ONFACE (᾿Ομϕάκη)
Piccola città indigena del circondano di Gela, nella Sicilia meridionale.
Nel VII sec. a. C. fu conquistata e distrutta dai Gebi, al comando dell'ecista Antifemo, il quale ne riportò come bottino una statua di tipo dedalico, a quel che narra Pausania (viii, 46, 2; ix, 40, 4), probabilmente un simulacro di culto. Un papiro frammentario di Ossirinco, contenente il sommario di una storia di un autore siciliano (che il De Sanctis ha identificato in Filisto) ricorda avvenimenti del periodo immediatamente seguente alla caduta dei Dinomenidi; vi si menzionano gli xènoi, i mercenari di Gerone che si erano rifugiati ad O. e a Kakyron per muovere contro Gela; il passo è importante perché mostra che la città sopravvisse alla distruzione del VII sec., tanto che era ancora esistente nel 460-461, cui si riferiscono i fatti narrati.
Nel territorio circondante la piana di Gela furono ricercate talune città ricordate dalla tradizione: O., Echefla, Kakyron; l'identificazione della prima con Butera è compromessa dalla mancanza di resti siculi nel luogo; maggior valore ha l'ipotesi dell'Orsi, che colloca il grosso borgo indigeno sui colli di Monte S. Mauro, fra Gela e Caltagirone, da lui esplorati in tre brevi campagne dal 1903 al 1905. Il carattere di successiva occupazione del sito da parte della popolazione indigena prima e dei Greci poi, coincide con la tradizione che vuole la città distrutta da Antifemo, ma che sottintende anche un piccolo abitato greco venuto a sovrapporsi ai resti più antichi, probabilmente per ragioni politico-militari, ed esistente fino al V sec. a. C.; solo se ci attenessimo strettamente alla definizione di Pausania (loc. cit.) di O. quale πόλισμα Σικανῶν, dovremmo ricercarne l'ubicazione più a N-O di Gela, fuori della vallata del fiume omonimo.
Sul più importante dei cinque colli su cui si estendeva l'abitato, e che tracce di fortificazioni inclinano a considerare l'acropoli, sorse già nell'VIII sec. a. C. un piccolo edificio con due ante e un embrione di pròthyron sulla fronte orientale, diviso in due vani; questo edificio, che poggia le fondamenta sul terzo strato siculo, è considerato dall'Orsi l'anàktoron, cioè la dimora del dinasta indigeno; iniziato nell'VIII sec., fu distrutto nel VII dai Greci, i quali lasciarono le loro tracce nella necropoli sul pianoro, in località Barravecchia, che ha rivelato 57 sepolture, a dolio e a fossa, gran numero di ustrina e frammenti di ceramica corinzia e attica a figure nere, e soprattutto nel tempietto arcaico situato su un'altra delle colline; la pianta di questo modesto edificio ligneo è andata perduta, ma furono rinvenuti bei frammenti del rivestimento architettonico in terracotta dipinta del gheison e delle sime: palmette ioniche a doppia fronte, con i petali dipinti in rosso e bruno, rosoni, opere dei Gebi che innalzarono verosimilmente l'edificio nel VI sec., dopo l'occupazione del luogo avvenuta alla fine del secolo precedente. Tuttavia anche l'istallazione greca, a giudicare dai reperti archeologici (fra cui un bassorilievo in calcare con due sfingi sedute addossate ai lati di una palmetta, bel lavoro greco-orientale del VI sec. a. C.) dovette avere il carattere non di una πόλις vera e propria ma di un ἀτείχιστος, con gruppi di casette sparse, dominate dal piccolo tempio. Dopo la prima metà del V sec. a. C. O. non viene più menzionata dalle fonti scritte e si interrompono le tracce di occupazione sul terreno.
Bibl.: J. Schubring, Historisch-geographische Studien über Altsicilien, in Rheinisches Museum für Philologie, N. S., XXVIII, 1873, pp. 121-22; G. De Sanctis, Una nuova pagina di storia siciliana, in Rivista di Filologia e d'Istruzione Classica, XXXIII, 1905, pp. 66-73; P. Orsi, Gela. Scavi del 1900-1905, in Mon. Ant. Lincei, XVII, 1906, c. 15; id., Di una anonima città siculo-greca a Monte S. Mauro presso Caltagirone, ibid., XX, 1910, cc. 729 ss., in particolare c. 850 e nota i (sull'identificazione con O.); G. Libertini, in Enc. It., XXV, Roma 1935, p. 373, s. v.; B. Pace, Arte e civiltà della Sicilia antica, I, Città di Castello 1935, p. 201; II, 1938, p. 6, nota 2.