ORLANDO
. La rinascenza medievale francese ha espresso i suoi ideali eroici nella figura di Roland; l'italiana in quella di Orlando. Egli entra però nel mondo della poesia con la celebrazione della sua morte; forse perché l'unica notizia che lo ricongiunge alla realtà storica (Eginardo, Vita Karoli, IX) è appunto quella della rotta di Roncisvalle (15 agosto 778) "in quo proelio Eggihardus... Anselmus... et Hruolandus, Brittannici limitis praefectus... interficiuntur"; e perché la memoria di lui era congiunta alla venerazione di un sarcofago, che in una chiesa di Blaye rammentava ai pellegrini, avviantisi al celebre santuario di S. Jacopo di Compostella, il martirio di un santo Roland caduto per aprirne la via attraverso le insidie dei Saraceni. Ma alla fine del sec. XI il nuovo spirito religioso, feudale e poetico di Francia lo ridestò dall'oscura tradizione ecclesiastica locale e l'avviò per i luminosi sentieri della poesia, eternandolo nelle gravi lasse della Chanson de Roland. La sua figura rimase poi sempre improntata dai lineamenti che ivi le furono impressi: un'indomabile fierezza d'animo, un'invitta vigoria di braccio; un senso grave e un po' triste del dovere di fedeltà verso il suo sovrano Carlomagno in terra e verso il Signore di tutti in cielo.
Questa sua Chanson, com'è la più bella, così è la più antica delle chansons de geste (v. canzoni di gesta) che sono rimaste, anche se i critici discordino nell'assegnarne la data tra il 1080 e il 1120 (il Bédier sta per il 1110), almeno nella redazione che si ha per più genuina e che è conservata dal cod. 1624 della Bodleiana di Oxford e in buona parte dal cod. IV del fondo francese della Marciana di Venezia. Comprende circa quattromila decasillabi epici (quinario + settenario) aggruppati in 291 lasse assonanzate. Nulla si sa del suo poeta, perché il nome (Turoldo) che appare alla chiusa è usato in una frase di dubbia interpretazione, e ad ogni modo non sapremmo della sua condizione né dell'origine né del dialetto in cui scrisse. Gravi dubbiezze per i filologi, ma che nulla detraggono al senso augusto che spira da questo vigoroso monumento ergentesi ai confini solitarî della nuova poesia romanza. Augusto soprattutto perché accoglie il più alto spirito della sua età, sì da trascendere quello particolare della classe - o clericale, o cavalleresca o giullaresca - a cui il poeta abbia appartenuto. Cristianità e feudalità: cadere in servizio del grande imperatore è cadere in servizio di Cristo; il guerriero morendo si santifica in martire: perciò la morte di Orlando è degnissima di poema; e chi la provoca fa peggio che una vendetta privata: fa un tradimento. Tale almeno è la moralità che si rivela alla nostra meditazione critica, ché il poeta, per suo conto, non sermoneggia: tutto invenzione e rappresentazione, come ogni artista primitivo, affida ai fatti e alle parole dei personaggi il compito di esprimerla. Primitivi anche i procedimenti tecnici di cui si giova: il parallelismo delle situazioni nel campo cristiano e nel saraceno, e la "ripetizione" in certi momenti solenni, che vengono scanditi e rafforzati dal ripercuotersi ritmico di tre o quattro lasse.
Il poema ci trasporta al settimo anno della guerra che Carlo ha mossa a re Marsilio di Spagna. Questi resiste ancora in Saragozza, ma è allo stremo delle forze; sicché accoglie il consiglio dell'astuto Blancandrin di inviare false offerte di resa al re cristiano: quando questi si sia allontanato, si vedrà. Viene dunque Blancandrin per l'ambasceria nel campo di Carlo, e molti baroni, stanchi della guerra, sarebbero propensi ad accettarne le proposte; ma non il conte Rollant, indomito e fiero. E poiché un gran barone, Guenes o Guenelun (il Gano o Ganellone dei poemi italiani), cognato dell'imperatore e padrigno del conte, è per la pace, si accende contrasto tra lui e il figliastro; e più s'inasprisce, quando Rollant propone lui come portatore di sfida al re Marsilio, che aveva la barbara usanza di far impiccare gli ambasciatori mal graditi. Per vendicarsi Guenes trama con Blancandrin il famoso inganno e ne persuade re Marsilio: lasci partire Carlo col grosso dell'esercito; egli farà sì che alla retroguardia sia comandato Rollant, che cadrà in loro potere: morto lui, i Saraceni saranno sicuri. Così accade, almeno in parte. Or eccoci (vv. 792 segg.) nelle strette di Roncisvalle, ove Rollant s'inoltra coi dodici Pari e ventimila Francesi, mentre stanno in agguato sulle alture i dodici Pari di re Marsilio con "centomila" Saraceni. Oliver, il più intimo dei suoi "compagnoni", accorgendosi dell'insidia, consiglia al conte di sonare il corno di avorio (olifante), la cui gran voce varca gli spazî e può far accorrere Carlo. Ma Rollant vi si rifiuta, perché teme ne venga disdoro a sé, alla sua schiatta, alla Francia tutta. Oliver era saggio; ma Rollant era prode: l'eroismo è talora una sublime follia. I dodici Pari francesi vincono i dodici Pari saraceni; ma i ventimila Francesi non resistono ai "quattrocentomila" pagani (quanti ora ne enumera il poeta): a poco a poco, l'uno sull'altro, tutti cadono. Allora finalmente Rollant, dinnanzi ai morti compagni e alla morte che incombe anche su di lui, si risolve a "corner"; e suona disperatamente a rompersi fino le vene delle tempia e a farsi uscire dalle orecchie il cervello; ma il terribile suono non è implorazione d'aiuto: è l'annuncio del sacrificio compiuto. È questo l'atteggiamento eroico, che rifiorì poi sempre nelle fantasie dei poeti, da Dante al Carducci. Nulla di più tragico di questo momento. I Saraceni sono fuggiti; i Francesi sono morti; nel campo oramai muto e deserto, Rollant s'aggira a raccogliere i suoi Pari e li fa benedire dal vescovo Turpino, che è pure sullo spirare. Poi cerca spezzare la sua santa Durendal, ma essa si rivela più forte del suo braccio stesso. Allora l'eroe si distende, si confessa, saluta da lungi con parole estreme il suo re, che viene accorrendo al richiamo, e alfine s'arrende. S'arrende, ma a Dio; e l'arcangelo Gabriele ne raccoglie il guanto che il conte gli offre nel simbolico atto di resa. Muore invitto: la sua fronte, anche spenta, è volta verso il nemico. Tutto ciò che segue (vv. 2397 segg.), ed è circa un terzo della Chanson, è dedicato alla vendetta, che della sua morte prende re Carlo; prima sui Saraceni, poi su Guenes, che mal aveva creduto d'esercitare una vendetta privata facendo perire il miglior difensore del re e della fede: è un traviato dalla passione, ma resta un ardito e maestoso barone, che solo nella più tarda epopea degenererà in traditore pavido e bieco. Quest'ultima parte della Chanson non ha per noi il fascino della prima: risponde piuttosto al popolaresco desiderio di veder punito il delitto, sì che i nostri cantastorie sempre si sbizzarriranno nell'inventare i più crudeli strazî per il perfido Ganellone. La storia è finita: Rollant e Oliver giacciono nei sarcofagi d'una chiesa di Blaye; ove si diceva che in un terzo fosse accolta Alda la Bella, sposa dell'uno e sorella dell'altro, caduta spenta al solo annuncio che il conte era morto. Ma non giace re Carlo. Egli dorme nell'alto letto, ed ecco apparirgli l'arcangelo Gabriele ad imporgli nuove lotte, nuovi cimenti. E così egli guerreggerà per secoli nei canti dei poeti, ma ritrovandosi accanto la santa gesta dei Paladini, risorgenti dai duelli atroci, sempre giovani, fortissimi, invitti.
Nella copiosa fioritura che sboccia dalla Chanson de Roland è naturale che la figura del conte di Blaye (Brava nei poemi italiani) signoreggi le fantasie e vi si venga foggiando tutta un'esistenza degna di quella fine eroica. La nascita è variamente narrata. Lo straordinario affetto che Carlo nella Chanson dimostra per il nipote fece sorgere la leggenda che gli fosse più che zio. Re Carlo ha in cuore un gran peccato, che non osa manifestare al confêessore, San Gilles (Egidio): ed ecco scendere nella chiesa, innanzi a loro, un angelo che lo reca scritto in lettere luminose. Questa fosca storia, dell'origine di Orlando dai peccaminosi amori del re con la sorella, è accolta nella branca germanica della leggenda carolingia, rappresentata dal Ruolandes Liet del prete Corrado (verso il 1160), dal Karl der Grosse dello Stricker (1230 circa), e dalla scandinava Karlamagnussaga (della metà del sec. XIII); invece nella tradizione francese (Renaut de Montauban) è un fastoso valet, vestito di bianco e di vermiglio, che sale alla reggia, seguito da trenta damigelli con lui abituati, e che si presenta allo zio come figlio di Berta e di Milone. È festosamente accolto e inviato con ventimila soldati contro i Sassoni. In Italia infine fiorisce, più umana e patetica, un'altra leggenda. Berta si è innamorata di Milone, "il più peregrino barone" che fosse a corte, ma di troppo minore condizione della sua. Perseguitata dall'ira reale, la giovane coppia fugge di Francia in Italia, povera e affannata, come quella che diede origine agli Aleramidi. A Imola o a Sutri, a ogni modo sulla via di Roma, Berta dà alla luce un bambino nell'assenza di Milone; quando questi ritorna alla grotta che li ospita, si vede rotolare avanti un involto di poveri panni, nei quali la misera madre aveva posto l'infante, e appunto da roolar "rotolare" gli pose nome Roolando. Così è narrato nel libro VI dei Reali di Francia, ingenua sistemazione della copiosa produzione di leggende carolingie, che si era venuta creando nel Veneto in una vasta silloge di poemi in lingua francese o franco-italiana. Il popolare racconto continua narrando le prodezze di Rolandino, che nei giuochi fanciulleschi sempre prevale sui compagni. Dopo undici anni l'imperatore, tornando dall'incoronazione di Roma, si sofferma a Sutri. Udendo che alle mense regali si distribuiscono vivande, l'ardito fanciulletto tre volte vi accorre e tre volte rapisce la "tazza" ov'è il cibo dell'imperatore. Inseguito e sorpreso nella grotta, è cagione che Berta sia riconosciuta e perdonata dal regale fratello. Qui è già l'Orlando popolare, ardito, semplice, forte e buono.
Dunque Rolando è diventato ormai un principino, posto con altri eguali ad educarsi sotto la disciplina del vescovo Turpino, nel castello di Laon (Chanson d'Aspremont, sec. XIII). Un giorno però i futuri Paladini, come sentono passare sotto le mura della città l'esercito di Carlo avviantesi a combattere i Saraceni che l'attendono in Calabria, abbattono i custodi e tengono dietro all'esercito; e non invano, ché in una battaglia sui gioghi d'Aspromonte, stando Carlo per soggiacere alla forza del prode Almonte, figlio del re saraceno, Rolandino strappa al nemico la tremenda spada Durendal (Durlindana) e lo uccide. Per tale impresa è armato poi cavaliere dal papa in Roma, e d'ora in poi, almeno finché influisce sulla sua storia lo spirito delle crociate, egli userà la spada non meno in servizio della fede che della patria. Nella Chanson de Roland invece Durendal si dice recata da un angelo al re, quand'era in Val Moriana, perché fosse data al miglior cavaliere; e Carlo l'aveva data al nipote. Il temperato accenno che ivi si faceva di Alda la Bella suggerì, sotto l'influsso dei romanzi francesi, una cavalleresca storia del suo innamoramento (Girars de Viane). Carlo assedia Vienne, difesa dal giovanile valore di Ulivieri, al quale si oppone il giovanetto Roland: ma c'è una palpitante fanciulla che li vorrebbe salvi entrambi: Alda la Bella, sorella di Ulivieri è innamorata di Roland. Le cose vanno secondo i suoi voti; la pace è conclusa fra i nemici e si concludono le nozze fra i due giovani. Ma Roland è l'eroe virginale: le nozze non sono consumate e invano Alda lo prega perché, nel partirsene al subito richiamo d'una nuova guerra, Roland le lasci almeno il conforto di un figlio. Il suo dolente amore si nutre per sette anni d'attesa e di timore, finché un sogno presago, come canta un romance spagnolo (En Paris esta dueña Alda), nello sparviero ferito che viene a ricoverarsi presso di lei, non le raffigura la fiera novella, che Carlo le verrà a dare. Ella l'ode e muore. Durava infatti da sette anni la guerra di Spagna prima di Roncisvalle, come si è detto; e quel lasso di tempo offriva il campo a molte invenzioni per occuparlo. A ciò provvedono, sulla guida della famosa Cronaca di Turpino, due poemi veneti. Nel primo (Entrée d'Espagne), di un anonimo padovano del principio del Trecento, ai caratteri di ardimento e di lealtà ormai proprî della figura di Roland si aggiunge il motivo nuovo della sua "ira" achillea destata da un oltraggio ricevuto dal re; onde si parte di Spagna per l'Oriente. Lo spirito feudale è ormai spento nei poeti italiani e non vi arde troppo neppure il religioso. Tuttavia se Roland in Asia si fa educatore d'arti cavalleresche presso quei popoli, difensore dei diritti muliebri conculcati ai danni della graziosa Diones, anche vi figura apostolo di cristianesimo e adoratore del Santo Sepolcro. Rispondendo finalmente al richiamo del suo re, torna al campo cristiano, dopo un mistico soggiorno presso un santo eremita, ove ha l'annuncio del suo finale martirio. Continua la storia con altro poema, la Prise de Pampelune di Niccolò da Verona (circa il 1350), ove Roland figura specialmente quale capo del sacro e chiuso sodalizio dei dodici Pari; e perciò componitore di dissidî fra le varie nazionalità dell'esercito imperiale - p. es., fra Thiois (tedeschi) e Lombardi, cioè Italiani - che così entrano anch'essi nell'epopea carolingia. Ormai il conte è il modello del perfetto cavaliere, al quale devotamente si dedica il gentile giovanetto Isorè, come in altro poema gli si era dato il gentile gigante Orinel, e come gli si darà Morgante, gigante invece ben poco gentile. Roland infatti, che già nei poemi franco-italiani è ormai divenuto creatura italiana, risorge poeticamente con l'italiano nome di Orlando nel Rinascimento con i poemi del Pulci, del Boiardo e dell'Ariosto. È naturale che ivi, quanto acquista di concreta umanità, altrettanto perda d'ideale e un poco astratta perfezione. Certo nel Morgante Maggiore egli scade per il duplice influsso sia della sensualità popolaresca, che a poco a poco lo viene adeguando a Rinaldo suo emulo nel favore popolare, sia dell'individuale genialità del Pulci, fiorentinescamente sbarazzina; ma non scade tanto, che un'aura di serietà e di presaga malinconia non temperi talora il riso del poeta, e che alla fine, nel supremo cimento di Roncisvalle - al quale neppure il Pulci seppe rinunciare -, non risuoni ancora un'eco profonda della Chanson primitiva. Altrove, nella nobile Ferrara, l'ideale cortese, per il quale era faccenda di gran conto l'amore (scrisse M. M. Boiardo che il cavaliere disamorato "se in vista è vivo, vivo è senza cuore"), non volendo rinunciare all'eroica immagine di Orlando, doveva pur atteggiarla a' suoi modi: anche il virginale Orlando, che già aveva appreso a dissipare il suo eroismo in avventure vane, cioè a foggiarsi sul tipo del cavaliere errante, è indotto nell'Orlando innamorato ad amare, e a combattere per una dama. Sennonché il ricordo antico della sua "purità" impronta d'un carattere singolare codesto suo amore, che non è già un'accensione dei sensi, ma una dedizione spirituale senza desideri; sicché anche in occasioni tentatrici egli rimane casto. In questo senso l'Orlando Furioso di Lodovico Ariosto è veramente la continuazione dell'Innamorato, in quanto cioè accompagna codesto turbamento psicologico nel suo fatale sviluppo sino alla pazzia. La follia così orrenda di Orlando, come è l'unica potente poesia rifiorita intorno al sire d'Anglante, così è la più tragica vicenda della sua esistenza poetica. Rinsavito ch'egli è, tornato l'uomo che sì saggio era stimato prima, egli riprende la sua missione di campione della cristianità con la triplice vittoria nell'estremo agone di Lipadusa, dove "i tre e tre pugnar" per la vittoria finale delle due avverse fedi. E qui, col Furioso, possiamo considerare finita la seconda esistenza poetica di Orlando, l'italiana; che se qualche altro poeta in ritardo gl'intitolerà ancora, nel sec. XVI e nei seguenti, poemi dai titoli invano promettenti (Furibondo, Bandito, Saggio, Santo), o se lo trarrà a insanire e a combattere sulle scene, nulla di caratteristico aggiunge alla sua figura, come nulla alla sua dignità detrae la beffa degli eroicomici. Altrove invece, e perfino nella sua "dolce Francia", giacque negletto per tre secoli; e fu il romanticismo a ricondurlo nelle grazie della cultura francese, se non proprio nel cuore del suo popolo, quando ridestò nei letterati l'interesse per quelle che si ammiravano come creazioni ingenue e pure del genio delle nazioni: la leggenda spagnola del Cid, la germanica dei Nibelungi, la francese di Roland. Infatti la prima edizione della Chanson de Roland è del 1837, in pieno romanticismo; e allora poté accadere che la figura del paladino balzasse ancora qualche volta nelle nostalgiche rievocazioni dei poeti.
Bibl.: Per la Chanson de Roland, lo studio divulgativo più recente è quello di E. Faral, Parigi 1932: con esauriente bibliografia. - Per tentativi italiani d'una storia poetica d'Orlando, V. Crescini, Orlando nella Ch. de Rol. e nei poemi del Boiardo e dell'Ariosto, in Propugnatore, XIII (1880); J. Bédier, Les légendes épiques, III, Parigi 1913; E. Carrara, Da Rolando a Morgante, Torino 1932. - Per i poemi posteriori al Furioso, cfr. F. S. Quadrio, Storia e ragione d'ogni poesia, VI e VII, Milano 1749-52. - Per le orme antiche dell'epopea carolingia in Italia, P. Rajna, in Romania, XXVI (1897). Inoltre, G. Bertoni, La chanson de Roland, Firenze 1935.