SAVELLI, Onorio
– Figlio di Paolo, del ramo di Rignano, e di Faustina Caffarelli (Lefèvre, 1992, indica Giovanna Savelli; Litta, 1872, indica la madre in Dianora di Niccolò Orsini, conte di Pitgliano). Non si conoscono i luoghi e le date di nascita e di morte.
Intraprese ben presto la carriera miliare al seguito di Ottavio Farnese che accompagnò, nel 1540, a prendere possesso di Camerino. Combatté nella guerra di Siena a sostegno di Cosimo de’ Medici, al quale rimase legato anche in seguito. Nel dicembre del 1555 seguì il cardinale Cristoforo Madruzzo, nominato l’anno seguente governatore di Milano. I numerosi feudi dei Savelli furono ripetutamente, nel Cinquecento, teatro di tensioni e contrasti con le comunità, che ebbero anche Onorio come protagonista e sollecitarono l’intervento dei tribunali romani.
Nel 1545 Aspra si ribellò per gli aggravi imposti: gli abitanti si rivolsero al papa attraverso l’intermediazione del vescovo di Rieti Mario Aligeri e del cardinal Alessandro Farnese. Fu inviato un commissario per indagare anche su «eccessi», omicidi e saccheggi avvenuti anni prima nella terra di Torri in Sabina e a Vacone, durante la festa di S. Egidio. In quell’occasione, la prigione era stata presa d’assalto, i carcerati liberati, un convento messo furiosamente a sacco e un frate gettato in un pozzo. Azioni violente, dissacratorie, che avevano usato la festa per schernire il potere e la religione. Anche il grano era stato bruciato «e infiniti sono i robbamenti e assassini et benché Vacone sia poca terra et faccia poca gente non per questo che tra di loro non habin fatto e faccian di giorno molti homicidi» (Archivio di Stato di Roma, Tribunale criminale del Governatore, Processi sec. XVI, vol. 10, cc. 817r-820v), commentava il commissario inviato sul luogo e aggiungeva che, in tutto questo tumultuare, «par di conoscere la mano del Signor Savello». Forse si trattava di Antonello Savelli o, probabilmente, dello stesso Onorio. L’autorità romana intervenne – per altro con una sola indagine conoscitiva – per il timore di rivolte in una zona particolarmente turbolenta, già ricettacolo di banditi e fuorusciti, protetti dai Savelli, come risulta da un più tardo processo contro Onorio. Ma sussisteva anche il sospetto che dietro azioni palesemente dissacratorie potesse celarsi «la mala pianta» dell’eresia.
Nel 1560 Onorio fu accusato di crimini enormi, eccessi e altri delitti (ibid., vol. 60, cc. 69v-87v) e nel 1562 fu condannato all’esilio e alla confisca dei beni. Tuttavia, dopo pochi anni, aveva recuperato i diritti feudali su Aspra. Pio V era risoluto a intervenire contro l’indisciplinato Savelli, non solo per la salvaguardia dell’ortodossia o per la volontà di infliggere punizioni esemplari ai comportamenti scandalosi del nobile romano. C’era anche la necessità di risolvere una causa «di parentado»: Giulia Savelli, rinchiusa nel monastero di Tor de’ Specchi, aveva manifestato la sua volontà di sposare Onorio e non Troilo, come disposto nel testamento della madre Costanza Bentivoglio. Il cardinale Giacomo Savelli, fratello di Giulia, emanò la sentenza di nullità del matrimonio di Giulia con Onorio (29 maggio 1566), intimando alla donna il rispetto della volontà testamentaria della madre, pena la perdita dell’eredità. A sostegno della volontà del cardinale Pio V intervenne confiscando i territori di Onorio in Sabina e affidandone, nel 1566, l’amministrazione a commissari. In realtà, Aspra come Monteleone non furono mai possedute da Onorio Savelli che, tuttavia, vi aveva esercitato giurisdizione e poteri signorili.
Ai contemporanei non sfuggivano le motivazioni dell’incisiva azione di papa Ghislieri. Un avviso del 30 marzo 1566 scriveva che «Il Signor Honorio Savelli è perseguitato dal Papa dicono per causa d’alcuni homicidj et haver tenuto mano a un assassinamento fatto a tempo di Pio IV anco imputato d’heresia. Delli homicidj et assassinamento confessa, ma dimanda perdono et gratia. Dell’heresia che le faccia salvo condotto, di questo si verrà a depositarsi dove vorrà Sua Santità» (Biblioteca apostolica Vaticana, Urb. lat. 1040, c. 207r). Il papa aveva fatto mandare dal governatore un commissario apostolico ad Aspra e Rignano, per «prendere possesso della rocca, far inventario e procedere alla confisca di tutti i beni mobili e immobili del signor Onorio, per molti eccessi ed enormi delitti» (Archivio di Stato di Roma, Tribunale criminale del Governatore, Processi sec. XVI, vol. 116, ins. 3). Era noto che Savelli praticava ogni tipo di violenze nei suoi territori: omicidi, abigeati, incursioni punitive nelle comunità, stupri. L’accusa di complicità con i banditi spinse il papa a intervenire, anche per l’accusa di eresia già mossa in passato a Onorio. Furono interrogati dettagliatamente i massari e nel loro racconto vennero alla memoria episodi di violenze, anche lontane.
Raccontarono la «scampanata» e lo stupro, commissionato dal signor Onorio, di Caterina, vedova decisa a passare a seconde nozze: Jacobo tessitore, il futuro sposo, fu prelevato dalla sua abitazione da due uomini del paese e «certi altri servitori del Sr. Honorio Savello», messo in un sacco e portato alla rocca; Caterina fu invece condotta «nella rocca dove era detto Sr. Honorio, mentre per la terra si sonava un tamburo e più campanazzi, paioli, calderelle e tegglie, come si fa quando uno piglia una vedova, intesi che avevano messo un lenzuolo in una hasta, qual portavano per insegna che andavano raccogliendo i giovani che andassero in Rocha» per abusare di Caterina (cc. 745v-747r).
L’azione del tribunale criminale romano non fu però immediata né incisiva: non mancarono le pressioni sulla Curia e sullo stesso pontefice, se proprio nel memoriale si accenna a una lettera di Pio V, nella quale si invitavano gli esecutori a garantire al figlio di Onorio, Luzio (Lucio), «da vivere e gli alimenti secondo il grado suo ad un signore quale è putto […] Acciò non patisca perché si è lamentato che se gli è tolto ogni cosa senza però prejudicio della ragione del Fisco et della Reverenda Camera Appostolica» (c. 721r). Il governatore ordinò di prendere possesso, in nome della Camera apostolica, di Rignano, di Aspra e di altre terre e sostituire gli ufficiali. La comunità, esplicitamente accusata di complicità per avere accolto il suo signore bandito dall’autorità romana fu punita con forti pene pecuniarie. Dopo sei mesi, nel gennaio del 1568, Luzio Savelli fu reintegrato nei suoi diritti e possessi feudali per volontà dello stesso pontefice (ibid., vol. 126, c. 167r).
Negli anni di Pio V l’intervento della giustizia si fece più solerte nei confronti della nobiltà collusa con banditi e sospettata anche di eresia, ma tale politica fu condizionata da pressioni interne che ne inficiarono, spesso, le risoluzioni finali. Pure nel caso di Savelli, oltre al tribunale del governatore, procedette anche l’Inquisizione, mossa dai vassalli, da tempo angariati dalle violenze del nobile. I capi di accusa erano assai precisi in materia di presunti crimini di fede. Savelli, come altri esponenti del baronaggio romano, aveva partecipato alle guerre in Germania con le armate imperiali contro gli eretici ed era sospettato di aver diffuso nei suoi feudi «il contagio della peste lutherana». Si sosteneva, negli atti di accusa presentati dai sudditi al S. Uffizio, che durante la sua permanenza in Germania e a Trento al seguito del cardinale Cristoforo Madruzzo «andava alle prediche et congragationi di Lutherani». In particolare si diceva che disputasse pubblicamente «con preti e predicatori e teneva che non si trovava paradiso né purgatorio»; era accusato di mangiare carne il venerdì e di incoraggiare i sudditi a fare altrettanto. Alcuni avrebbero testimoniato che «publicamente detto Signore, tenendo le opinioni di Martin Luthero», avesse negato «la potestà del papa et i sacramenti et ordini della S.ta Chiesa, tenendo in specie che il peccato della lussuria non fosse peccato et che una donna senz’altra dispensa della Sede Apostolica maritata ad uno si potesse maritar ad altro». Altri testimoni fra i vassalli affermavano che voleva prendere «el sacramento et li olii santo e della cresima e di quelli farne esperienza con cani»; che aveva più volte negato la transustanziazione e, parlando della messa, diceva: «andiamo al comune errore» (ACDF, Archivum Sancti Officii Romani, Stanza storica, R 2-m, cc. 673v-677v). Nella sua lunga deposizione, Savelli aveva ammesso le sue colpe, le frequentazioni di eretici, la lettura di libri pericolosi, tutti crimini commessi insieme a suo cognato, il nobile romano Carlotto Fausto Orsini, signore di Mugnano e Cottanello, anch’egli militare nelle guerre contro i luterani nelle terre dell’Impero. Sarebbe stato proprio Carlotto a introdurlo alle letture proibite di testi eretici, alle idee riformate che circolavano e avevano suggestionato non pochi nobili militari che partecipavano alle guerre contro i protestanti. Il S. Uffizio ascoltò anche le testimonianze di eminenti prelati, come il cardinale Madruzzo, Girolamo Galimberti, vescovo di Gallese, di baroni romani come Paolo Giordano Orsini che scagionavano il signore di Rignano. Il processo difensivo presentava Savelli come buon cattolico, giusto giudice nei suoi feudi, premuroso e generoso verso i bisognosi (cc. 629r-751r). Ai vassalli furono rivolte domande di carattere teologico alle quali non erano in grado di rispondere o abbozzavano spiegazioni inconsistenti e, alla fine, ritrattavano le precedenti affermazioni e addirittura difendevano l’operato dei feudatari, per timore di spezzare un precario equilibrio fra signore e comunità.
Se, però, i vassalli furono sconfessati, Pio V ottenne comunque un successo. Savelli, ammonito severamente, abiurò in maniera solenne i suoi errori il 10 gennaio 1567 davanti ai cardinali e al pontefice e fu costretto a pagare 1000 scudi. Era in compagnia di Niccolò Orsini, conte di Pitigliano, coinvolto anch’egli in una lunga e controversa vicenda che aveva visto protagonisti il papa e Cosimo I de’ Medici.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Roma, Tribunale criminale del Governatore, Processi sec. XVI, voll. 10, 60, 65, 116 ins. 3, 126, 164 ins. 1; Città del Vaticano, Archivio della Congregazione per la dottrina della fede (= ACDF), Archivum Sancti Officii Romani, Stanza storica, R 2-m., cc. 629r-751r; Biblioteca apostolica Vaticana, Urb. lat. 1040, c. 207r.
P. Litta, Le famiglie celebri d’Italia, X, I Savelli di Roma, a cura di L. Passerini, Milano 1872, p. 546, tav. XI; I. Fosi, Signori e tribunali. Criminalità nobiliare e giustizia pontificia nella Roma del Cinquecento, in Signori, patrizi e cavalieri nell’età moderna, a cura di M.A. Visceglia, Roma-Bari 1992, pp. 214-230; R. Lefèvre, Ricerche e documenti sull’Archivio Savelli, Roma 1992, ad ind.; A. Attanasio, «... però non guastate la coda al pavone...». Per la storia di Aspra e dei Savelli, suoi signori, nel Cinquecento, in Casperia. Inventario dell’Archivio (1099-1860) e studi documentari, a cura di A. Attanasio - A. Pellegrini, Roma 2000, pp. 252 s.; I. Fosi, La giustizia del papa. Sudditi e tribunali nello Stato pontificio in età moderna, Roma- Bari 2007, pp. 77-83, 154; Ead., Niccolò Orsini ribelle a Cosimo I e al papa, in Les procès politiques, Roma-Paris 2007, pp. 273-289.