Omero
O. si fa incontro a D. in quella parte del Limbo che appare fiammeggiante di luce, sede privilegiata di gente degna di grandissimo onore; e Virgilio lo presenta con parole che ne consacrano l'assoluta eccellenza di poeta: Mira colui con quella spada in mano, / che vien dinanzi ai tre sì come sire: / quelli è Omero poeta sovrano (If IV 86-88).
I tre sono Orazio, Ovidio e Lucano. Quando Virgilio si unisce a loro (probabilmente era di O. stesso la voce che lo aveva salutato per tutti: Onorate l'altissimo poeta; / l'ombra sua torna, ch'era dipartita, IV 80-81), D. vede ricomporsi la bella scola, a cui viene associato poco dopo con salutevol cenno (vv. 94, 98). Procede, sesto con gli altri, parlando cose che 'l tacere è bello (v. 104): una reticenza, sul valore della quale gl'interpreti hanno molto discusso, ma che lascia comunque intravvedere la sublimità di quei discorsi.
L'accenno alla bella scola è accompagnato da due versi, sulla cui interpretazione i commentatori non sono concordi: la bella scola / di quel segnor de l'altissimo canto / che sovra li altri com'aquila vola (vv. 94-96). Una variante, che ebbe credito nella tradizione manoscritta e presso i commentatori antichi, leggeva veramente di quei signor, sicché la lode andava riferita a tutta la schiera dei poeti nel suo insieme. Ma tale lezione è stata abbandonata, e l'abbandono può considerarsi definitivo, da quando il Parodi (Lingua 340-342) ha precisato che l'espressione altissimo canto deve intendersi con valore tecnico specifico, riferita allo stile epico o tragico (cfr. VE II IV 8-11) e che in questa tecnicità trova una giustificazione anche il ripetersi a così breve distanza dello stesso aggettivo (l'altissimo canto qui, e poco innanzi l'altissimo poeta); la lode non si converrebbe allora a poeti non epici come Orazio e Ovidio. Ammessa concordemente la lezione di quel segnor, un gruppetto considerevole d'interpreti ritiene che si parli qui di Virgilio, il quale riprenderebbe, al suo primo apparire, il posto che gli compete: sembra inammissibile ad alcuni che D. non ponga al primo posto il suo maestro. I più intendono giustamente che qui si parli sempre di O., ‛ sire ', ‛ sovrano ', ‛ signore '. Quanto alla proposizione relativa che sovra li altri com'aquila vola, i critici più autorevoli tendono a riferirla non a segnor, cioè a O., ma a canto, e a vedere in essa una definizione dello stile tragico in genere. Si vorrebbe qui obiettare: che il volo dell'aquila riferito a canto renderebbe superfluo e quasi banale l'epiteto altissimo ad esso anche attribuito; che, mentre l'espressione altissimo canto, tutta insieme, può ben trarsi al significato di ‛ stile epico ' o ‛ tragico ', meno facile è intendere nel valore di ‛ stili ' il plurale ‛ canti ', quale dovrebbe enuclearsi dal pronome altri; che infine anche nel passo del De vulg. Elogi, giustamente portato a riscontro, là dove si legge si anseres natura vel desidia sunt, nolint astripetam aquilam imitari (II IV 11), la contrapposizione anseres-aquila e l'uso del verbo imitari ci obbligano a vedere nell'astripeta aquila non il genere letterario ma il cultore di esso. Infine nell'episodio di Stazio, che è in certo modo un ripensamento di questo del Limbo (anche per ciò che riguarda la cultura greca: O. è l'unico scrittore greco, non filosofo, che si ricordi in If IV; nel Purgatorio si aggiungono i nomi di Euripide, Antifonte, Simonide, Agatone), la superiorità di O. sugli altri poeti è asserita di nuovo, in modo inequivocabile, là dove Virgilio fa sapere a Stazio che egli e altri poeti latini hanno sede nel Limbo con quel Greco / che le Muse lattar più ch'altri mai (Pg XXII 101-102). Tanto che, quando si legge in Pd XV 26 se fede merta nostra maggior musa, si è tentati di dare a quel nostra un valore limitativo.
Quanto alta e incondizionata è la lode di O., altrettanto vaga e scolorita è la rappresentazione di lui, se si toglie l'attributo della spada, anch'esso peraltro generico riferimento alla poesia epica come tale (cfr. per es. Orazio Ars poet. 73-74 " Res gestae regumque ducumque et tristia bella / quo scribi possent numero monstravit Homerus "). Manca qualsiasi cenno ai tratti tradizionali più caratteristici, la vecchiaia e la cecità, che D. avrebbe potuto conoscere più o meno dalle stesse fonti donde le trasse il Petrarca per un passo dell'Africa (IX 167-169 " Aspicio adventare senem, quem rara tegebant / frusta togae et canis immixta et squalida barba. / Sedibus exierant oculi... "). D. non raccolse testimonianze sull'aspetto di O. da testi che pur conosceva; non volle forse turbare con particolari realistici la rappresentazione di una ineffabile superiorità.
L'eccellenza di O. era consacrata in un'autorevole tradizione classica e medievale. D. poteva aver letto nel commento di Macrobio al Somnium Scipionis (II X 11): " Homerus, divinarum omnium inventionum fons et origo, sub poetici nube figmenti verum sapientibus intellegi dedit ". È anche possibile che egli conoscesse il primo dei distici introduttivi ai sommari poetici dell'Eneide attribuiti a Ovidio: " Vergilius magno quantum concessit Homero / tantum ego Vergilio Naso poeta meo " (E. Baehrens, Poet. lat. min., IV 1882, 161). I sommari si trovano in alcuni codici virgiliani e il primo distico è citato anche in quel significativo repertorio della cultura medievale che è il Registrum multorum auctorum di Hugo von Trinberg (ediz. K. Langosh, Berlino 1942, 163), dove poco dopo s'insiste sulla superiorità assoluta di O.: " Sic et Homerus claruit in studiis Graecorum. / Hic itaque Virgilium praecedere deberet / si latine quispiam hunc editum haberet; / sed apud Graecos remanens nondum est translatus " (ediz. cit., p. 167). Ma, a prescindere da giudizi tradizionali, più o meno chiaramente formulati, due fatti soprattutto dovettero influire in questo senso sull'apprezzamento di D.: uno era il sapere, direttamente o indirettamente dai Saturnali di Macrobio, che Virgilio aveva considerato O. come il suo modello; l'altro, che è stato messo nel giusto rilievo dal Renucci (pp. 227-228), il vederlo citato come un'auctoritas dal maestro di color che sanno nei passi che ora vedremo. O. era il poeta di quella civiltà il cui filosofo si chiamava Aristotele.
Esaminiamo ora i luoghi in cui O. è ricordato o citato da D. al di fuori della Commedia.
1. Cv I VII 15 E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia. E questa è la cagione per che Omero non si mutò di greco in latino come l'altre scritture che avemo da loro. E questa è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d'armonia, ecc. Tutto, anche l'accostamento di O. alle Sacre Scritture, proviene da s. Girolamo (Praefatio in librum II Chronicorum Eusebii, in Patrol. Lat. XXVII 223-224) " Inde adeo venit ut sacrae litterae minus comptae, et dura sonantes videantur; quod isti homines interpretatas eas de Hebraeo nescientes, dum superficiem non medullam inspiciunt, ante quasi vestem orationis sordidam perhorrescunt, quam pulchrum intrinsecus rerum corpus inveniant. Denique quid Psalterio canorius?... Quod si cui non videtur linguae gratiam interpretatione mutari, Homerum ad verbum exprimat in Latinum. Plus aliquid dicam, eundem in sua lingua prosae verbis interpretetur, videbit ordinem ridiculum, et poetam eloquentissimum vix loquentem ". La derivazione è chiara; di suo D. aggiunge che non esiste ancora al suo tempo una traduzione di O. (cfr. nel passo di Ugo von Trinberg citato poco sopra: " sed apud Graecos remanens nondum est translatus "). Come vedremo più oltre, D. non conobbe neppure il compendio in esametri dell'Iliade che andava sotto il nome di Ilias latina, e che per alcune parti almeno era o poteva sembrare una traduzione.
2. Vn XXV 9, a proposito della libertà concessa ai poeti di parlare a le cose inanimate, sì come se avessero senso e ragione (§ 8): Per Orazio parla l'uomo a la scienzia medesima sì come ad altra persona; e non solamente sono parole d'Orazio, ma dicele quasi recitando lo modo del buono Omero, quivi ne la sua Poetria: Dic michi, Musa, virum. È citazione dell'Ars poet. (vv. 140-143): " Quanto rectius hic, qui nil molitur inepte: / Dic mihi, Musa, virum, captae post tempora Troiae / qui mores hominum multorum vidit et urbes ". E utile notare: che in Orazio O. È assunto proprio come esempio dello stile epico, in un contesto che può avvicinarsi al passo sopra citato di VE II IV 8-11; che i versi iniziali dell'Odissea, nella traduzione di Orazio, influirono probabilmente sulla caratterizzazione dantesca della figura di Ulisse; che D. doveva essere stato aiutato in qualche modo (dalla tradizione scolastica) a riconoscere O. in colui " qui nil molitur inepte ".
3. Vn II 8, di Beatrice: e vedeala di sì nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Omero: " Ella non parea figliuola d'uomo mortale, ma di deo ". Le parole di Omero (Il. XXIV 258-259 οὐδὲ ἐῴκει / ἀνδρός γε θνητοῦ πάϊς ἔμμεναι ἀλλὰ θεοῖο) provengono a D. da una citazione di Aristotele (Eth. Nic. VII 1, 1145a) come D. stesso chiarisce nei due passi che seguono.
4. Cv IV XX 4, commentando il verso ch'elli son quasi dèi (Le dolci rime 114): così come uomini sono vilissimi e bestiali, così uomini sono nobilissimi e divini, e ciò pruova Aristotile nel settimo de l'Etica per lo testo d'Omero poeta.
5. Mn II III 9, parlando della nobiltà di Enea: cum [Virgilius] de Miseno mortuo loqueretur qui fuerat Hectoris minister in bello et post mortem Hectoris Aeneae ministrum se dederat, dicit ipsum Misenum " non inferiora secutum ", comparationem faciens de Aenea ad Hectorem, quem prae omnibus Homerus glorificat, ut refert Phylosophus in hiis quae de moribus fugiendis ad Nicomacum. Ecco il passo di Aristotele nella versione latina che a D. era nota: " quemadmodum Homerus de Hectore fecit dicentem Priamum quoniam valde erat bonus, neque videbatur viri mortalis puer existere sed dei ".
Può sembrare strano che il verso omerico, in cui si parla di Ettore, sia stato utilizzato in un primo tempo per dire le lodi di Beatrice. Non mi sembra però necessario inferirne, come fa il Renucci (p. 41 n. 142), una conoscenza non diretta, o una lettura non attenta dell'Etica Nicomachea al tempo della Vita Nuova, quando ciò non sia dimostrabile per altre vie. Quello che varia, nei tre passi citati, non è l'acquisizione erudita, bensì il tessuto in cui essa s'innesta: nella Vita Nuova il rapporto uomo-Dio si concretava nella concezione della donna angelicata, nel Convivio e nella Monarchia esso si manifesta nell'azione dell'uomo nobile e virtuoso. Importa qui rilevare come D. si sia fermato con insistenza su questa citazione, e quanto possa aver contribuito alla stima di O. il vederne invocata da Aristotele l'autorità sopra tale argomento.
6. Mn I V 5 Si consideremus unam domum... unum oportet esse qui regulet et regat... iuxta dicentem Phylosophum: " Omnis domus regitur a senissimo "; et huius, ut ait Homerus, est regulare omnes et leges imponere aliis. Le parole di O. sono (Od. IX 114 -115 θεμιστεύει δὲ ἕκαστος / παίδων ἠδ' ἀλόχων e il tutto proviene da Aristotele Pol. I 2, 1252b " omnis enim domus regitur a senissimo, itaque et apoichie propter cognationem. Et hoc est quod dicit Homerus ‛ Leges statuit unusquisque pueris et uxoribus ' ". Anche qui l'autorità di O. è invocata da Aristotele sopra un problema di primaria importanza.
Inconsapevole, e quindi non valida in questa sede, è la citazione omerica sullo stesso argomento che si cela in Mn I X 6 Et hanc rationem videbat Phylosophus cum dicebat: " Entia nolunt male disponi; malum autem pluralitas principatuum: unus ergo princeps ". Abbiamo qui la traduzione di un verso dell'Iliade (II 204): οὐκ ἀγαθὸν πολυκοιρανίη •εἷς κοίρανος ἔστω, che Aristotele cita (Metaph. XII 10, 1076a) senza fare il nome di Omero.
Accostamenti formali, quali furono indicati a più riprese da alcuni studiosi, svaniscono a un attento esame, perché sempre mediati attraverso autori latini, essendo ignota a D. la discendenza da Omero.
Possiamo chiederci ora - ed è questo il punto più delicato della ricerca - di quali mezzi disponesse D. per avvicinarsi al mondo cantato da O., e fino a qual punto questo avvicinamento sia avvenuto. Una risposta potrà aversi leggendo, in questa Enciclopedia, le voci dedicate ad Achille, a Ettore, a Ulisse e agli altri eroi omerici; ma è utile fare qui qualche considerazione d'ordine generale. Innanzitutto, per l'Iliade almeno, gli studiosi del Medioevo disponevano di alcuni libri che potevano in qualche modo informarli sul contenuto del poema: la Ephemeris belli Troiani attribuita a Ditti Cretese, la Historia de excidio Troiae di Darete Frigio, e infine, più fedele al testo di O., l'Ilias latina, compendio dell'Iliade in 1070 esametri. È molto dubbio che D. abbia conosciuto i primi due testi, il terzo gli fu certo ignoto. La Historia di Darete (cap. 39) è citata talvolta nei commenti dell'Inferno per il tradimento di Antenore, donde il nome dell'Antenora; ma più che al complesso racconto di Darete (in cui Antenore tradisce ma d'accordo con Enea !) vien fatto qui di pensare, come a probabile fonte, a una nota concisa e chiara di Servio (Com. ad Aen. I 242). Ditti Cretese e Darete si citano qualche volta come possibili fonti della notizia della morte di Achille, in quanto causata dall'amore di Polissena, a spiegazione del passo dantesco: 'l grande Achille, / che con amore al fine combatteo (If V 65-66). Ma sembra difficile ammettere che D. abbia letto i passi relativi di Ditti (IV 10-11) o di Darete (capp. 27 e 34), in cui la figura di Achille è messa in luce non buona. È più facile anche qui risalire alla scarna notizia che ne dà Servio (Com. ad Aen. III 321), quando si possa pensare insieme a un influsso più o meno diretto della tradizione medievale, facente capo a Benoît de Sainte-Maure, in cui quell'amore di Achille si era colorito di atteggiamenti cortesi: sempreché l'accenno di D. debba riferirsi alla sola Polissena e non anche a Briseide. Un'epistola di Briseide ad Achille è tra le Heroides di Ovidio, e alcuni versi di essa (III 113-124) e soprattutto il libro e l'autore erano tali, che potevano ben suggerire l'inclusione dell'eroe tra i lussuriosi.
Se qualche dubbio può sussistere circa i racconti di Ditti e Darete, la conoscenza della Ilias latina si esclude per un argomento ex silentio, che ha però valore decisivo. È opportuno notare che, a rigore, gli avvenimenti della guerra di Troia potrebbero ricostruirsi per intero dagli autori latini, tanti sono gli accenni che in essi si trovano; ma ciò avrebbe richiesto un paziente lavoro combinatorio che non era di D., perché tali accenni sono tra i più rapidi e i più allusivi, secondo il gusto degli alessandrini, riferendosi a un testo che era presente più di ogni altro all'animo degli antichi. La lettura dell'Ilias latina non solo avrebbe presentato a D., con sufficiente evidenza, episodi importanti (la contesa con Agamennone, l'uccisione di Ettore, la restituzione del suo cadavere a Priamo), ma lo avrebbe aiutato a dare la necessaria concretezza ad alcuni almeno degli accenni contenuti in autori a lui cari, come Virgilio, Ovidio, Orazio. Ciò non è avvenuto. Di Achille D. ricorda soltanto il noviziato presso Chirone, lo stupore nel ritrovarsi a Sciro, l'abbandono di Sciro e di Deidamia per opera di Ulisse, derivando il tutto da Stazio. Sa inoltre, come abbiamo visto, che egli soggiacque ad amore, e raccoglie una tradizione ininterrotta, classica e medievale, secondo cui la sua lancia feriva e guariva. Nel Convivio (IV XXVII 20) è indicata una discendenza dell'eroe da Eaco in modo tale, che soltanto la buona volontà degli editori è riuscita a farne un cugino e non un fratello di Aiace; ma la Simonelli ha preferito attenersi ai codici, e giustamente (" Frater erat, fraterna peto " dice Aiace in Met. XII 31, reclamando per sé le armi di Achille). Tutti qui sono gli accenni all'eroe greco nell'opera di D.: in corrispondenza al racconto di O. c'è il vuoto completo.
Un po' diversa è la situazione nei riguardi dell'Odissea, e non fa meraviglia, perché i miti in essa narrati, per il loro stesso rilievo fantastico, hanno avuto nella poesia latina una vita più indipendente. La figura di Ulisse, ben più complessa di quella di Achille, si era prestata già presso gli antichi a singolari sviluppi ed era pronta a caricarsi di significati simbolici in età più moderne. Il genio di D. seppe farla rivivere con tratti nuovi, inconfondibili, e pur non lontani da quelli di O. almeno in quello struggente desiderio della patria e dei cari (né dolcezza di figlio), che egli porta sempre con sé nei suoi viaggi. Tuttavia, sull'effettivo contenuto dell'Odissea D. sapeva ben poco; molto più informato si mostra Giovanni di Salisbury (probabilmente attraverso Igino Fab. 125) in un breve passo del Policraticus (VI 18, ediz. Webb II 326) nel quale sono enumerati i pericoli da cui Ulisse scampò con l'aiuto di Minerva.
In generale sembra si possa concludere che gl'incontri di D. con O., per quando scarsi, avvennero per la massima parte attraverso la tradizione classica. È significativo che mai nelle sue opere si trovi un accenno a quel Troilo che tanta parte ha nei testi medievali rievocanti la leggenda di Troia. La stima che D. fece di O. e le parole con cui l'esprime attestano a noi una passione non appagata: quella stessa passione che indusse poi il Petrarca e il Boccaccio a ricercare in Leonzio Pilato un traduttore dei due poemi.
Bibl. - E. Moore, Studies in Dante, I, Londra 1896, 164-166; A. Renaudet, Dante humaniste, Parigi 1952, partic. pp. 435-458; P. Renucci, Dante disciple et juge du monde gréco-latin, ibid. 1954; F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla Commedia. Il canto IV dell'Inferno, in " Studi d. " XLII (1965) 136-146; G. Brugnoli, O. Sire, in " Cultura Neolatina " XXVII (1967) 120-136.