Olimpiadi estive: Parigi 1900
Numero Olimpiade: II
Data: 20 maggio-28 ottobre
Nazioni partecipanti: 24
Numero atleti: 1233 (1211 uomini, 22 donne)
Numero atleti italiani: 25
Discipline: Atletica, Calcio, Canottaggio, Ciclismo, Cricket, Equitazione, Ginnastica, Golf, Nuoto, Pelota basca, Polo, Rugby, Scherma, Tennis, Tiro, Tiro con l'arco, Tiro alla fune, Vela
Numero di gare: 95
Già nel congresso della Sorbona del 1894, de Coubertin aveva proposto che il ripristino dei Giochi partisse dal 1900, da Parigi e dall'Esposizione Universale che vi era programmata. I delegati lo convinsero che sei anni di attesa erano un periodo troppo lungo e suggerirono il 1896 e Atene. Al termine della prima Olimpiade i greci erano sicuri che i Giochi si sarebbero sempre svolti nella loro capitale. Re Giorgio chiese esplicitamente a de Coubertin una dichiarazione in tal senso, supportato anche da una lettera della delegazione statunitense, e a fronte delle resistenze del barone una campagna di stampa lo bollò come "ladro delle tradizioni greche". Il re si spinse fino a chiedere, nel banchetto finale dei Giochi, le dimissioni del barone in caso di diniego alla sua proposta, ma de Coubertin tenne duro.
Un secondo congresso olimpico fu fissato per il 1897 a Le Havre, in Normandia, provincia di cui la famiglia de Coubertin era originaria. Presidente onorario dell'assise fu il primo ministro francese Félix Fauré, nativo di Le Havre. I 59 delegati non discussero nemmeno dei Giochi futuri, già assegnati alla capitale francese, dove era in programma l'Expo. All'interno dell'Esposizione de Coubertin sognava di ricostruire l'antico sito di Olimpia, riproducendo il sacro recinto dell'Altis, come aveva già proposto ai direttori dell'Expo 1889, ma senza successo. Il responsabile dell'Esposizione 1900 era Alfred Picard, un ufficiale di stampo conservatore che aveva assai poco rispetto per lo sport e gli sportivi e chiuse in un cassetto il piano del barone. De Coubertin intanto aveva nominato un nobile suo amico, il visconte di La Rochefoucauld, presidente del Comitato organizzatore dei Giochi; segretario generale sarebbe stato Robert Fournier-Sarloveze, un cavaliere, amante dello sport, futuro sindaco di Compiègne. Le adesioni cominciarono ad arrivare: Henri Desgrange, fondatore dell'Auto, la pubblicazione dalla quale sarebbe nata L'Équipe, e direttore del velodromo del Parco dei Principi, offrì "tutto, tranne la Senna", i responsabili dei diversi sottocomitati furono nominati e si riunirono il 29 maggio 1898 all'hotel di proprietà di La Rochefoucauld. Fu prodotto un vastissimo programma, che comprendeva ogni disciplina possibile, le iscrizioni iniziarono a fioccare, i preparativi a farsi frenetici. Ma il 9 novembre dello stesso anno l'Unione delle società sportive atletiche francesi (USFSA), di cui pure de Coubertin era segretario generale, dichiarò di essere l'unica depositaria del diritto di organizzare manifestazioni sportive a Parigi nel 1900. La Rochefoucauld si dimise immediatamente e de Coubertin lo seguì a ruota. Picard, direttore dell'Expo, nominò Daniel Mérillon, presidente della Federtiro francese, a capo della nuova organizzazione nel febbraio del 1899. Mérillon diffuse, nel giugno successivo, un nuovo programma di manifestazioni, ma le numerose strutture sportive internazionali che avevano già aderito alla proposta di de Coubertin rifiutarono di associarsi alla nuova iniziativa. Secondo il programma di Mérillon l'Olimpiade si sarebbe tenuta a Vincennes e le discipline sarebbero state inserite nelle diverse sezioni dell'Esposizione: per esempio, la ginnastica nella sezione scolastica e la vela nella navigazione commerciale, ma anche il pattinaggio e la scherma nella coltelleria… L'Olimpiade traballava.
De Coubertin cercò di salvare il salvabile, viaggiando in mezza Europa per convincere i responsabili delle diverse organizzazioni ad aderire alla proposta di Mérillon; ma tutti ribadirono che il barone era l'unico interlocutore. Anche gli Stati Uniti fecero sapere di essere inclini a cancellare la loro adesione. Finì che in seno all'Expo fu organizzata una miriade di eventi sportivi inseriti nel programma della Fiera, così diversi e multiformi, così slegati fra loro, che assai pochi ricevettero l'etichetta di 'competizione olimpica'; le gare furono descritte come 'concorsi internazionali di esercizi fisici e sport', la stampa li chiamò giochi internazionali, mondiali, Giochi di Parigi. "Un miracolo che il movimento olimpico sia sopravvissuto a questo disastro", commentò più tardi de Coubertin, il cui ruolo, durante questi Giochi, fu assai defilato. Sul piano sportivo le gare furono un mezzo fallimento, confuse in una pletora di eventi di diverso calibro. Al contrario, va detto, l'Expo fu un vero successo.
È per questa ragione che, nel ricostruire e raccontare Parigi 1900, districarsi fra eventi olimpici e non è ancora oggi un'impresa. Il rapporto ufficiale, pubblicato a cura di Mérillon nel 1901-1902 in due volumi, elenca tutte le gare svoltesi nell'ambito dell'Expo, e non usa la dizione 'olimpiche'. Nel 1912, lo stesso CIO cercò di porre ordine nella materia, per stabilire quali gare fossero state veramente olimpiche: dopo tutto, la maggior parte degli atleti coinvolti aveva ritenuto di partecipare a un concorso internazionale e poco o nulla sapeva dei Giochi. Ma tale iniziativa non sfociò in nessun risultato ufficiale. Nel secondo dopoguerra Gaston Meyer, segretario generale del CIO, infilò 4 pagine ciclostilate nella documentazione su Parigi 1900, che certificarono le gare olimpiche e le distinsero da quelle 'apocrife'. Nell'incertezza è stato necessario applicare dei criteri a posteriori per individuare le vere gare olimpiche. Questo lavoro è stato svolto, in maniera non ufficiale ma autorevole e convincente e con molto merito e scrupolo, dalla Società internazionale degli storici olimpici, che ha fissato quattro criteri: la gara deve essere stata internazionale, aperta a tutti; non deve aver previsto handicap per i concorrenti; non deve aver limitato la partecipazione per motivi etnici, religiosi, razziali o politici; infine, i concorrenti devono aver rispettato le norme dell'epoca sul dilettantismo. Dunque, con l'eccezione della scherma per la quale il CIO aveva ammesso fin dall'inizio le competizioni aperte ai maestri, le altre gare con premi in denaro o aperte ai professionisti vanno escluse. In questo modo, da un lato, rispetto a ricerche più datate, nel computo delle prove olimpiche entrano competizioni un tempo scartate, come nel ciclismo la 25 km e la corsa a punti - che tra l'altro regalò un oro all'Italia - e alcune prove di arco, pelota basca, equitazione e vela. Si escludono, invece, altre gare, come il tiro all'orso selvatico e la pistola militare riservata a soli ufficiali di carriera. Si tratta di un criterio discutibile: ma è stato il CIO a non decidere, quando poteva, per non riaprire una dolorosa ferita. In questo modo, dalla confusione di Parigi, emergono 18 sport e 95 gare, nell'arco di cinque mesi e mezzo di competizioni.
Tutte, comunque, furono incastonate nella Fiera, aperta il 15 aprile 1900, alla presenza di governanti di 40 paesi. Le esposizioni furono oltre 83.000, di cui ben 7000 dagli USA, distribuite su un'estensione di 279 acri sulle rive della Senna, e su altrettanti al bosco di Vincennes. L'Expo chiuse il 12 novembre, visitata da quasi 51 milioni di persone; l'Olimpiade ne fu solo un piccolo contorno. Tuttavia il numero di concorrenti - una stima che si affina anno dopo anno, a mano a mano che le ricerche storiche scovano nuovi dati - salì a oltre 1200 iscritti, rispetto ai 245 di Atene, in rappresentanza di 24 paesi: le donne furono 22, e questa fu un'assoluta, e per de Coubertin non gradita, novità rispetto al 1896.
L'atletica fece la parte del leone, sul piano tecnico e dell'interesse suscitato. Il programma definiva l'evento 'campionati universali', e mescolava gare a handicap per professionisti alle prove amateur, su piste e pedane del Racing Club di Francia al Bois de Boulogne. Si corse su una pista in erba, piena di buche e monticelli, lo sviluppo era di 500 m, il rettilineo finale era incastonato fra gli alberi, in mezzo ai quali finì spesso il disco lanciato dai concorrenti, talora vanificando buone prestazioni. Si gareggiò in 4 giornate, il 14, il 15, il 19 e il 22 luglio: nella penultima giornata si registrarono temperature superiori ai 35 gradi.
Il 14, un sabato, era festa nazionale in Francia, ricorrenza della presa della Bastiglia. Gli organizzatori avevano previsto il maggior numero di finali per il giorno successivo, una domenica, ma ciò contrastava con le abitudini di americani e inglesi, che non gareggiavano nel giorno del Signore. Il mercoledì precedente, dopo la protesta degli USA, si raggiunse un compromesso: gli americani avrebbero potuto distribuirsi, nei concorsi, fra la domenica e il lunedì, le classifiche sarebbero state costruite con i migliori risultati di entrambe le giornate. Ma in extremis gli organizzatori si rimangiarono la parola e le gare di domenica rimasero come erano, cioè senza appendice al lunedì. Gli americani dovettero abbozzare: d'altra parte, alla fine della domenica erano in testa in quasi tutte le prove. Tuttavia, mentre peso e disco non scatenarono polemiche, nell'asta e nel lungo le cose non filarono via lisce. L'asta ebbe inizio alle 16.30 di domenica, senza qualificazioni. Gli USA cercarono di far valere l'impegno raggiunto e di effettuare i loro salti il giorno dopo, ma nella notte precedente l'accordo era stato cancellato. I migliori statunitensi erano Charles Dvorak, Daniel Horton e Bascom Johnson. Nessuno dei tre accettò di scendere in gara, mentre lo fecero Irving Baxter, reduce dal salto in alto appena vinto con 1,90 m tre quarti d'ora prima, e Meredith Colkett. I due saltarono rispettivamente 3,30 e 3,25 m e si piazzarono ai primi due posti. Il giorno dopo, per placare le proteste americane, fu organizzata un'appendice della gara di asta e Johnson superò 3,38 m: ma il suo risultato non fu combinato con quelli del giorno prima. Quando il 19 luglio si svolse la gara a handicap di asta, se ne allestì un'altra apposta per gli USA, in cui Horton oltrepassò 3,45 m e Dvorak 3,35 m, ma anche i loro risultati furono ignorati, e Baxter - che Johnson e Horton avevano appena battuto ai campionati open britannici - rimase campione olimpico.
Analogo pasticcio si verificò nel lungo. Alla gara erano iscritti i migliori tre del mondo, gli americani Meyer Prinstein e Alvin Kraenzlein e l'irlandese (che gareggiava per la Gran Bretagna) Peter O'Connor, che però non si presentò. A differenza dell'asta, il sabato ospitava le qualificazioni, tre salti da combinare con altri tre della finale prevista per il giorno successivo: Prinstein saltò 7,175 m, seguito da Kraenzlein che si fermò a 6,93 m. Il giorno dopo Prinstein che, ironia della sorte, era un ebreo di origine polacca e non avrebbe dovuto, semmai, gareggiare il sabato, si astenne dalla competizione domenicale; Kraenzlein, che invece era cristiano, dopo aver apparentemente garantito a Prinstein che non si sarebbe fatto vedere, tornò in pedana la domenica e per un centimetro (7,185 m) superò il connazionale, che lo affrontò a muso duro e lo colpì anche con un pugno, prima di essere trattenuto dai compagni. I due avevano duellato a suon di migliori prestazioni mondiali - sei delle sette registrate - nei tre anni precedenti: quattro per Kraenzlein, due soltanto per Prinstein, che era tuttavia il primatista in carica con 7,50 m. Subito dopo Parigi, fu O'Connor a far segnare cinque migliori prestazioni mondiali consecutive nello spazio di dodici mesi.
Prinstein si consolò il 16 luglio con il successo nel triplo, davanti all'olimpionico in carica James Connolly. All'oro nel lungo Kraenzlein aggiunse altri tre successi sui 60 m, 110 m e 200 m ostacoli. Studente di medicina alla Pennsylvania University, era di origini germaniche e parlava un eccellente tedesco. La sua tecnica di passaggio sulle barriere, con la gamba tesa, assolutamente moderna, era rivoluzionaria per l'epoca. Subito dopo i quattro successi parigini, annunciò il suo ritiro, che avvenne nel 1901. Ebbe lunga carriera da allenatore e in occasione dei Giochi previsti - e poi annullati per la guerra - a Berlino nel 1916, si fece introdurre al Kaiser Guglielmo II da una lettera del dottor George Orton, canadese, campione olimpico sulle siepi a Parigi 1900 e suo compagno di studi a Filadelfia, per proporsi come allenatore della squadra germanica. Nell'aprile del 1913 fu assunto e allenò a lungo i tedeschi, con i suoi modi spicci e il suo fare spigliato. Allo scoppio del conflitto, tornò negli USA e si trasferì all'Avana per allenare i cubani.
Molte delle prove atletiche, grazie soprattutto agli Stati Uniti, furono di buon livello. La Francia ne vinse una sola, ma ricerche successive le hanno tolto anche quell'oro. Infatti le indagini svolte nel 1990 dal francese Alain Bouillé hanno appurato che il vincitore della maratona, Michel Théato, garzone di panettiere nella banlieu, era in realtà nato in Lussemburgo, figlio di un mobiliere trasferitosi prima a Bruxelles e poi a Parigi. Théato aveva 22 anni ed era membro del Racing Club. Faceva consegne per il negozio presso cui lavorava, conosceva a menadito le stradine del centro in cui s'incuneava il tracciato della maratona. Era il 19 luglio, un'ondata di caldo asfissiante gravava sulla capitale francese, mettendo a dura prova i 13 partenti. Théato chiuse davanti a tutti dopo 40,260 km percorsi in 2h59′45″. Nelle fasi iniziali conduceva il francese George Touquet-Daunis, ancora in testa a metà gara, davanti allo svedese Ernst Fast. Poi si ritirò, Fast restò solo in testa, ma rallentò, cercando refrigerio nell'acqua spruzzata da volenterosi suiveurs con le pompe, finché Théato lo scavalcò seguito dal francese Émile Champion, che giunse secondo a 5 minuti, mentre Fast chiuse terzo a quasi 40. Dopo la gara, l'americano Arthur Newton, che si piazzò quinto, accusò Théato e Champion di avere barato e di aver tagliato per le stradine laterali allo scopo di accorciare la gara, dicendo di non esser mai stato superato dai due. La storia resistette a lungo, anche se va detto che c'erano ben sei posti di controllo, che il percorso, periferico e piuttosto lineare, non ammetteva scorciatoie e, ancora, che i giornalisti seguirono passo passo gli atleti. Théato, l'anno prima, si era piazzato quarto nel Premio Gondrand, una corsa sui 15 km. Poi ebbe poca fortuna da professionista, si ritirò dopo un paio d'anni per problemi a un ginocchio, fece il giardiniere per il Racing e finì i suoi giorni alcolizzato, relativamente giovane, nel 1919 secondo alcuni, nel 1923 secondo altri.
L'atletica fece registrare i primi tre successi, dieci in totale fra Parigi 1900 e Londra 1908, di Ray Ewry, 'la rana umana', probabilmente il più grande specialista di ogni epoca dei salti da fermo, di cui si parlerà più diffusamente in occasione dei Giochi di St. Louis. Ewry migliorò due volte il suo mondiale nell'alto (1,63 e 1,65 m), battendo il campione dell'asta Baxter, secondo anche nel lungo e nel triplo, dove il bronzo andò all'olimpionico di peso-disco di Atene, Garrett, che nel peso non difese il suo titolo piazzandosi terzo, mentre nel disco non ottenne un lancio valido, colpendo spesso i rami degli alberi.
L'Italia, che a Parigi non inviò una vera e propria rappresentativa, ma solo 25 atleti sparsi nelle diverse competizioni, fu appena presente in atletica con due esponenti, il velocista Umberto Colombo, terzo ed eliminato in batteria nei 100 m, ultimo nel turno di qualificazione dei 400 m, ed Emilio Banfi, mezzofondista, subito escluso negli 800 m. In una lettera alla Gazzetta dello Sport, Banfi espresse tutto il suo stupore e la sua ammirazione per gli atleti americani, che "si allenano anche cinque volte la settimana e mangiano carne ogni giorno", il che li rendeva irraggiungibili per gli italiani. Banfi e un altro italiano, Ettore Zilla, si iscrissero alla maratona, ma non vi presero parte.
Maggior fortuna arrise a schermidori (10 partecipanti) e ciclisti (7 in gara) e soprattutto nell'equitazione agli allievi del capitano livornese Federico Caprilli, uno dei padri dell'equitazione moderna. Caprilli, che da tempo preparava magnificamente cavalli e affinava lo stile e la tecnica dell'assetto, aveva pensato di partecipare al concorso di Parigi, ma ne fu escluso per motivi di sicurezza, in seguito al diniego opposto dal Ministero della Guerra. La ragione di tale decisione resta oscura ancor oggi, anche se i disordini italiani che in quel periodo mobilitavano l'esercito per i moti di piazza ne furono una possibile causa. Secondo le più recenti ricostruzioni e la testimonianza del suo biografo, Caprilli, nonostante il 'no' del Ministero, andò segretamente a Parigi, preparò i cavalli e li offrì al conte Gian Giorgio Trissino e a Uberto Visconti di Modrone, due nobili italiani in congedo nella capitale francese. Con Oreste, cavallo della scuderia di Caprilli e sicuramente preparato da lui, Trissino ottenne a Place de Breteuil il 31 maggio la prima medaglia italiana della storia, un argento nel salto in lungo a cavallo, e due giorni dopo il primo oro in assoluto, condividendo con il cavaliere francese Dominique Maximien Gardères il primo posto nel salto in alto a cavallo, con 1,85 m; nella stessa gara, con un altro cavallo di Caprilli, Melopo, fu anche quarto dopo lo spareggio. Trissino era un vicentino di quasi 23 anni, militare di carriera, erede di una famiglia di lunga tradizione, il cui avo, Gian Giorgio come lui, aveva scoperto l'arte del Palladio. A Parigi, dove cavalcava i cavalli di Caprilli e del marchese Paolo Malfatti, ricevette in premio un trofeo artistico del valore di 7500 franchi e se ne tornò in patria, certo di aver solo vissuto una felice vacanza. D'altra parte, la stragrande maggioranza dei partecipanti ai Giochi del 1900 ignorò di aver gareggiato in un'Olimpiade.
Prendendo per buona la ricostruzione delle gare olimpiche di Mallon e degli storici dell'olimpismo, la riqualificazione a gara olimpica della 'corsa a punti' (course de plume, per i francesi) ci ha regalato con una scoperta degli ultimi anni un oro di cui non avevamo traccia. A questa gara, una sorta di americana a punti che si disputò al velodromo di Vincennes il 15 settembre, presero parte tre italiani: Luigi Colombo finì ultimo e Giacomo Stratta nono; invece, vincendo 5 sprint su 10 su un percorso complessivo in pista di 5000 m, con volata ogni 500, il ventiduenne Ernesto Mario Brusoni trionfò davanti al tedesco Karl Duill e al francese Louis Trouselier, poi vincitore del Tour nel 1905, terzo l'anno dopo, un successo nella Roubaix e un secondo posto alla Milano-Sanremo del 1911. Brusoni, che si faceva chiamare Enrico, era di origine bergamasca, ma era nato ad Arezzo. Nel 1901 fu campione d'Italia dilettanti, da professionista vinse due volte la Gran Fondo della Gazzetta dello Sport, lunga ben 540 km. Morì nel 1949, otto anni dopo aver rievocato sulla Gazzetta i suoi successi di gran fondo d'inizio secolo, ma non la corsa di Parigi, alla quale anche lui - e lo stesso giornale che a stento fornì il risultato - aveva attribuito scarso significato.
Ben più rilevante, anche per la qualità complessiva dei partecipanti, quanto ottenne l'Italia nella scherma, che vide gare affollatissime, con 258 atleti nelle sole prove di respiro olimpico, tra il 14 maggio e il 27 giugno. La sede era la grande sala delle feste dell'Expo, tutti i giornali seguirono le competizioni fra dilettanti e maestri, spesso confusi come volevano allora le regole della scherma internazionale. De Coubertin aveva già accettato questa anomalia ad Atene 1896, qui sopportò persino che maestri e dilettanti si confrontassero nella stessa gara, la spada open, che il maestro francese Albert Ayat vinse, imbattuto, davanti al dilettante cubano Ramón Fonst. Questi era allievo di Ayat, aveva 16 anni ed era cresciuto a Parigi. Fu in gara anche a St. Louis, dove vinse tre ori, per Cuba, pur essendo campione di Francia. Riapparve poi, quarantenne, ai Giochi di Parigi 1924 con la squadra cubana di spada.
Due furono i maestri italiani di gran nome che gareggiarono a Parigi. Uno era Antonio Conte, di Minturno, nato l'11 dicembre 1867, figlio di un notaio; alto e snello, baffuto e con i capelli ricci, era un perfezionista, aveva studiato l'impugnatura della spada, la sua arma preferita, e l'aveva teorizzata al punto da diventare famoso e aprire due scuole nella capitale francese, dalle quali era uscito il francese George de la Falaise, che a Parigi vinse la sciabola dilettanti. Quarto nel fioretto maestri, a conclusione delle competizioni Conte scese in pedana per il torneo professionisti di sciabola nel quale, osannato per una finale immacolata e lo stile 'morbido e fine', prevalse su un altro italiano, Italo Santelli. Livornese, classe 1866, forgiatosi alla Scuola Magistrale di Roma, Santelli si era trasferito nel 1896 a Budapest dove addestrava campioni nella sciabola, diventata anche grazie alla sua opera un terreno di conquista degli specialisti magiari. Con lui a Parigi c'era anche il fratello Otello. Conte era famoso a Parigi e lo divenne in seguito anche a Madrid, dove dopo i Giochi aprì una scuola. Istruttore del III reggimento di Artiglieria a cavallo, fu commendatore e cavaliere, ma anche ufficiale dell'Accademia di Francia e cavaliere dell'Ordine di Isabella di Spagna, invitato nei banchetti dello zar di Russia, che lo volle ospite d'onore alla sua destra. Morì ricco il 4 febbraio 1953, lasciando alla sua cittadina, in provincia di Latina, i fondi per rinnovare l'ospedale e realizzare opere a suo nome: nella sua vecchia casa si sta completando un centro socio-riabilitativo. Santelli restò a Budapest, suo figlio Giorgio vinse l'oro a squadre con la sciabola per l'Italia nel 1920. Nel 1924, come si vedrà, Italo fu protagonista involontario di un clamoroso incidente che coinvolse, di nuovo a Parigi, italiani e ungheresi, di cui era responsabile tecnico, incidente che provocò, a posteriori, la cancellazione dell'argento olimpico di Santelli, bollato come ungherese e traditore, dagli archivi del CONI.
Nuoto e tiro con l'arco testimoniarono lo stato di confusione e l'approssimativa organizzazione di questi Giochi. Il nuoto si disputò in una Senna intasata di battelli, inquinata, con detriti di ogni natura, dall'11 al 19 agosto, in un caldo asfissiante. Fra le prove in programma, un incredibile 'nuoto subacqueo', in cui i concorrenti si dovevano tuffare e riemergere più lontano possibile dalla partenza (vinse il francese Charles de Vendeville, dopo 60 m e 1′08″4 dal via), e i 200 m a ostacoli, in cui i concorrenti dovevano arrampicarsi su un'asta, poi scavalcare un ponte di barche e nuotare a slalom fra altre imbarcazioni. Il tiro con l'arco ha messo a dura prova gli storici. Le gare 'olimpiche' si svolsero, in realtà, in tutti i villaggi francesi, e circa 5000 arcieri vi presero parte: il rapporto olimpico ne cita la maggior parte, ma è opinione comune che vada presa in considerazione solo la serie di prove disputate al bosco di Vincennes, dal 27 maggio al 14 agosto, con 13 superstiti francesi e 7 belgi.
Il canottaggio, sempre nella Senna, fece registrare il più giovane olimpionico della storia, di cui però si ignora il nome. Quando l'equipaggio del due con del Minerva di Amsterdam si rese conto che il timoniere Hermanus Brockman era troppo pesante rispetto ai ragazzini che timonavano le altre barche, assoldò un fanciullo fra gli spettatori della Senna o fra i timonieri delle prove juniores appena concluse e sostituì Brockman, aggiudicandosi la vittoria. Del fanciullo rimasto innominato esiste una foto, che lo mostra dell'apparente età di 7-10 anni.
In spregio a de Coubertin che non voleva le donne ai Giochi, alcuni sport ammisero competizioni femminili. Il primo oro olimpico femminile individuale lo fece registrare il tennis e andò a una britannica, Charlotte Cooper, che in finale batté 6-1, 6-4 la francese Hélène Prévost. Cooper, vincitrice a Wimbledon nel 1895, 1896 e 1898, conquistò in coppia con Reg Doherty anche il doppio misto. Sposatasi con il presidente della Federazione britannica, come Mrs. Sterry vinse di nuovo a Wimbledon nel 1901 e, a quasi 38 anni, nel 1908, a tutt'oggi la più anziana trionfatrice del torneo inglese. Morì a 96 anni.
Cooper non fu però la prima donna a conquistare un oro olimpico: la contessa Helen de Pourtalès, nata nel 1868, figlia di un banchiere di New York, il conte Bernard, il 22 maggio era con il padre a bordo dello yacht Lérina, di proprietà dello zio (svizzero) Hermann Alexandre de Pourtalès, quando vinse la prova riservata alle imbarcazioni fra 1 e 2 tonnellate, sostenuta nelle acque della Senna, a Meulan. Due giorni dopo, Lérina arrivò secondo nella stessa prova: le gare di vela furono infatti tutte disputate due volte, ciascuna considerata una finale.
Al culmine della confusione e dell'approssimazione dell'Olimpiade parigina si pone un episodio verificatosi 65 anni dopo, quando il Comitato olimpico francese, utilizzando l'unico testo disponibile, opera dell'ungherese Ferenc Mezö, scoprì che un certo Ferdinand Vasserot, dato per secondo nella gara di sprint di ciclismo, era ancora vivo. Il veterano, avvicinato, mostrò di ricordare assai vagamente una gara d'inizio secolo a Parigi e accettò l'appellativo di 'argento olimpico francese', con il quale fu celebrato alla sua morte nel 1968. In seguito, la ricerca ha appurato che l'oro era andato a Georges Taillandier, l'argento a Ferdinand Sanz, entrambi francesi, il bronzo all'americano John Henry Lake, che aveva eliminato Vasserot in semifinale.
L'esperienza di Parigi depresse profondamente de Coubertin che commentò: "I Giochi sono stati quello che potevano essere nelle condizioni in cui si sono disputati, ed è un miracolo che l'Olimpiade sia sopravvissuta a questa celebrazione". Ricostruite le gare olimpiche, la Francia chiuse con 29 ori, 41 argenti e 32 bronzi, più alcune medaglie in competizioni con formazioni miste, davanti agli USA che si segnalano con 20 ori e 53 medaglie complessive. Si parla di medaglie per convenzione, in quanto all'epoca si distribuirono premi 'artistici' e riconoscimenti che nulla avevano di olimpico.
De Coubertin subito dopo Parigi commise l'errore di dar via libera a St. Louis, ma soprattutto mostrò di non aver fatto tesoro dell'esperienza parigina nell'abbinamento nefasto Olimpiade-Esposizione Universale: a St. Louis i Giochi diedero coloritura olimpica a qualunque evento sportivo, ma il tono da fiera paesana svilì molte competizioni e provocò anche una abominia come le gare riservate alle 'razze minori', di cui il barone si vergognerà per tutta la vita.