ORIGENE ('Ωριγένης, Origĕnes)
La vita. - Nacque, probabilmente in Alessandria ove fu educato, secondo una tradizione nel 185 d. C.; secondo un'altra, che pare meno attendibile e lo fa morire in età di 69 anni nel 252 o 253, nel 183-84. Il nome pagano ("figlio di Oro") può far pensare che i genitori fossero, al momento della sua nascita, ancora pagani. Il padre, Leonida, doveva essere un convertito, se lo colpì la persecuzione di Settimio Severo, che vietava appunto il proselitismo giudaico e cristiano. Scolaro, nel Didaskaleion di Alessandria, di Clemente, O. si trovò nel 202, alla morte del padre, privo di mezzi; fu assistito da una dama, ch'egli tuttavia abbandonò, per sottrarsi all'influsso di un Paolo, maestro gnostico, che la frequentava. Ripresi gli studî, e noto già come il migliore fra i discepoli di elemente, si diede a insegnare. Una recrudescenza di persecuzione colpì sei fra i suoi scolari, tra essi una donna, mentre O., battezzato in così tenera età da poter essere considerato come cristiano di nascita, non fu colpito. Ma prestò assistenza a quei martiri e dimostrò appieno la sua intransigenza di fronte al mondo pagano e alla cultura classica. Il suo insegnamento pare fosse allora fondato tutto e soltanto sulle Scritture, e il suo tenore di vita improntato a rigido ascetismo. Asceti, del resto, erano quasi tutti i predicatori religiosi e i filosofi del tempo. A questo momento risale anche la sua mutilazione volontaria, che può essere conseguenza del desiderio, da parte delgiovine maestro la cui scuola era frequentata anche da donne, di evitare sospetti, ovvero dell'interpretazione eccessivamente letterale di Matteo, XIX, 12. Ma, se O. fu per qualche tempo soverchiamente incline al letteralismo, non vi durò a lungo. Ben presto il giovine, che già bambino rivolgeva domande imbarazzanli al padre ascoltandone la lettura del Vangelo, e che aveva ricevuto la ἐγκύκλιος παιδεία dell'ellenismo, sentì la necessità di una preparazione filosofica che si procurò alla scuola di Ammonio Sacca, maestro anche di Plotino. Scarsa attrazione esercitavano su lui i poeti; ma i pensatori dell'antichità, soprattutto Platone, e i neoplatonici e neopitagorici e stoici del suo tempo ebbero un'azione durevole sul suo spirito. Così egli riorganizzò l'insegnamento del suo Didaskaleion, diviso in due sezioni, una per i principianti, condotta da Eracla, l'altra per i più provetti, affidata direttamente a O., con l'insegnamento delle discipline preparatorie alla filosofia e alla lettura di opere filosofiche, la cui conoscenza pareva ormai a O. indispensabile per poter interpretare la Bibbia e le dottrine tradizionali del cristianesimo. Di pari passo con quest'organizzazione, e con il maturare del pensiero di O., che appare già pienamente formulato nelle sue prime opere, si svolse l'azione del vescovo Demetrio, rivolta a rendere più stretti i vincoli che univano il Didaskaleion alla Chiesa, e a porre il maestro sotto la protezione, ma anche sotto la disciplina, del vescovo. In questi anni, O. compì anche dei viaggi: sotto papa Zefirino (dunque prima del 218) fu a Roma ove sentì predicare Ippolito; sappiamo di altri viaggi in Siria e in Palestina, per ricercarvi versioni greche dell'Antico Testamento, e per esservi consultato, ormai famoso, da alti personaggi, tra cui Giulia Mammea, madre di Alessandro Severo. In Alessandria, lo aiutava l'amico Ambrogio, ch'egli aveva distolto dallo gnosticismo.
Nel 215, mentre la presenza di Caracalla in Alessandria aveva dato occasione a tumulti, O., che si trovava in Palestina, fu invitato dai vescovi Teoctisto di Cesarea e Alessandro di Elia Lapitolina (Gerusalemme) a predicare ai già battezzati, benché semplice laico: ma, essendo questa una cosa contraria agli usi di Alessandria, Demetrio fece rimostranze. Invitato a ritornare, O. ubbidì e diede inizio alla sua prodigiosa attività letteraria (da cui forse ebbe il soprannome di Adamanzio), mentre la sorveglianza che il vescovo esercitava su lui si faceva più stretta. Nel 230, nel corso di un altro viaggio in Siria, Asia Minore e Atene, O. ricevette dai due vescovi amici l'ordinazione sacerdotale: di ciò si sdegnò Demetrio, che lo depose.
Il celebre episodio è giudicato ancor oggi diversamente dagli storici: alcuni, con Eusebio di Cesarea, scorgono in Demetrio soltanto la passione umana; altri giustificano il suo operato come conforme a un uso vigente, se non dappertutto, almeno in Alessandria e che non avrebbe permesso, già allora, l'ordinazione degli eunuchi; taluno scorge nell'atteggiamento contrastante di Demetrio e dei vescovi di Palestina un segno di rivalità tra gli episcopati delle due regioni. Certo Eusebio, da cui proviene il più di quanto sappiamo su O., dice pure che Demetrio giustificò, quando avvenne, l'automutilazione di lui; ma Eusebio stesso è prevenuto in favore di O., come poi Fozio, che al pari di lui deve le sue notizie al discepolo di O., Panfilo. Da S. Girolamo, che parla pure d'invidia per l'eloquenza e la scienza di O., sappiamo che i vescovi di Palestina, Fenicia, Arabia e Acaia non aderirono alla condanna, la quale invece fu approvata da Roma e si estrinsecò di fatto soltanto con l'esilio; poco dopo, morto Demetrio, la condanna fu ripetuta da Eracla.
O., che in mezzo alla tempesta scatenatasi sul suo capo aveva continuato a redigere il suo commento a Giovanni, esitò dapprima alquanto, recandosi ad Atene, e a visitare l'amico Firmiliano, vescovo di Cesarea di Cappadocia. Poi si stabilì definitivamente in Cesarea, riprendendovi l'attività letteraria e didattica cui aggiunse la predicazione. Celebre fra i dottori cristiani, invitato a confutare eretici come Berillo di Bostra, in rapporto con l'imperatore Filippo l'Arabo e con l'imperatrice Marcia Otacilia Severa, O. fonda in questi anni una scuola di pensatori e teologi, che continuerà la sua opera e attraverso la quale il suo influsso resterà predominante per tutto il secolo III e buona parte del IV. Tuttavia, eretici da lui confutati falsificavano suoi scritti o relazioni di controversie, del che O. ebbe a lagnarsi scrivendo al papa Fabiano. Intanto, nel 235, la persecuzione scoppiata in Palestina sotto Massimino il Trace lo indusse a rivolgere all'amico Ambrogio e al presbitero Protocteto la sua Esortazione al martirio. Quindici anni più tardi, lo colpiva la persecuzione di Decio; imprigionato, fu sottoposto a torture che provocarono poco dopo la sua morte, non sappiamo bene se ancora sotto Decio o, come si è visto, sotto Treboniano Gallo.
Gli scritti. - O. fu scrittore fecondissimo. Se è esagerata la cifra di seimila scritti, data da Epifanio, è certo che, considerando come opere singole anche le diverse omilie, si giunge a un totale elevatissimo. E il catalogo delle opere origeniane, che Eusebio aveva dato nella Vita di Panfilo, perduto nell'originale, ci è giunto nella copia fattane da S. Girolamo (Ep., XXXIII). Di questa copiosa produzione, è giunta a noi solo una parte scarsissima. O. dedicò la sua attività al testo biblico, con la Esapla (v. bibbia, VI, p. 893); all'esegesi, con i commenti al Genesi, forse all'Esodo, meno probabilmente agli altri libri del Pentateuco; ai Salmi; ai Proverbî; al Cantico dei Cantici; a Isaia; a Ezechiele; ai Profeti minori; alle Lamentazioni; a Matteo, a Luca e a Giovanni; a Romani, Galati, Efesini, Filippesi, Colossesi, Tessalonicesi, Tito, Filemone; a Ebrei; poco probabilmente all'Apocalisse. Ai grandi commenti, di carattere scientifico, tutti di grande ampiezza e minuziosissimi nello spiegare ogni parte del testo, bisogna aggiungere le omilie, di carattere più popolare, nelle quali O. si ferma di solito sopra una porzione, che può stare a sé, del libro, e si preoccupa di persuadere i suoi semplici uditori della necessità di interpretare il sacro testo allegoricamente, ma di regola si astiene dall'esporre la sua teologia personale o almeno le sue concezioni piû ardite. Sappiamo che egli illustrò nella sua predicazione, in tutto o in parte, il Pentateuco, e poi Giosuè, Giudici, Samuele-Re, Giobbe, Proverbî, Ecclesiaste, Cantico dei Cantici, Isaia, Geremia, Ezechiele, Matteo, Luca, Atti, I e II Corinzî, Tessalonicesi, Tito, Ebrei, forse anche Cronache e Esdra. Gli sono attribuiti inoltre numerosi scolî, e forse scrisse anche un Onomastico della Bibbia.
A questi bisogna aggiungere la grande opera teologica, De principiis (Περὶ ἀρχῶν), l'opera polemica Contra Celsum (Πρὸς τὸν ἐπιγεγραμμένον Κέλσου ἀληϑῆ λόγον o semplicemente Κατὰ Κέλσου), i due libri De oratione (Περὶ εὐχῆς) e l'Esortazione al martirio (Εἰς μαρτύριον προτρεπτικός ovvero Περὶ μαρτυρίου); infine, una copiosa corrispondenza.
Di tutto questo, nell'originale greco, abbiamo i tre scritti Contro Celso, Sul martirio e Sulla preghiera; 9 libri del commento a Giovanni e 8 di quello a Matteo; 20 omilie su Geremia, una su Samuele (relativa alla pitonessa di Endor, Περὶ ἐγγαστριμύϑου); e 2 lettere: una a Giulio Africano, che aveva esposto a O. i suoi dubbî sull'autenticità della storia di Susanna mancante nella Bibbia ebraica e composta in greco, e al quale O. risponde rivendicando l'autorità della Chiesa su quella della Sinagoga; l'altra a Gregorio il Taumaturgo, di Neocesarea, al quale O. dichiara essere lecito, anzi utile, studiare la filosofia greca a vantaggio della fede, purché non ci si lasci sedurre da essa, come gli eretici. Possediamo ancora, in latino, un numero abbastanza alto di omilie su Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Giosuè e i Salmi, parte del commento al Cantico e il De principiis, nella traduzione di Rufino; una settantina di omilie su Isaia, Geremia, Ezechiele e Luca e frammenti del De principiis, nella versione di S. Girolamo; un'omilia e parte del commento a Matteo, tradotti da un ignoto. Inoltre, numerosi frammenti di omilie, scolî, commenti e del De principiis, così in greco come in latino, attraverso citazioni e catene.
Ma questi frammenti, e più ancora le traduzioni, pongono allo studioso gravi problemi di autenticità. Prescindendo da passi falsamente attribuiti a O., il confronto dei frammenti con le opere intere, là dov'è possibile, mostra che spesso ci troviamo di fronte a riassunti o estratti fatti evidentemente allo scopo di mostrare la conformità del pensiero origenian0 con l'ortodossia e con la teologia di età più progredite. Altrettanto si può dire delle opere tradotte da Rufino, e in specie del De principiis, che S. Girolamo si accinse a tradurre letteralmente appunto per mostrare fino a che punto Rufino avesse tradito, alterandone l'opera in senso ortodosso, il vero pensiero di O. Ma anche le altre traduzioni di S. Girolamo non appaiono, a un esame critico, gran che più fedeli. Onde, secondo E. De Faye, la necessità di servirsi delle opere tradotte e dei frammenti - a eccezione di quelli contenuti nella Filocalia di S. Basilio o nella lettera dell'imperatore Giustiniano a Minade o Minnade (Μηνᾶς o Μηννᾶς) - soltanto con estrema cautela o addirittura di escluderle dal novero delle fonti su cui fondarsi per ricostruire e intendere le dottrine di O. Anche altri critici, cui tanto rigore è parso eccessivo, riconoscono però che almeno la traduzione del De principiis, fatta da Rufino, è assai difettosa.
La teologia. - Scrittore poco brillante, anzi monotono, O. mette tutto sé stesso nello sforzo di risolvere i problemi che gli si presentano nel corso del suo tentativo di dare un'interpretazione filosofica adeguata dei dati della rivelazione. Tutto imbevuto di filosofia greca, profondamente influenzato da Platone, ma anche da Aristotele e dallo stoicismo, O. si può d'altronde comprendere storicamente solo quando lo si metta accanto ai grandi maestri della gnosi cristiana. Con essi egli ha in comune, in parte, il disegno grandioso di fornire alla fede cristiana una solida base razionale, e molte preoccupazioni; se ne diversifica, tuttavia, in varî punti essenziali. Non solo; ma proprio queste somiglianze e differenze, unite con l'avversione ch'egli non di rado manifesta per gli eretici, invogliano a considerare il suo sistema teologico come una vera e propria sfida alla gnosi, cui egli si contrappone, non semplicemente confutandola, ma in maniera positiva. O. continua così e conduce a termine - forse con minore ricchezza di motivi, specialmente sentimentali, ma insieme con più rigida coerenza e più profonda consapevolezza - il tentativo del suo maestro Clemente Alessandrino, col quale ha pure molti punti di contatto.
Uno degli elementi fondamentali della teologia origeniana è il concetto rigidissimo che O. ebbe della piena trascendenza di Dio. Non solo non ha corpo, non solo gli attributi antropomorfici che si trovano nella Sacra Scrittura devono essere interpretati allegoricamente; ma Dio è la "monade". Vivo e agente, è però un Dio personale, non pura astrazione; sommo bene, non può essere autore del male, né venire a contatto con la materia. È però creatore in senso proprio, non un semplice demiurgo.
Natura intelligibile, Dio crea direttamente le sostanze spirituali, le "menti" (νόες) che popolano il mondo intelligibile. Incorporee inizialmente, e dotate di libero arbitrio, esse sono decadute: hanno cioè abbandonato Dio, e con ciò, lasciato il sommo bene, si sono rivolte al male; trasformandosi da νόες in ψυχαί "anime", che si sono raffreddate (ψυχή ψυχρός), e hanno rivestito un corpo, più o meno luminoso od opaco in ragione della minore o maggior gravità del peccato. Così, all'uguaglianza primitiva delle nature intelligibili s'è sostituita una gerarchia, una gradazione, che comprende gli Arcangeli, i Troni, le Dominazioni, le Potenze, i Cherubini, gli Angeli dei cieli inferiori, ecc.; quindi gli uomini, gli animali, le piante e, al fondo della scala, i demonî e il loro capo e istigatore, Satana. Con i corpi, fa la sua apparizione questo mondo visibile, il Cosmo.
L'uomo è dunque un composto di anima e corpo; ma l'anima, spirito raffreddato (O. lascia irresoluta la questione s'essa sia generata o meno), incorporea, atta ad adeguarsi alle realtà spirituali, è capace di rivolgersi, a suo talento, verso il basso, cioè verso i corpi, o in alto, cioè - in ultimo grado - a Dio. Altra caratteristica fondamentale del sistema origeniano è infatti la somma importanza da lui attribuita alla libertà umana, concepita soprattutto come τὸ αὐτεξούσιον, "autodominio": il potere cioè che la ragione ha di frenare o dar libero corso ai desiderî suscitati dalle immagini o rappresentazioni (ϕαντασίαι). Perciò le anime - e non solo quelle umane - sono ancora capaci di rivolgersi al bene. Anche O. concepisce l'universo come messo in moto da una colpa iniziale e avviato verso la reintegrazione; la fine è uguale all'inizio, secondo una concezione "ciclica" che trova raffronti nella gnosi e nella raffigurazione, familiare a tutto il pensiero greco, dell'"eterno ritorno". Ma, a differenza della gnosi, l'universo di O. non è un meccanismo; bensì un mondo di libertà. La redenzione è soprattutto educazione, e illuminazione della mente, di cui tutti gli esseri razionali, non il solo uomo, sono capaci. Poiché tale processo è necessariamente lungo, O. accetta la concezione d'una pluralità di mondi: s'intende, non contemporanei, ma successivi. Anche qui, tuttavia, a differenza dello stoicismo, ognuno di questi non è riproduzione del precedente, ma assolutamente libero. Il processo è destinato a continuare fino alla reintegrazione definitiva, allorché Dio sarà tutto in tutti, contemplato e conosciuto direttamente, siccome ora lo contempla il Figlio; giacché il conoscere è mescolarsi e unirsi a qualcuno.
Questa illuminazione delle menti è opera di Gesù Cristo, nel quale O. distingue la natura divina del Logos e quella umana. Il concetto del Verbo - e in genere la dottrina trinitaria - di O. è difficile da cogliere, anche perché i passi che ne trattano sono tra quelli che hanno subito più gravi ritocchi nella traduzione. Non si contesta che sia fondata l'accusa di subordinazionismo. Il Logos di O. è certamente eterno e Dio; ma Dio, per così dire, di secondo grado, ché il Padre solo è αὐτόϑεος, mentre il Figlio è soltanto immagine della bontà, verità, gloria, luce divine. Se tale è rispetto al Padre, tuttavia rispetto all'uomo il Verbo è il modello e l'ideale. Questa posizione si traduce anche nel culto, ché secondo O. la preghiera va diretta esclusivamente al Padre.
In Cristo sono veramente unite le due nature, essendosi il Verbo unito a un uomo reale, composto di corpo e d'un'anima che, sola, è rimasta fedele a Dio. Contro Celso, che nega la divinità di Cristo in quanto la passione, l'umiltà della sua persona, ecc., sarebbero indegne di un Dio, O. distingue le parole dell'uomo da quelle del Verbo: ma questo è unito all'uomo ἑνώσει καὶ ἀνακράσει, "per unione e mescolanza". Incarnato il Verbo conduce gli esseri ragionevoli alla contemplazione e alla conoscenza superiore, o gnosi.
Questa può essere più o meno completa; con Clemente Alessandrino, O. distingue, pur senza contrapporli, i semplici fedeli indotti da quelli più progrediti nella conoscenza. I primi si fermano alla lettera del testo biblico, al significato che O. chiama "storico", mentre i secondi sono capaci di scorgere oltre la lettera, che in sé stessa dice cose anche indegne di Dio e scandalose, il senso superiore, l'allegoria. La difesa dell'interpretazione allegorica e lo sforzo che egli fa nelle omilie per convincere anche i più semplici della necessità di ricorrervi e per avviarli ad essa, costituiscono un altro aspetto caratteristico del sistema teologico di O.
Un altro ancora è l'escatologia, cui abbiamo accennato. Coerentemente al principio che Dio non può essere l'autore del male, O. evita tuttavia di cadere nel dualismo, come la gnosi e il manicheismo; allo stesso modo che, con l'interpretazione allegorica, egli riesce a tenersi lontano dal letteralismo giudaico, senza tuttavia contrapporre come Marcione l'Antico al Nuovo Testamento, il Dio crudele al Dio di bontà. Il male è per O. soltanto relativo, e considerato da un punto di vista superiore certamente un bene; le sofferenze, i dolori, sono "medicinali", fanno parte cioè del sistema pedagogico con cui si compie l'educazione delle nature ragionevoli. Perciò, in stretta coerenza con il suo sistema e non per pura mitezza d'animo, O. nega l'eternità delle pene, e ammette che ogni natura razionale possa risalire, di grado in grado, fino all'incorporeità definitiva. Ma, come fa sempre quando si trova in presenza d'un dogma della Chiesa, O. non nega la resurrezione. Soltanto, quella che risorge non è la carne, ma, come dice S. Paolo, un "corpo spirituale". Per spiegare questo, egli ricorre a una distinzione di carattere aristotelico, tra il "soggiacente" (τὸ ὑποκείμενον, substantia) e le qualità (ποιότηρες): il primo rimane identico a sé stesso, queste possono cambiare. Ma come il fuoco che punisce i dannati è un fuoco immateriale e la vera pena dell'anima è nella sua separazione da Dio, così immateriale è la beatitudine. O. è avverso alle grossolane credenze millenaristiche: il millennio sembra trasformarsi, per lui, in un periodo di preparazione particolare che i santi riceveranno, in una terra speciale, da Cristo, sì da diventare perfetti. Allora Cristo consegnerà il regno al Padre, e Dio sarà tutto in tutti "in modo che tutta la natura corporea sarà ridotta in quella, che è la migliore fra tutte, cioè la divina". È dubbio, se per O. l'apocatastasi sia definitiva, o se possa avere origine una nuova caduta e una nuova redenzione.
Risulta evidente, pur da un'esposizione così schematica, quanto O. debba alla filosofia, e quale poderoso sforzo egli abbia compiuto per dare alla fede cristiana un carattere razionale e sistematico che dimostrasse la validità del suo contenuto e soddisfacesse alle esigenze intellettuali e sentimentali dei suoi contemporanei più colti. Abbiamo invece fatto astrazione dal fervore della fede di O. Sempre egli si mostra disposto - e ciò lo spinge talvolta a dichiarazioni contrastanti con altre e con l'indirizzo generale del suo pensiero - a fare ossequio al magistero della Chiesa; non vuol essere altro che l'interprete della tradizione. Ed è intransigente: al valore di secondo battesimo ch'egli attribuisce al martirio fa riscontro quel suo rispondere a Celso - che contro i barbari chiede soldati - offrendo invece preghiere. Del pari, non è possibile dimenticare, nel giudicare O., le difficoltà che si frapponevano alla sua opera di pioniere. Riconosciute anche queste, resta che O. ha talvolta per lo meno lasciato nell'ombra alcuni elementi essenziali del cristianesimo; tuttavia la grandiosità e l'arditezza somma della sua opera non possono venire disconosciute, e altrettanto è da dirsi della sua importanza storica. L'influsso di O. si avverte nel pensiero cristiano fino al sec. IV, e oltre. Ché, nello sforzo di risalire alle origini, cristiane e classiche a un tempo, l'umanismo cristiano si rifà, in gran parte, precisamente a lui.
Le controversie origenistiche. - I primi segni dell'avversione a talune almeno delle dottrine di O. si manifestano tra la fine del sec. III e l'inizio del IV, allorché Panfilo, l'amico di Eusebio di Cesarea, dovette redigere un'apologia del dottore alessandrino, della quale s'è conservato un libro nella traduzione di Rufino. Nel corso delle controversie ariane, O. fu considerato volta a volta come un docetista e come un adozionista; mentre S. Atanasio manifesta ammirazione per lui, e così S. Basilio, S. Gregorio di Nazianzo e S. Gregorio di Nissa. Già alla fine del secolo precedente l'escatologia di O. era stata vivacemente criticata, con altre dottrine, da uno scrittore che pure ha con O. parecchi punti di contatto: Metodio di Olimpo (v.). Le accuse del quale furono riprese, con la consueta impetuosità, da S. Epifanio, che a O. dedica la 64ª eresia del suo Panarion, rimproverandogli soprattutto il subordinazionismo, la dottrina della preesistenza delle anime, l'allegorismo e di aver negato la risurrezione. S. Girolamo, fino al 394 ammiratore e difensore di O., pur non condividendone tutte le opinioni, l'anno dopo aderì all'invito di un tale Atarbio, e condannò gli errori di O. Poco dopo Epifanio, giunto a Gerusalemme, invitò il vescovo Giovanni a fare altrettanto; e poiché questi esitava, gli sollevò contro i monaci, tra cui S. Girolamo. A sua volta, Giovanni invocò contro Girolamo l'autorità civile e il vescovo Teofilo d'Alessandria. Nonostante il violento scritto polemico da lui lanciato contra Iohannem Hierosolymitanum, S. Girolamo, poco dopo, si riconciliò con lui e con l'amico Rufino, rimasto con i fautori di O. Ma tornato in Italia, Rufino pubblicò la sua versione del De principiis, accennando nella prefazione alla stima che Girolamo aveva avuto per lui. Questo fatto sdegnò Girolamo, che anche accusò il traduttore di avere alterato il testo. Circa due anni dopo, nel 400, Teofilo d'Alessandria mutò avviso e fece condannare certe proposizioni di O., che sembrano essere state almeno sforzate. I vescovi di Palestina approvarono, il 14 settembre, la condanna, in un concilio di Gerusalemme, e O. fu condannato, in seguito alla lettera sinodica di Giovanni, anche dal papa Anastasio I, fino allora estraneo alla controversia; mentre gl'imperatori Arcadio e Onorio proibivano la lettura dei libri di O., Teofilo continuò la sua offensiva, perseguitando anche, come origenista, il prete Isidoro ch'egli aveva mandato nel 395 a Gerusalemme come paciere. Di avere accolto con favore alcuni origenisti profughi, Teofilo accusò anche S. Giovanni Crisostomo, nella violenta campagna intrapresa contro di lui.
La lotta contro le dottrine e i libri di O. continuò provocando anche la formazione di raccolte di passi erronei o sospetti (non tutti scelti o citati a proposito, e neppure - a quanto sembra - tutti autentici): contro l'interpretazione allegorica si schierò la scuola antiochena, specie con Teodoro di Mopsuestia, mentre contro O. si pronunciarono, verso la metà del sec. V, anche Antipatro, vescovo di Bostra, e qualche altro. Una nuova controversia sorse al principio del sec. VI, dapprima fra i monaci di Gerusalemme, alcuni dei quali erano origenisti. Uno di essi, Leonzio di Bisanzio, accompagnò S. Saba in una visita a Costantinopoli e vi predicò apertamente le sue dottrine, onde il santo si separò da lui. Ma dopo la morte di Saba (532) gli origenisti di Palestina ripresero animo, e i loro capi, Domiziano e Teodoro Askida, riuscirono ad acquistarsi il favore della corte, divenendo in breve vescovi rispettivamente di Ancira e di Cesarea di Cappadocia. In Palestina, il dissidio tra i monaci divenne gravissimo; e della questione fu investito anche l'apocrisario romano Pelagio. All'azione del quale, e a uno o due memoriali presentati dal vescovo di Gerusalemme, oltre che alla condanna pronunciata dal patriarca di Antiochia (i particolari e la cronologia sono alquanto confusi), sarebbe dovuto l'intervento di Giustiniano, che nella famosa lettera al patriarca Minade di Costantinopoli (543) enumera, confuta e anatematizza gli errori di O. intimando di farli condannare da un concilio. La lettera reca in appendice 24 passi estratti dal De Principiis, scelti e isolati dal contesto allo scopo di rendere sempre più evidente l'eterodossia di O. La condanna fu approvata dagli altri patriarchi e dal papa Vigilio; anche Teodoro Askida vi si sottomise. Ma le manovre degli origenisti continuarono, benché si scindessero in due partiti, uno dei quali finì, rinunciando alla dottrina della preesistenza delle anime, con l'aderire all'ortodossia. Mentre in Gerusalemme continuavemo i torbidi, fu convocato (552) il quinto concilio ecumenico (553), il quale nel canone 11 condanna, fra gli altri eretici, anche O. È invece dubbio se esso si sia occupato di proposito della controversia origenistica e se i 15 anatematismi, attribuiti ad esso da un manoscritto viennese scoperto da P. Lambeck nel sec. XVII, siano stati emanati proprio dal concilio ecumenico o da un sinodo costantinopolitano di poco precedente. Comunque, i monaci origenisti non si sottomisero e dovettero essere espulsi dalla diocesi di Gerusalemme.
Ediz.: Editio princeps delle traduzioni latine, di J. Merlin, Parigi 1512 (altra edizione, di Erasmo da Rotterdam e Beato Renano, Basilea 1536); dei commenti greci, con trad. lat., di P.-D. Huet, Rouen 1668, voll. 2 (ancora fondamentale l'introduzione, Origeniana, I, pp.1-278); la prima ed. complessiva è quella dei maurini Ch. e Ch.-V. De La Rue, Parigi 1753-59, voll. 4, riprodotta fra gli altri da C. H. E. Lommatzsch, Berlino 1831-48, e in Patrologia Graeca, XI-XVII. Nuova edizione nella raccolta dell'Accademia di Berlino, Die griech. christl. Schriftsteller der ersten 3 Jahrhunderte, a cura di P. Koetschau, E. Preuschen, E. Klostermann, W. A. Baehrens, M. Rauer, E. Benz, Lipsia 1899 segg.
Bibl.: Oltre alle opere generali di storia dei dogmi (v. dogma; anche per le controversie) e di patristica (v. patristica), citiamo solo gli scritti recentissimi di E. De Faye, Origène, sa vie, son œuvre, sa pensée, Parigi 1923-29, voll. 3; A. v. Harnack, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, 2ª ed., IV, coll. 780-787, Tubinga 1930; G. Bardy, in Dictionn. de théol. cathol., XI, ii, coll. 1489-1565, Parigi 1931; W. Völker, Das Vollkommenheitsideal des O., Tubinga 1931 (Beitr. z. histor. Theologie, VII); H. Koch, Pronoia und Paideusis, Berlino 1932 (Arbeiten z. Kirchengesch., XXII).