RAVASCHIERI, Orazio Giambattista
RAVASCHIERI, Orazio Giambattista. – Nacque a fine Cinquecento in una località imprecisata da Giambattista e da Maria Ravaschieri di Torrino, appartenenti a rami diversi della stessa famiglia presente nel Regno di Napoli dalla prima metà del secolo, ma discendente dagli antichi conti di Lavagna, nel Levante ligure, e aggregata all’‘albergo’ dei Fieschi dalla riforma costituzionale della Repubblica di Genova del 1528.
Il 3 marzo 1619 Ravaschieri fu investito del titolo di principe di Belmonte, la baronia in Calabria Citra comprata dal ricchissimo Pier Francesco, fratello del Torrino primo signore di Belmonte, e da quest’ultimo passata al figlio Carlo che, morto senza discendenza diretta, trasmise i suoi beni alla sorella Maria, coniugata all’interno del lignaggio, e ai suoi figli. La scomparsa precoce dei fratelli maggiori fece sì che Orazio Giambattista restasse erede unico, ottenendo anche il feudo di Tortora, acquistato da Carlo a spese dello zio, mentre il possesso di Badolato, per disposizione testamentaria di Pier Francesco destinato al primogenito di Maria, gli venne conteso da un altro nipote del testante, Ettore Ravaschieri principe di Satriano, che se lo aggiudicò con un accordo concluso nel 1615 e rinnovato nel 1635, lasciando prevalere il senso di coesione familiare grazie al quale si era realizzata la straordinaria affermazione economica, sociale e politica dei primi Ravaschieri migrati nel Mezzogiorno. Ravaschieri si adoperò per ampliare il proprio complesso territoriale seguendo le strategie diffuse tra i genovesi trapiantati in Calabria che, mutata l’originaria identità di mercanti e banchieri, si erano trasformati in signori orientati a investire nel mercato feudale, in espansione tra XVI e XVII secolo. Nel 1630 approfittò delle necessità finanziarie della monarchia spagnola, indotta a vendere le città demaniali, per acquistare tramite il principe di Satriano, suo procuratore, Amantea, grosso centro in prossimità di Belmonte, con il casale di San Pietro, e porre così fine agli endemici conflitti per il controllo della fascia costiera. Contrari all’infeudazione, gli abitanti della città dapprima cercarono di opporsi con la forza alla presa di possesso del principe; poi, fatto ricorso a Madrid, pagarono il proprio riscatto, ma non quello di San Pietro, rimasto ai Ravaschieri insieme ad alcune frange di territorio amanteota che avrebbero in seguito costituito motivo di ostilità.
Soggiornò a lungo a Belmonte, dove ristrutturò e abbellì il castello in cui abitava per renderlo consono al prestigioso status conseguito ed effettuò interventi migliorativi nel centro urbano e nel territorio circostante. Restaurò, tra l’altro, la chiesa del Carmine dove fece apporre una lapide per ricordare come nella cripta sottostante l’altare maggiore fossero custodite le spoglie dei suoi avi, prima che i defunti della famiglia trovassero più degna sepoltura nella chiesa del convento dei Cappuccini, edificata grazie a un generoso contributo di sua madre. Dimorò anche nella capitale partenopea dove disponeva del palazzo ereditato da Pier Francesco nella strada dei Pignatelli, nei pressi di S. Giovanni Maggiore. Per meglio integrarsi nel contesto napoletano mise in atto una politica matrimoniale finalizzata ad allacciare legami con le famiglie dell’antica aristocrazia e, in particolare, con il grande clan Caracciolo di cui egli stesso sposò un’esponente, Anna Maria. In tale prospettiva favorì l’unione della nipote Felicia Maria, figlia del defunto fratello maggiore, con Fabrizio Caracciolo, duca di Girifalco per successione alla madre Virginia Ravaschieri, mentre in precedenza Teresa Vittoria, sorella del principe, era stata maritata al marchese di Torrecuso, Carlo Andrea Caracciolo, prode militare impegnato al servizio della Corona cattolica.
Anche il principe di Belmonte si spese a favore della causa spagnola in qualità di uomo d’armi nei difficili anni che precedettero la rivolta del 1647-48, quando dal Regno furono drenate cospicue risorse materiali e umane per fronteggiare la guerra divampata nel centro Europa e giunta a lambire la penisola italiana. Giocando sulla sua capacità di persuasione e sui vincoli di autorità e deferenza che lo legavano alle comunità soggette, si distinse come reclutatore di soldati, che in qualità di maestro di campo guidò alla volta della Lombardia. Non di rado operò in sinergia con il cognato, marchese di Torrecuso, parimenti incaricato di provvedere alla leva militare, come avvenne all’inizio degli anni Trenta, quando ambedue concorsero a radunare a Milano contingenti da inviare in Alsazia per servire nell’esercito del duca di Feria.
Rientrato nel Regno per continuare l’arruolamento, Ravaschieri ricorse all’ausilio del principe di Satriano che mise a frutto la sua esperienza in fatto di coscrizione militare per costituire «il terzo a sue spese per il nepote di Belmonte» (Corrispondenze, 1991, p. 145) e agevolarne la carriera, lasciando ancora una volta prevalere il senso di solidarietà interno alla famiglia. Sembrerebbe che Ravaschieri non dissimulasse le proprie ambizioni e che, in virtù dei suoi meriti e dei suoi titoli, aspirasse a servire alle dirette dipendenze del fratello di Filippo IV, il cardinale-infante Ferdinando d’Asburgo. I successi militari di quest’ultimo non alleggerirono il peso del conflitto, che continuò a gravare sul Regno specie dopo l’entrata in guerra della Francia e indusse il principe di Belmonte a perseverare nella sua azione volta sia a reintegrare con forze nuove le perdite subite dagli eserciti asburgici in Europa sia a mantenere in efficienza le compagnie del battaglione cui era demandata la difesa del Mezzogiorno.
Morì in un luogo ignoto il 14 ottobre 1645 e fu sepolto nel convento dei Cappuccini a Belmonte, lasciando beni e titoli al figlio Daniele che, minorenne alla morte del padre, pagò il relevio solo nel febbraio del 1655.
Le sue ultime volontà suscitarono contrasti in seno alla famiglia, ove nella seconda metà del XVII secolo si era allentata la coesione interna, e costrinsero il suo successore in primo luogo ad affrontare in giudizio il fratello Ramiro che, noto per la sua vita violenta e dissoluta, accampava diritti pur avendo beneficiato di un cospicuo lascito paterno di 80.000 ducati; in secondo luogo a riaprire la vecchia controversia per il possesso di Badolato con Ettore Ravaschieri, lamentando di aver pagato i diritti di successione in base alle disposizioni testamentarie di Pier Francesco, senza disporre del feudo. La lite si trascinò a lungo, coinvolgendo sia gli ufficiali che esercitavano la regia giurisdizione in Calabria Ultra sia i vassalli, sobillati contro l’anziano principe di Satriano, per concludersi dopo la morte di quest’ultimo con l’assegnazione del possedimento conteso al principe di Belmonte.
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