oppioide
Uso degli oppioidi nella terapia del dolore
Quando il dolore è moderato o grave, gli oppioidi diventano molecole essenziali nella terapia antalgica. La loro azione analgesica è attribuita alla capacità agonista sui recettori oppioidi presenti a livello della sostanza grigia peri-acqueduttale (mesencefalo), nel nucleo del raphe magnus e nel nucleo reticolare giganto-cellulare (midollo allungato). Tale stimolazione favorisce la trasmissione serotoninergica ed encefalinergica che, a livello del corno dorsale del midollo spinale, provoca un blocco del passaggio delle sensazioni dolorose provenienti dalla periferia. Inoltre, gli oppioidi stimolano anche propri recettori presenti a questo livello, producendo lo stesso effetto inibitorio. Per questo motivo, la terapia può essere fatta somministrando oppioidi per via sistemica (e raggiungendo il sistema nervoso centrale) o attraverso la via spinale o epidurale (raggiungendo solo quella parte del midollo spinale che veicola le sensazioni dolorifiche dal distretto corporeo da cui si origina la sensazione dolorosa). In genere gli oppioidi, alle normali dosi terapeutiche, non riducono il dolore neuropatico.
Alcuni criteri guida possono orientare la scelta della molecola più appropriata: tipo di patologia che provoca il dolore, vie di somministrazione accessibili, potenza, meccanismo d’azione, farmacocinetica, profilo tossicologico. L’orientamento generale prevede di somministrare gli oppioidi a intervalli regolari e non ‘al bisogno’: questo permette di ottenere un miglior controllo del dolore.
La morfina è considerata la molecola di riferimento; le forme orali a rilascio immediato devono essere somministrate ogni quattro ore, per cui si preferiscono le compresse orali a rilascio prolungato. La codeina, che in vivo si trasforma in morfina, è circa 13 volte meno potente della morfina, mentre il suo derivato ossicodone è circa due volte più potente della morfina nel dolore da cancro. Si utilizzano compresse di ossicodone a lento rilascio. Queste vanno ingerite intere: sono stati riportati numerosi casi mortali in seguito alla somministrazione di compresse non intere.
In caso di ingestione della compressa non integra, tutto il principio attivo viene rilasciato immediatamente raggiungendo un picco tossico.
Il fentanil è circa 10 volte più potente della morfina, ma la sua durata d’azione è molto minore. Nelle formulazioni transdermiche però è assicurata una durata d’azione di 72 ore. Esistono anche tavolette per uso transmucoso orale, fissate a un bastoncino a guisa di lecca-lecca, da utilizzare in caso di recrudescenza del dolore tra una somministrazione e l’altra di un oppioide diverso dal fentanil. I derivati più potenti del fentanil (alfentanil, sufentanil, remifentanil) vengono utilizzati in anestesiologia.
Il metadone ha una potenza simile alla morfina, un buon assorbimento per via orale, ma il suo dosaggio è più difficile. A causa della scarsa esperienza di alcuni prescrittori, il metadone ha provocato diversi casi mortali di sovradosaggio: infatti spesso vengono prescritte per la terapia del dolore le dosi molto più alte che normalmente vengono somministrate ai pazienti tossicodipendenti nella disassuefazione. La procedura corretta invece prevede una dose equivalente a quella della morfina, che in seguito va ridotta in considerazione del lungo tempo di emivita della molecola e del suo accumulo.
La buprenorfina (circa 25 volte più potente della morfina) è un’altra buona alternativa, ma occorre considerare che è molto complicato trattare gli eventuali casi di sovradosaggio.
Spesso vengono affiancate agli oppioidi altre categorie di farmaci che servono per ottimizzare la terapia o ridurne il dosaggio. È il caso di alcuni antidepressivi: la carbamazepina, la gabapentina, il tramadolo, i FANS e il paracetamolo.
L’uso degli oppioidi comporta l’instaurarsi della dipendenza. Nella terapia del dolore occorre distinguere due casi: la terapia acuta e quella cronica. Nella terapia acuta il problema non si pone: nel caso di pazienti con forme tumorali terminali la dipendenza è un problema trascurabile, per cui andrà sempre assicurata la somministrazione degli oppioidi fino alla morte del paziente. Molto controversa è la situazione nell’uso cronico in pazienti non terminali; i dati sono contrastanti, ma anche in questo caso il fenomeno della dipendenza può essere ridotto evitando, ad es., la somministrazione a pazienti con anamnesi positiva per abuso di qualsiasi sostanza psicotropa o con disturbi psichiatrici, della personalità, o con storie familiari di abuso di sostanze. La sospensione dell’oppioide utilizzato cronicamente provoca una sindrome di astinenza che termina non appena lo si somministra di nuovo. Nella pratica è un problema che riguarda esclusivamente i tossicodipendenti che, per motivi legali, non hanno la possibilità di assumere regolarmente l’oppioide. La sindrome può essere precipitata da antagonisti degli oppioidi come, ad es., il naloxone. I sintomi (iperalgesia, diarrea, midriasi, piloerezione, sudorazione, agitazione psicomotoria ecc.) sono specularmente opposti agli effetti degli oppioidi. Questa sindrome è particolarmente grave per il paziente, anche se raramente ne provoca la morte. Nella terapia della dipendenza da oppiacei (disassuefazione) occorre approntare una strategia farmacologica in grado di mitigare i sintomi dell’astinenza, utilizzando agonisti come il metadone o la buprenorfina che hanno il compito di sostituirsi alla morfina mimandone gli effetti.