ARRIGHI-LANDINI, Orazio
Nacque a Firenze il 10 genn. 1718, da Giovan Maria e da Violante di Domenico Landini, ultima discendente del celebre umanista Cristoforo. Primogenito (due fratelli appartennero a diverse congregazioni benedettine), l'A. seguì un corso di filosofia dell'abate G. Perini, discepolo di A. M. Salvini e fervente dantista, prima di intraprendere, ancora giovanissimo, una serie di viaggi che sollecitarono precocemente la naturale curiosità del suo ingegno. In Spagna, nel 1736, compose una serenata in occasione delle nozze di Carlo re di Napoli, e ne ebbe in compenso il titolo di conte. Si recò poi in Portogallo, e nel 1740 a Napoli, ove entrò a far parte delle Reali Guardie del Corpo. Ma, ritiratosi dal servizio in seguito a una caduta da cavallo (1742), dopo aver invano supplicato pensioni e ricompense, riprese senza scoraggiarsi i suoi viaggi. Passò in Calabria, quindi in Sicilia e di nuovo a Napoli; ma nel settembre del 1742 fu costretto a lasciare definitivamente la città e a riparare a Bitonto, ove sembra abbia perfezionato i suoi studi sotto la guida di mons. Giovanni Barba. Certo è che, malgrado i disagi della vita militare e le incertezze della letteratura prezzolata, l'A. avvertiva in termini di assoluta esigenza il problema di una seria preparazione culturale. Si spiega nell'ambito di questo interesse l'assidua frequentazione del Vico, che l'A. conobbe in uno dei suoi soggiorni napoletani (forse tra il 1740 e il 1742) e che celebrerà poi nel Tempio della Filosofia, esaltandone la profonda dottrina, l'originale filosofia, la "radicata giurisprudenza".
Costretto a lasciare la Puglia, forse a causa di un rapido capovolgimento di fortuna, l'A. si recò in Abruzzo, presso G. Coppola, vescovo dell'Aquila (novembre 1743), passando poi a Roma, ove soggiornò dal maggio 1744 fino al gennaio 1745. Trasferitosi a Padova, l'A. tentò di nuovo la carriera militare sollecitato forse da certi dissesti finanziari ai quali dovette in parte ovviare il matrimonio con Ileride Turisendi, discendente da una nobile famiglia veronese. Il matrimonio comunque non rappresentò un ostacolo alla sua vita avventurosa. Nel 1747 si recò con la moglie a Venezia; si fermò poi per un anno a Bologna, e nel 1749 era a Firenze, sostandovi fino all'agosto 1752. Durante il soggiorno fiorentino l'A. compose Il Sepolcro d'Isacco Newton (Firenze 1751, dedicato a Orazio Mann, residente inglese a Firenze; 2 ediz., Brescia 1752, con dedica all'Algarotti), prima stesura del più ampio Il Tempio della Filosofia.
Al tempo stesso lavorò intensamente alla Bibliade, un poema storico, in sei canti, che avrebbe dovuto descrivere le più illustri librerie antiche e moderne, a testimonianza dell'erudizione dell'A. (secondo il Mazzuchelli, il poema sarebbe stato dato alle stampe a Venezia nel 1753; tuttavia, nel 1756, l'A. si rallegrava che la Bibliade non fosse ancora apparsa e potesse così essere meglio corretta). Forse in questo periodo si dedicò a lavori di traduzione: resta notizia (Mazzuchelli) d'una inedita traduzione italiana del Siècle de Louis XIV di Voltaire, per il quale l'A. nutrì sempre interesse e ammirazione.
Lasciata Firenze, dopo un breve soggiorno a Brescia l'A. si trasferì definitivamente a Venezia sotto la protezione di Nicola Beregan. Nel 1753 vi pubblicò una raccolta di Poesie liriche,con la falsa indicazione di Lucca (il Mazzuchelli parla di una precedente edizione, meno ampia, uscita in Verona nel 1746), e nel 1755 la sua opera maggiore: Il Tempio della Filosofia... in cui s'illustra il Sepolcro d'Isacco Newton, dedicata al conte Gallizioli, patrizio bergamasco.
Si tratta d'un ampio poema allegorico in ,cui l'A., dietro lo schermo letterario d'un mitico rapimento in Olimpo (libro I), ragguaglia sui maggiori filosofi che dimorano nel tempio equamente alternando gli elogi del Fontenelle, del Gassendi, del Voltaire a cautelose attestazioni di ortodossia cattolica (libro II). Il sogno termina con la descrizione del sepolcro di Newton e con un'interessante difesa di Galileo a sostegno della quale si cita ancora Voltaire (libro III).
Non sembra tuttavia che l'attività dell'A. riuscisse a concentrarsi esclusivamente su opere di profondo impegno letterario, se nel 1757 la Du Bocage, durante un breve soggiorno veneziano, poteva lodare la sua vena d'improvvisatore, poeta e musicista insieme. E che l'A. fosse cosciente del dissidio fra un atteggiamento riflessivo (che non supera tuttavia i limiti del dilettantismo) e una ispirazione occasionale e frivola lo testimonia apertamente un passo della prefazione a L'Estate: "L'essermi assuefatto ad improvvisare con quella prontezza e facilità, di cui vi sono moltissimi testimoni, mi aveva quasi in tutto rapito la facoltà di riflettere, e dirò quasi di pensare, e mi rendeva tediosissimo l'incomodo di pulire le mie produzioni...".
Durante il suo lungo soggiorno veneziano, l'A. partecipò attivamente alla polemica Chiari-Goldoni, schierandosi apertamente a favore di quest'ultimo. All'origine di questo atteggiamento è da ravvisarsi non tanto un interesse concreto per il rinnovamento del teatro (ché la tragedia dell'A. Il Conte di Essex, Venezia 1764, si rivela alla lettura opera di pedante erudizione) quanto un reciproco sentimento di stima e la familiarità con amici comuni (il Beregan e Antonio Contarini ai quali il Goldoni dedicava I puntigli domestici tessendo gli elogi dell'Arrighi). Al Goldoni l'A. dedicò nel 1755 La Primavera nella sua prima stesura in versi martelliani (nel 1756 il poemetto fu ridotto in endecasillabi sciolti e unitamente a L'Estate e a L'Autunno ripubblicato a Venezia con dedica al Beregan), mentre il Goldoni immaginava Donna Lavinia declamare un passo della Primavera (La Villeggiatura, atto I, sc. I), suscitando alcune chiassose reazioni di Carlo Gozzi che ravvisava nelle Stagioni dell'A. l'anno peggiore di tutti (cfr. la Tartana degli influssi per l'anno 1756 e la Marfisa bizzarra).
L'A. rimase probabilmente a Venezia ancora alcuni anni, dopo la partenza del Goldoni e la morte del suo protettore, il Beregan, le cui affettuose correzioni rimpiange nella prefazione del Conte di Essex. In questi ultimi anni egli si dedicò ad altri lavori di traduzione dal francese: Lettere filosofiche del signore di Maupertuis, Venezia 1760. Il lavoro, in un italiano talvolta poco scorrevole e inelegante, è ricco di note erudite, e di osservazioni e correzioni alle affermazioni ritenute troppo ardite dell'autore. Nel 1770 apparve un'altra traduzione dell'A.: Degli uomini quali sono e quali debbono essere, opera critica di sentimento tradotta dal francese e con note illustrata, Venezia 1770
Anche qui le note dell'A. hanno uno scopo moderatore, oltre che erudito: il traduttore attenua la foga dell'originale contro le vocazioni religiose precoci o la polemica antifemminista, ad esempio laddove viene constatata l'incapacità da parte delle donne di comprendere che il marito ideale è il "filosofo".
La data dell'edizione è il termine ultimo che conosciamo della vita dell'Arrighi Landini.
Fonti e Bibl.: C. Goldoni, Tutte le opere, a cura di G. Ortolani, Milano 1935, I, pp. 382, 1114; III, p. 1218; IV, pp. 533, 1175; V, pp. 1359, 1372, 1408; XIII, pp. 496-500, 971, 1009 s.; C. Gozzi, La Marfisa bizzarra, a cura di C. Ortiz, Bari 1911, p. 342; E. Bertana, In Arcadia, Napoli 1909, pp. 171-173; B. Croce, Bibliografia vichiana, accresciuta e rielaborata da F. Nicolini, II, Napoli 1947, pp. 871-873; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, I, 2, Brescia 1753, pp. 1128 s.; G. Natali, Il Settecento, I, Milano 1936, pp. 100 s., 130, 881; G. Pellegrini, La poesia didascalica inglese nel Settecento Italiano, Pisa 1958, pp. 169, 170 n.; Encicl. d. Spettacolo, I, col. 970.