcuna, ma con ragione la quale poi sia possibile d'aprire per prosa (cioè secondo un preciso intendimento e significato razionale, che sia possibile spiegare in prosa), e poi anche più chiaramente afferma: E acciò che non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico che né li poete parlavano così sanza ragione, né quelli che rimano deono parlare così, non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico [il Cavalcanti] e io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente. Accenti analoghi risuonano anche nel De vulg. Eloq. (per es. II I 8, IV 1, VI 3).
Ancor più importa mettere in relazione le teorie dantesche dell'o., nel Convivio e nel De vulg. Eloq., con le rispettive ragioni d'essere dei due trattati: poiché, se le pagine in proposito mostrano un'evidente continuità (fin nelle immagini) dall'una all'altra opera, d'altra parte le posizioni che infine ne risultano sono notevolmente differenziate. Ciò dipende, in due opere in sostanza contemporanee, dalla diversità qua e là anche radicale dei loro scopi.
In accordo con quanto già affermato nel passo ora riportato della Vita Nuova, e in parte realizzato nelle stesse razos del libello, la prosa del Convivio è anzitutto adibita alla spiegazione e razionalizzazione del significato delle canzoni commentate, per mostrare la vera sentenza di quelle, che per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perché è nascosa sotto figura d'allegoria (Cv I II 17). Perciò - come D. medesimo più volte sottolinea - la funzione del commento prosastico è inizialmente concepita come subordinata e ancillare alla poesia (che è una delle ragioni per cui, spiega D., il commento non può essere in latino). Ma appartiene alla specifica dialettica del Convivio il fatto che in seguito questa posizione iniziale venga, in linea di prassi come in linea di diritto, rovesciata, e la prosa non solo si liberi dalla sudditanza alla poesia, ma ne rappresenti quasi un inveramento e con ciò stesso un superamento.
In questo senso D. mostra dunque di possedere perfetta coscienza della novità di fatto del Convivio, prosa ormai autonoma e virile, plasmata su un ritmo di contenuto, che si lascia alle spalle una concezione del dictamen prosastico come calco e succedaneo di quello poetico, concezione immanente non solo a illustri esemplari di prosa duecentesca come le Lettere di Guittone, ma per certi aspetti alla stessa Vita Nuova, fervida e passionata. Punto di partenza teorico di questa posizione è precisamente la nozione della separazione fra la bellezza del discorso (che si specifica nell'elemento grammaticale della construzione, in quello retorico dell'ordine del sermone e in quello musicale del numero de le sue parti: Cv II XI 9), identificata nell'ornamento de le parole, e la sua bontade, che sta nel contenuto, nel significato: E però dico al presente che la bontade e la bellezza di ciascuno sermone sono intra loro partite e diverse; ché la bontade è ne la sentenza, e la bellezza è ne l'ornamento de le parole; e l'una e l'altra è con diletto, avvegna che la bontade sia massimamente dilettosa (Cv II XI 4). La prosa esplicativa ha allora il compito di aprire la sentenza del testo commentato, rivelandone il pregio intrinseco, che è poi anche la maggiore fonte di diletto. Di fatto, soprattutto nel IV libro dell'opera, la prosa concettuale e didattica si svincola dall'occasione del testo da commentare e procede autonomamente iuxta sua principia.
Si capisce che su questa base D. " avverte chiaramente il limite e dimostra insofferenza del concetto di ornatus " (Nencioni), recependone chiaramente una versione tradizionale e superficiale: atteggiamento tanto più interessante in quanto nel Convivio, contemporaneo del De vulg, Eloq., D. mostra spesso un interesse e una conoscenza di prima mano per le figure di stile classificate dai rettorici (cfr. ad es. III IX 2, X 8, XI 16). Tale atteggiamento si coglie già in quanto egli dice a proposito delle tornate delle sue canzoni in Cv II XI 2: D. dapprima ricorda che i dicitori che prima usarono della tornata fenno quella perché, cantata la canzone, con certa parte del canto ad essa si ritornasse, e quindi prosegue (§ 3): Ma io rade volte a quella intenzione la feci, e, acciò che altri se n'accorgesse, rade volte la puosi con l'ordine de la canzone, quanto è a lo numero che a la nota è necessario; ma fecila quando alcuna cosa in adornamento de la canzone era mestiero a dire, fuori de la sua sentenza. Passo che sembra applicare, radicalizzandolo, il principio della separazione della bontade contenutistica dalla bellezza-ornamento, concepita qui addirittura come qualcosa che può stare fuori de la ... sentenza del testo. Così anche in Cv IV XXX 1-2 D. osserva che la tornata di Le dolci rime fu fatta ad alcuno adornamento, perché ciascuno buono fabricatore, ne la fine del suo lavoro, quello nobilitare e abbellire dee in quanto puote, acciò che più celebre e più prezioso da lui si parta. Ma il passo più significativo al proposito è in Cv I X 12-13. Dopo aver proclamato che il commento rivelerà la gran bontade del volgare di sì, capace di esprimere altissimi e novissimi concetti... quasi come... esso latino, chiarisce così il suo pensiero: [la quale [bontà] non si potea bene manifestare] ne le cose rimate, per le accidentali adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo ri[tim]o e lo numero regolato; sì come non si può bene manifestare la bellezza d'una donna, quando li adornamenti de l'azzimare e de le vestimenta la fanno più ammirare che essa medesima. Onde chi vuole ben giudicare d'una donna, guardi quella quando solo sua naturale bellezza si sta con lei, da tutto accidentale adornamento discompagnata: sì come sarà questo comento, nel quale si vedrà l'agevolezza de le sue sillabe, le proprietadi de le sue co[nstru]zioni e le soavi orazioni che di lui si fanno; le quali chi bene agguarderà, vedrà essere piene di dolcissima e d'amabilissima bellezza.
È un punto delicatissimo non solo della concezione dell'o. nel Convivio, ma di tutto il rapporto fra poesia e prosa che si prospetta in quest'opera. Poiché qui non si tratta solo del fatto che la bellezza-ornato è concepita come separata e anche additizia rispetto alla bontade della sentenza, ma della tesi ben più estrema per cui gli stessi costituenti specifici del linguaggio poetico sono sentiti come accidentali adornezze che impediscono la piena manifestazione proprio della bellezza di un sermone e di una lingua tutta, delegata invece al dettato più nudo e sostanzioso della prosa, alla sua maggiore aderenza allo schietto ritmo del pensiero. Il commento dunque, partito col compito di esplicitare il significato delle canzoni, che talvolta in queste è obnubilato da ombre di oscuritade (Cv I I 14), finisce per ‛ superarle ' non solo sul piano di una più chiara esposizione della sostanza concettuale, ma anche su quello di un'attualizzazione più piena della bontà e bellezza della lingua. E, come osserva giustamente il Grayson, " non si può concludere che D. intendesse negare la validità della poesia o delle sue canzoni; ma sarebbe difficile pensare che da un tale confronto con la prosa, la poesia allegorica esca intatta ed illesa ". D'altro canto se è vero che nello stesso Convivio D. sa superare una nozione meramente estrinseca e ornamentale della bellezza (il Nencioni ha richiamato l'attenzione sopra il passo di I V 13-14 sulla bellezza come armonica proporzione di parti), è anche vero che la svalutazione dell'ornato poetico è necessariamente connessa alla battaglia dantesca per una prosa virile, che finalmente rompesse il monopolio della poesia sulla nascente civiltà letteraria italiana.
Nel De vulg. Eloq., nonostante le affinità di procedimento, D. sembra porre questi problemi su base diversa, e in un certo senso con apparenti passi indietro. Ma occorre tener conto della diversità del punto di vista. Qui il problema è quello della giustificazione a tutti gli effetti della possibilità di un'alta poesia volgare, anche a cospetto dei modelli latini. Da ciò alcune rettifiche di tiro. Anzitutto nel senso di battere l'accento sullo statuto autonomo e peculiare della poesia, dando (VE II IV 2) una definizione del tutto immanente e formale della sua essenza (fictio rethorica musicaque poita): per cui ciò che nel Convivio poteva essere ‛ ornamento ', e ornamento accidentale, qui è elemento costitutivo. Nello stesso tempo però è fortemente richiamata l'attenzione sul fatto che l'alta poesia è da un lato il necessario prodotto del grado più alto di dignità umana, dall'altro una funzione necessaria dei più elevati interessi e contenuti (i magnalia) dell'esperienza umana. Il che porta (subito all'inizio del II libro) a impostare il problema dei rapporti fra poesia e prosa in modo del tutto diverso dal Convivio, e apparentemente più tradizionale, affermando che sono i prosatori ad apprendere maggiormente dall'esempio dei poeti, assumendone le esperienze come modello (exemplar), e non viceversa: affermazione che sarà anche ripresa da Isidoro di Siviglia (o chi per lui) e sarà soprattutto strategica, ma certo presuppone che venga accettato proprio quello schema di sviluppo della storia letteraria che il Convivio contesta, e sia messa fra parentesi proprio quella possibilità di prosa emancipata dalla poesia che il trattato italiano andava realizzando.
L'altra conseguenza è precisamente la necessità di mettere a punto una diversa e meno corriva nozione di o.: cosa che D. fa in VE II I 2 ss., giusto in apertura della trattazione stilistica del II libro, e obbedendo nel contempo a un altro imperativo teoretico, cioè quello d'isolare la poesia tragica, in volgare illustre, dal resto delle inferiori esperienze poetiche possibili, stabilendone con rigorosa distinzione i rispettivi livelli e sfere di realizzazione stilistica e linguistica (e di espressione dei contenuti). Si chiede D. se tutti gli autori di versi (versificantes) debbano usare il volgare illustre. E superficialmente - egli osserva - parrebbe di sì, dato che ogni verseggiatore suos versus exornare debet in quantum potest (notare la rispondenza col passo succitato di Cv IV XXX 3), e nulla dà tanto ornamento come il volgare illustre; inoltre, se ciò che è ottimo nel suo genere, mescolato a ciò che gli è inferiore porta ad esso miglioramento, ogni versificatore, anche il più rude, sembra far bene a mescolare il volgare illustre alla rozzezza dei propri prodotti. E invece non è così. Neppure coloro che poetano nel modo più eccellente possono usare sempre il volgare illustre, e questo d'altra parte richiede uomini che siano alla sua altezza, excellentes ingenio et scientia, e spregia gli altri. Il volgare illustre infatti conviene solo agl'individui più degni, come ogni grado di convenientia è in rapporto a un certo grado di dignitas; e poiché la lingua è necessarium instrumentum nostrae conceptionis, solo alle optimae conceptiones, e di conseguenza agl'individui migliori, dotati di scientia e ingenium, si addice l'optimum volgare: non a tutti i verseggiatori, molti dei quali versificano senza scienza e senza ingegno. Neppure è vero che chiunque debba e possa ornare a piacimento i propri versi, pena quel ridicolo che provocano un bue o un maiale elegantemente agghindati: infatti l'exornatio è alicuius convenientis additio. E le cose superiori migliorano le inferiori solo se vien meno la distinzione (discretio) delle componenti, come quando si fonde l'oro con l'argento; sed si discretio remanet, inferiora vilescunt: puta cum formosae mulieres deformibus admiscentur. Unde cum sententia versificantium semper verbis discretive mixta remaneat, si non fuerit optima, optimo sociata vulgari non melior sed deterior apparebit, quemadmodum turpis mulier si auro vel serico vestiatur.
La ripresa dello stesso paragone di Cv I X rende più evidente la rettifica di posizione: qui la donna agghindata a sproposito non rappresenta ogni ornamento poetico, ma solo quell'ornamento che non si addice al tipo di contenuto cui è sovrapposto. L'o. non è più concepito come addobbo decorativo di qualsiasi contenuto mediante una spruzzatina di bellezze formali, ma come additio di quel tipo di ornamenti di stile che si addicono intrinsecamente al livello del contenuto. Si tratta sempre di un'additio, di un'aggiunta o veste, e anzi il principio della separazione di bontade e bellezza è ribadito e precisato (le parole si ‛ mescolano ' alla sententia, ma restandone distinte: discretive mixta). Però la pratica dell'o. è richiamata con forza entro i binari della corrispondenza forma-contenuto, del conveniens: e il richiamo è tanto più importante in quanto D. mostra, nei capitoli iniziali di questo II libro del De vulg. Eloq., d'intendere il conveniens non come mera congruenza delle forme ai temi astrattamente presi, ma anche e soprattutto al livello morale e intellettuale degl'individui che quei temi esprimono per intima necessità (v. CONVENIENZA).
Bibl. - A. Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana dalla latinità medievale al Boccaccio, Roma 1969 (1ª ediz. Genova 1934), 122 ss.; Busnelli-Vandelli, passim; Marigo, De vulg. Eloq. 162 ss. e passim; C. Segre, Lingua stile e società, Milano 1963, 228 ss. (ma il saggio è del 1952); C. Grayson, D. e la prosa volgare, in " Il Verri " 9 (1963) 6-26; G. Nencioni, D. e la retorica, in D. e Bologna, partic. pp. 101-104; D.A., De vulg. Eloq., a c. di P.V. Mengaldo, I (Introduzione e testo), Padova 1968, partic. pp. XLII-XLIV; P. Boyde, D.s Style in his Lyric Poetry, Cambridge 1971. Per le teorie medievali dell'o., v. in particolare, oltre al Boyde e ai manuali di retorica (Arbusow, Lausberg, ecc.), E. Faral, Les arts poétiques du XIIe et du XIIIe siècle, Parigi 1962², partic. pp. 86 ss. Il saggio ricordato di R. Crespo, in corso di pubblicazione in " Lett. Ital. ", s'intitola Brunetto Latini e la ‛ Poetria Nova ' di Geoffroi de Vinsauf.