Opinione pubblica
L'opinione pubblica nelle società industriali avanzate
Nelle società industriali del Novecento - con la concessione del suffragio universale, il formarsi dei grandi partiti politici e dei grandi sindacati, il sorgere delle grandi organizzazioni economiche, l'intervento sempre più ampio dello Stato nell'economia, e altresì con l'enorme diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (quotidiani, rotocalchi, radio e televisione) - il processo di formazione dell'o. p. è diventato sempre più complesso, e tale complessità è stata studiata dalle scienze sociali. È ormai ammesso da tutti gli studiosi che nelle società industriali avanzate (se rette da istituzioni democratiche, beninteso) il processo di formazione dell'o. p. non è più qualcosa di assolutamente libero, autonomo e spontaneo (come poteva avvenire nelle ristrette élites delle società ottocentesche), e che su di esso influiscono vari elementi (economici e politici) che lo condizionano 'dall'alto', per così dire, e lo plasmano in misura più o meno ampia. L'ampiezza e l'efficacia di questo condizionamento sono oggetto di discussione.
Già W. Lippmann nel suo libro Public opinion, pubblicato nel 1922 (che costituisce uno dei primi lavori seri e profondi sull'argomento), aveva osservato che nelle società industriali avanzate, per la loro grande complessità, per l'ampiezza del pubblico e la sua stratificazione in classi e ceti sociali, per l'impatto crescente dei mezzi di comunicazione di massa, "ciò che l'individuo fa si fonda non su una conoscenza diretta e certa ma su immagini che egli si forma o che gli vengono date" (trad. it. 1963, p. 27). L'insieme delle immagini in base alle quali gli individui o i gruppi di individui agiscono, costituisce appunto l'opinione pubblica. Ma tali immagini vengono diffuse - con un grado più o meno cosciente di manipolazione - attraverso i mass media dalle grandi forze (economiche, politiche, religiose, militari) dominanti nella società.
Sull'idea che nelle società industriali avanzate l'o. p. sia il risultato di un insieme complicato e variegato di processi di 'manipolazione', o comunque di forte pressione dei ceti superiori sui ceti inferiori, ha poi insistito una vasta letteratura. Così, per es., P.F. Lazarsfeld (1955) ha sostenuto che mentre all'interno di ogni strato sociale si ha una diffusione orizzontale delle mode e delle abitudini di consumo, fra i vari strati sociali, invece, la diffusione delle idee politiche procede in senso verticale, poiché va dai gruppi di status più elevato a quelli di status inferiore. Secondo Lazarsfeld, infatti, gli opinion leaders in public affairs sono quasi sempre più colti e hanno una posizione sociale superiore rispetto ai gruppi che sono soggetti alla loro influenza.
Una diagnosi estrema - nel senso che nelle società industriali avanzate l'o. p. non solo sarebbe interamente eterodiretta, ma addirittura scomparirebbe in quanto tale, sicché non avrebbe più senso parlare di essa - è stata formulata dalla Scuola di Francoforte. J. Habermas - esponente della seconda generazione di questa Scuola - ha sostenuto in un fortunato libro (Strukturwandel der Öffentlichkeit, 1962) che il venir meno, nelle società industriali avanzate, di qualsiasi confine fra pubblico e privato, fra sfera sociale e sfera politica, fra Stato e società civile, ha del tutto annichilito quella che una volta veniva chiamata opinione pubblica. In particolare, Habermas ha insistito su alcuni aspetti, che qui sono richiamati schematicamente.
a) Compenetrazione di sfera pubblica e ambito privato. Il sorgere di grandi imprese, sia private sia (in diversi Paesi) pubbliche, e l'intervento sempre crescente dello Stato nell'economia e nel campo assistenziale, con il connesso costituirsi di grandi burocrazie, fanno vacillare e poi scomparire la barriera fra Stato e società civile. Sempre più frequentemente, poi, ha luogo un trasferimento di compiti dell'amministrazione pubblica a imprese, enti, istituti parastatali di diritto privato, ossia ha luogo una sorta di privatizzazione del diritto pubblico. Ma avviene anche il processo inverso di appropriazione del pubblico da parte del privato: le grandi imprese costruiscono alloggi o aiutano il lavoratore a farsi una casa, costruiscono edifici scolastici, chiese e biblioteche, organizzano concerti e rappresentazioni teatrali, tengono corsi di cultura popolare, assistono le persone anziane, gli orfani e così via. In altre parole, tutta una serie di funzioni che in origine erano svolte da istituzioni pubbliche, vengono assunte ora da organizzazioni private. Il privato si trasforma così, direttamente e senza mediazioni, in pubblico. E non è raro il caso in cui l'oikos della grande impresa permea la vita dell'intera città e dà origine a quel fenomeno che è stato definito feudalesimo industriale. Autori americani possono perciò fare studi di psicologia sociale sul cosiddetto organization man, senza badare se esso appartenga a una società privata, a un ente semipubblico o a una pubblica amministrazione: quello che conta qui è che organization è sinonimo di grande azienda, la quale pianifica, plasma e controlla, in tutti i suoi dettagli, la vita di centinaia di migliaia, di milioni di individui.
b) Dal pubblico culturalmente critico al pubblico consumatore di cultura. Nella società dell'organization man la tendenza al dibattito pubblico continua ancora a manifestarsi. Le cosiddette pubbliche discussioni, le tavole rotonde, le tribune politiche, i dibattiti culturali, vengono continuamente promosse. La radio, le case editrici, le associazioni fanno di tutto ciò una fiorente attività collaterale. Tutto sembra dimostrare che ci si prende la massima cura della discussione e che la sua diffusione non ha limiti. Tuttavia, a veder bene, essa ha subito una trasformazione sostanziale: ha assunto la forma di un bene di consumo. E anche il consumo culturale è al servizio della propaganda economica e politica, ossia della propaganda delle grandi aziende e delle grandi organizzazioni politiche, strettamente intrecciate fra loro e saldamente alleate per assestare il consenso della pubblica opinione sui loro interessi e sulle loro esigenze. Ma qui la pubblica opinione è ormai svuotata di ogni autonomia, e quindi di ogni ruolo che non sia quello della subordinazione dei singoli agli 'interessi superiori', e della conservazione acritica dello status quo economico-politico. A ciò contribuiscono efficacemente i nuovi mezzi di comunicazione di massa (radio, cinema, televisione), che fanno scomparire gradualmente il distacco che il lettore conservava di fronte alla carta stampata. Con i nuovi mezzi, la forma della comunicazione stessa si trasforma; essi sono molto più 'penetranti', nel senso stretto del termine, di quel che sia mai stata la stampa. Il comportamento del pubblico assume nuove forme sotto la costrizione del don't talk back ("non replicare"). In confronto alle comunicazioni stampate, i messaggi diffusi dai nuovi mezzi di comunicazione riducono singolarmente le reazioni del ricevente; essi avvincono il pubblico come ascoltatore e come spettatore.
A veder bene, questa analisi di Habermas (che deve molto a One-dimensional man, 1964, di H. Marcuse e ad altri testi della Scuola di Francoforte) dimostra troppo. Infatti, se essa fosse del tutto vera, non dovrebbero più aver luogo, nelle società industriali avanzate, dei grandi mutamenti nella pubblica opinione, essendo quest'ultima talmente manipolata da essere completamente 'congelata' e quindi virtualmente scomparsa. Senonché, tra gli ultimi decenni del 20° sec. e gli inizi del 21°, la storia sociale e politica mostra invece, nelle società industriali avanzate, grandi mutamenti nella pubblica opinione, sia nella politica sia nel costume (mutamenti dovuti a volte a grandi avvenimenti internazionali - come, per fare un esempio, la guerra in Vietnam - ma non esclusivamente: basti pensare al grande movimento femminista e al suo profondo influsso sulla pubblica opinione, o su vasti settori di essa, per ciò che attiene al ruolo della donna nella società, ai rapporti fra i sessi e così via).
La letteratura più interessante sull'o. p. ha in realtà un approccio al problema assai meno manicheo di quello della Scuola di Francoforte. Essa non solo mette in rilievo che un'o. p. puramente autonoma e una puramente eteronoma costituiscono tipi ideali che non esistono, come tali, nel mondo reale, ma nega anche la passività delle cosiddette masse, e anzi sottolinea come il destinatario dei messaggi sia, nel riceverli, assai più attivo che passivo (Sartori 1979, p. 939).
Per quanto riguarda i processi di formazione della pubblica opinione, sono stati elaborati, dai sociologi e dai politologi, due grandi modelli. Uno è il cosiddetto modello a cascata, proposto da K.W. Deutsch (1968). Secondo questo autore si possono distinguere cinque livelli o 'serbatoi' della cascata. Nel primo livello circolano le idee delle élites economiche e sociali; nel secondo si confrontano e si scontrano le élites politiche e di governo; nel terzo operano le comunicazioni di massa, con la loro continua diffusione di messaggi; nel quarto operano i 'leader di opinione' a livello locale, che hanno un ruolo determinante nel plasmare le opinioni dei gruppi sociali con i quali interagiscono; nel quinto livello si trova il demos considerato nella sua totalità.
Il significato del 'modello a cascata' proposto da Deutsch è più complesso di quanto lo schema ora esposto lasci supporre. G. Sartori ne ha evidenziato tre aspetti: "Il primo è l'importanza del livello dei leaders di opinione locale: un punto di passaggio e di intermediazione che è stato per lungo tempo sottovalutato. Il secondo aspetto è che nessuno dei livelli è monolitico e nemmeno, di solito, solidale: all'interno di ogni serbatoio le opinioni e gli interessi sono discordi, i canali di comunicazione molteplici e polifonici. Il che equivale a dire che a ogni livello troviamo un ciclo completo di dialettica di opinioni, un crogiolo a sé stante di formazione dell'opinione. Il terzo aspetto è che, per quanto l'andamento di una cascata sia discendente, tuttavia Deutsch sottolinea la continua presenza di feed-backs, di retroazioni di risalita. Per quest'ultimo rispetto si potrebbe sostenere che il modello della cascata incorpora, come proprio elemento interno, quello del ribollimento, del bubble-up" (Sartori 1979, p. 939).
Il modello del 'ribollimento', del bubble-up, è appunto il secondo modello elaborato da sociologi e politologi per spiegare i processi di formazione della pubblica opinione. Secondo questo modello, tali processi non vanno dall'alto verso il basso, bensì dal basso verso l'alto: nel senso che nel pubblico, o in vasti settori o strati di esso, si formano continuamente dei 'ribollimenti' o movimenti d'opinione, in modo repentino e inaspettato, che non sono stati previsti, e che spesso non sono affatto desiderati, dalle élites dirigenti (economiche, politiche, militari, religiose e così via). Sartori ha proposto una integrazione dei due modelli. Del primo ha dato, peraltro, una interpretazione dinamica. Così ha messo in rilievo che, se si parte dal livello della classe politica (poiché la pubblica opinione si caratterizza come tale in primo luogo in rapporto a quel che dicono e a quel che fanno i politici), non si deve perdere di vista il fatto che la classe politica è un microcosmo altamente competitivo nel quale i partiti manovrano per rubarsi gli elettori, e i politici guerreggiano fra loro all'interno dei rispettivi partiti. Dalla conflittualità fra i partiti, e fra i leader all'interno di essi, partono infinite e assai contrastanti voci, che arrivano al personale dei media. Questo personale, però, non le ritrasmette tali e quali, bensì le seleziona, le interpreta, le modifica, le distorce ecc., e sovente esso è fonte autoctona di messaggi. I leader di opinione a livello locale, a loro volta, fanno da filtro e possono rinforzare i messaggi che ricevono, possono depotenziarli, possono distorcerli, e così via.
C'è poi un punto che Sartori sottolinea con grande forza, ed è il ruolo degli intellettuali nella società contemporanea. In questa società postindustriale il numero degli intellettuali è cresciuto a dismisura, e di conseguenza è aumentato anche il loro peso specifico. Ormai gli intellettuali non operano solo nelle scuole e nelle università, ma anche nei media e in molte altre direzioni. "L'espansione della professione intellettuale - dice Sartori - e la sua diffusione più o meno irrequieta in tutto il corpo sociale porta dunque acqua al modello del bubbling-up, e intensifica il fermentare di opinioni che non cascano affatto dall'alto ma che, all'opposto, pullulano e germogliano, sia pure in piccoli nuclei di intellighenzie, a livello di massa" (Sartori 1979, p. 940). A tutto ciò bisogna aggiungere che le opinioni di ogni singolo individuo derivano anche, e in non piccola parte, da 'gruppi di riferimento': la famiglia, il gruppo di lavoro, l'identificazione partitica, religiosa, di classe, etnica, e così via. ½"L'io è un io-in-gruppo, che si integra nei gruppi, e con i gruppi, che costituiscono i suoi punti di riferimento" (p. 940).
Alla luce di questo quadro, estremamente variegato e complesso, Sartori conclude che l'o. p. è fatta da tutti e da nessuno, nel senso che essa risulta da un crogiolo di influenze e contro-influenze. Ciò significa che nella società contemporanea l'o. p. è sostanzialmente "autentica perché autonoma, e […] autonoma per quel tanto che basta a fondare la democrazia come governo di opinione" (p. 940). A ciò si può aggiungere che, nonostante l'enorme peso che la televisione ha assunto nel mondo d'oggi, non è certo diminuito il ruolo dei giornali d'opinione (sia quotidiani sia settimanali), e che anzi esso si è accresciuto, proprio per il livello culturale sempre più elevato della popolazione. Ora, i giornali risentono sì, in misura più o meno grande a seconda dei casi, degli interessi economici e politici ai quali fanno riferimento, ma i grandi giornali di opinione, con i bilanci in attivo grazie alla loro diffusione, hanno, in virtù dell'appoggio delle centinaia di migliaia di lettori che li acquistano, un notevole grado di autonomia e di indipendenza. Questo fatto era già stato colto assai bene da Lippmann, in uno dei capitoli più importanti del suo libro del 1922. Un giornale, egli diceva, può difendere o attaccare potenti interessi economici, "ma se si aliena le simpatie del pubblico che ha potere di acquisto, perde il solo patrimonio indispensabile alla sua esistenza" (trad. it. 1963, p. 319). Il rapporto con il pubblico - rapporto fondato esclusivamente sulla qualità delle analisi e dei commenti, poiché le notizie vere e proprie vengono diffuse rapidissimamente da radio e televisione - diventa quindi decisivo per la sopravvivenza o per il successo del giornale. La pubblica opinione (o vasti settori di essa) diventa così il fondamento e la garanzia della diffusione dei giornali; e i giornali, a loro volta, forti di questo sostegno, contribuiscono a formare la pubblica opinione.
Opinione pubblica e televisione nel mondo contemporaneo
Si è detto che la televisione ha assunto un enorme peso nel mondo contemporaneo. Negli Stati Uniti l'inizio delle trasmissioni per il grande pubblico risale al 1946-47, e sette anni dopo, nel 1954, la maggioranza delle abitazioni era dotata di un apparecchio televisivo. In Europa le trasmissioni sono iniziate più tardi: in Italia nel 1954, e undici anni dopo, nel 1965, gli apparecchi televisivi erano presenti in poco meno della metà delle case italiane. Ormai non c'è quasi abitazione che non possegga un televisore.
La televisione influisce sui processi di formazione della pubblica opinione in molti modi. Essa ha avuto un'influenza assai rilevante sul progredire della modernizzazione. In Italia, per es., alla fine degli anni Cinquanta e negli anni Sessanta (e oltre), la fruizione continua di immagini provenienti dagli Stati Uniti, ossia da una realtà economico-sociale e culturale (in senso lato) tanto più avanzata di quella italiana, ha accelerato l'adozione di strumenti tecnologici, di formule organizzative, di stili di vita ecc., che il Paese ancora non possedeva. È vero che questo contributo alla modernizzazione era già venuto dai film americani, ma il flusso continuo e martellante di immagini reso possibile dalla televisione ha avuto una influenza assai più cospicua. Inoltre, in Italia la televisione è stata strumento di modernizzazione anche per quanto riguarda le regioni più arretrate: nel Mezzogiorno le immagini provenienti dal Settentrione, più avanzato ed evoluto, hanno accelerato i processi di modernizzazione della società meridionale, e hanno contribuito al formarsi di una pubblica opinione omogenea a livello nazionale.
Nel mondo contemporaneo la televisione influisce sulla formazione e sulla cultura dell'ascoltatore in molti modi e attraverso molteplici programmi: i telegiornali (nei quali è importante, naturalmente, la presenza di certe notizie e l'assenza di altre; oppure l'enfatizzazione di alcune notizie e il depotenziamento di altre, anche e soprattutto attraverso una selezione e un dosaggio sapienti delle immagini); i talkshow (programmi fondati essenzialmente sulla conversazione, in cui un noto personaggio - della vita pubblica, della cultura, dello sport ecc. - viene intervistato su argomenti di attualità, o più persone prendono parte a un dibattito su determinati temi); le inchieste su problemi della vita nazionale (economici, politici, culturali, religiosi, di costume ecc.); i programmi culturali (di storia, di letteratura ecc.). La televisione è quindi uno strumento assai importante e incisivo per la formazione della pubblica opinione, e, in un certo senso, più per le fasce di popolazione di basso livello culturale che per quelle di livello medio-alto. Le prime, infatti, sono più passive e assorbono in modo acritico i messaggi ideologico-politici, gli stereotipi dell'industria culturale dominante ecc.; le seconde, invece, sono assai più critiche, e affiancano alla televisione la lettura dei quotidiani, dei settimanali, dei libri e così via. Ma le prime sono assai più numerose delle seconde. La società democratico-liberale, e quindi pluralistica sul piano politico e culturale (poiché riconosce la legittima presenza di tutti i movimenti e di tutti gli orientamenti, purché rispettosi delle leggi), non può ammettere il monopolio televisivo statale (che si traduce inevitabilmente in un vantaggio del partito o dei partiti al potere, in quanto essi finiscono per controllare, direttamente o indirettamente, i programmi televisivi). Ma non può accettare nemmeno la concentrazione del controllo della televisione in poche mani (ossia in pochi proprietari di reti televisive), per evidenti motivi. Una società democratico-liberale, infatti, deve far sì che la proprietà delle televisioni sia molto frazionata, e che i telespettatori possano usufruire di numerose offerte, provenienti da vari settori della società civile.
Questa esigenza è tanto più pressante, in quanto l'enorme importanza della televisione nel corso, per es., delle campagne elettorali, è stata dimostra in casi divenuti ormai 'classici'. Si può far risalire l'avvento dell'epoca della 'telepolitica' al 1960, in occasione del duello televisivo, negli Stati Uniti, fra J.F. Kennedy e R. Nixon, che fu visto da una platea stimata tra i 65 e i 70 milioni di spettatori (una audience di poco inferiore a quella dei grandi avvenimenti sportivi). L'avvenimento fu decisivo per le sorti delle elezioni presidenziali: fino ad allora Nixon appariva in testa nei sondaggi, ma il confronto televisivo rovesciò il pronostico. Otto anni dopo la sua sconfitta, nelle elezioni presidenziali del 1968, Nixon si prese la propria rivincita proprio grazie a un'accorta e molto studiata campagna, nel corso della quale fu decisivo il modo in cui il suo staff seppe usare la televisione. In Italia ebbero grande importanza i confronti televisivi fra A. Occhetto e S. Berlusconi nel 1994, e quelli fra lo stesso Berlusconi e R. Prodi, in occasione delle elezioni politiche del 1996 e del 2006, che videro la vittoria, sia pure di stretta misura, di Prodi.
bibliografia
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