ORCAGNA, Andrea di Cione Arcagnolo detto l', e i suoi fratelli Nardo, Iacopo, Matteo
Andrea, architetto pittore scultore, celebrato già da L. Ghiberti, dalla tradizione ebbe fama su tutti i maestri fiorentini del Trecento dopo Giotto, accresciuta anche da opere non sue, come la Loggia della Signoria a Firenze (spesso detta impropriamente "loggia dell'O.", ma costruita su disegni d'altri) e affreschi nel Camposanto pisano. Intorno al 1347 era indicato tra i migliori pittori di Firenze; nel '57 dava modelli per i pilastri di S. Maria del Fiore a concorrenza di Francesco Talenti, ma questi da ultimo gli fu preferito; nel '59, compiuto nelle parti principali il tabernacolo d'Orsanmichele, di cui era stato "archimagister", si recò a Orvieto come capomaestro di quel duomo e vi rimase fino al 1362 attendendo anche a decorarne di musaici la facciata (non è di lui la Natività di Maria, con suo nome nell'epigrafe falsificata: musaico proveniente da Orvieto, ora nel Victoria and Albert Museum di Londra); nel '64 diede consigli per il duomo di Firenze e fu poi tra i pittori e gli architetti che ne fornirono il disegno definitivo (1366); nel 1368 dipingeva per i capitani d'Orsanmichele una Madonna che non è quella - di Bernardo Daddi - collocata nel celebre suo tabernacolo.
Questo è affascinante con i suoi bagliori nelle penombre d'Orsanmichele, ma la profusa decorazione plastica e la policromia d'intarsî marmorei e di ornati dipinti sotto vetro, incrostato nel marmo, tolgono nerbo alla sua struttura, e non ne compensano l'ibridismo della composizione architettonica. Nelle sculture figurate del tabernacolo è palese l'opera di collaboratori diversi (fra cui era probabilmente il fratello dell'O., Matteo, che poi lo seguì a Orvieto), nei profeti, negli angioli ceroferarî, in alcune delle Virtù, ecc.; ma proprio dell'O. si debbono credere, a confronto dei suoi dipinti, le parti più nobili e di più rigido senso plastico: tra altro alcune delle storie della Vergine e in gran parte il vastissimo rilievo (1359) del Transito e dell'Assunzione, che occupa il tergo del sacello. Allontanandosi dalla scuola pisana, pur dentro l'orbita gotica, in quei rilievi l'O. ha una modellazione precisa sino alla secchezza, un disegnare che poco si abbandona a rabeschi gotici; e se il voluto drammatismo gli fa comporre non senza confusione il Transito della Vergine, nella parte superiore di quel suo capolavoro egli riesce a tanto nitore di forma da precorrere Nanni di Banco e altri fra i più fermi modellatori del sec. XV; e già nell'euritmia della composizione, pur derivata dalla pittura gotica, egli preludia per maggior larghezza al Rinascimento.
Lo sfondo intarsiato, che nasconde come velario prezioso la profondità dello spazio, accresce la plastica pienezza della mirabile Assunzione del tabernacolo (v. assunzione, V, tavola XIV). Ma nelle sue pitture l'O. seguendo lo stesso concetto, in cui alla plasticità giottesca s' inserivano gl'intenti decorativi senesi, non giunse a così felici effetti: nelle figure spinse la modellazione a un rilievo solido e preciso come in metallo, mentre obliterò le necessarie impressioni di profondità dello spazio, traducendo in superficie ornata lo sfondo e il terreno; e riuscì a opere di scarsa coerenza stilistica, sebbene apprezzabili in separati aspetti, come il polittico della cappella Strozzi (1357) in S. Maria Novella a Firenze e qualche altro suo raro dipinto (Firenze, magazzino degli Uffizî: polittico di S. Maria Maggiore).
Sono perite, come altri suoi affreschi nel coro di S. Maria Novella, le tre "magnifiche storie", ricordate dal Ghiberti, in Santa Croce, dove composizione e versi (all'O. si attribuiscono alcune poesie) corrispondevano ai dipinti del Camposanto di Pisa - il Trionfo della Morte, il Giudizio finale - che il Vasari attribuì allo stesso O. Questi ultimi differiscono interamente dalla maniera del maestro; ma un avanzo degli affreschi di S. Croce conferma almeno le rispondenze iconografiche coi dipinti di Pisa, mentre esso stesso appartiene piuttosto ai collaboratori dell'O. che a lui medesimo (è erronea l'attribuzione all'O. di un altro affresco, con l'Incoronazione della Madonna, ora nel Museo di S. Croce).
Il fratello di Andrea, Nardo di Cione (già defunto a mezzo il 1366), più puro pittore, trovò fra i contrastanti scopi una propria armonia. Come se procedesse da Maso (v.), addolcì il rilievo, attenuò la profondità, in un colorire delicato e pur consistente. Il Paradiso e gli altri suoi affreschi nella cappella Strozzi in S. Maria Novella lo mostrano tutto assorto nel colore e in raffinata tecnica pittorica, con un senso vario e moderato, come altri affreschi che gli si possono attribuire, anche in collaborazione con Andrea (antico refettorio di S. Spirito; chiostro piccolo di S. Maria Novella, ecc.).
Di Iacopo di Cione si hanno notizie fino al 1398. Nel 1368 egli ebbe commissione di compiere per Orsanmichele un trittico con S. Matteo e sue storie (Firenze, Uffizî), già affidato all'O., e vi seguitò la maniera del fratello più strettamente che in altri dipinti di varia collaborazione con Niccolò di Pietro Gerini (Londra, National Gallery: Incoronazione della Madonna, ecc.).
Matteo, vissuto fino al 1390, esercitò invece la scultura. Dopo aver forse lavorato sotto Andrea nel tabernacolo d'Orsanmichele, seguì il fratello a Orvieto (1359); e suo e dell'O., piuttosto che d'altri, potrebbe essere il tabernacolo del S. Corporale di marmi a tarsie e a musaici.
V. tavv. LXIII e LXIV.
Bibl.: Tra la copiosa bibl. (Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, XXVI, 1932) v. specialmente: W. Suida, Florentiner Maler um die Mitte des XIV. Jahrh., Strasburgo 1905, pp. 4-17; A. Venturi, Storia dell'arte ital., IV, Milano 1906; O. Sirén, Giotto and some of his Followers, Oxford 1917; R. Offner, Studies in Florentine Paintings, New York 1927; R. van Marle, Italian Schools of Painting, IV, L'Aia 1924, pp. 454-535; P. Toesca, La pittura fiorentina del Trecento, Verona 1929, pp. 48-49; K. Steinweg, A. O., Strasburgo 1929; B. Berenson, in Dedalo, XI (1930-1931), pp. 1039-1055; L. M. Tosi, A. O. architetto, in Boll. d'arte, 1934, pp. 512-526.