Olimpiadi estive: Londra 1948
Numero Olimpiade: XIV
Data: 29 luglio-14 agosto
Nazioni partecipanti: 59
Numero atleti: 4104 (3714 uomini, 390 donne)
Numero atleti italiani: 182 (163 uomini, 19 donne)
Discipline: Atletica, Calcio, Canoa, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Hockey su prato, Lotta greco-romana, Lotta libera, Nuoto, Pallacanestro, Pallanuoto, Pentathlon moderno, Pugilato, Scherma, Sollevamento pesi, Tiro, Tuffi, Vela
Numero di gare: 136
Ultimo tedoforo: John Mark
Giuramento olimpico: Donald Finlay
Un'Europa distrutta e divisa, impoverita e affamata, era il triste risultato della Seconda guerra mondiale. La Germania, che quella guerra aveva voluto, appariva un cumulo di macerie sotto le quali era stato seppellito, infine, il nazismo. Ma l'alleanza tra le democrazie occidentali ‒ guidate da Stati Uniti e Gran Bretagna ‒ e l'Unione Sovietica era evaporata con la vittoria militare: calava sul continente, d'improvviso, la 'cortina di ferro'. In quelle circostanze, la ripresa delle competizioni sportive ‒ e in particolare dei Giochi Olimpici ‒ non appariva facile. Le difficoltà erano molteplici e non soltanto di ordine economico: occorrevano, per riprendere il cammino interrotto nel 1936, impianti adeguati e atleti all'altezza. Occorreva, soprattutto, la mobilitazione degli uomini di buona volontà che, rifiutando il pessimismo di quei giorni, riaccendessero la scintilla dell'entusiasmo e dell'ottimismo. I Giochi Olimpici apparivano come l'avvenimento capace di offrire, soprattutto alla gioventù, qualche speranza che l'umanità avrebbe infine ripreso un cammino di pace, fatto d'incontri e non di scontri, che la ricostruzione sarebbe stata rapida quanto il recupero della forma da parte degli atleti e, infine, che l'idea di uguaglianza ‒ combattuta dal nazismo con criminale ferocia ‒ avrebbe potuto avanzare più svelta se sospinta anche dall'esempio dei campioni.
Il Comitato olimpico internazionale era uscito dalla guerra lacerato, così come era lacerata la società mondiale. Tuttavia la riorganizzazione era avanzata rapidamente, a riprova che gli ideali, sopravvissuti a ben due guerre nel volgere d'un trentennio, avevano profonde radici. La costruzione del barone de Coubertin, che molti avevano irriso, appariva solidamente radicata, ancor prima che nella tradizione, nel cuore dei popoli.
Nel giugno del 1945, a poche settimane dalla fi- ne dei combattimenti, l'ingegner Johannes Sigfrid Edström, svedese, presidente della Federazione internazionale di atletica (IAAF) e acting president del CIO, scriveva ai membri del Comitato: "Il mondo ha ricominciato a respirare più liberamente, ora che la guerra in Europa è finita. È naturalmente una catastrofe che centinaia di migliaia di vite siano state sacrificate, palazzi storici distrutti, monumenti unici spariti per sempre. Speriamo che attraverso un'unità di sforzi si possa riparare e ricostruire un mondo migliore. E lasciatemi sperare che in questo sforzo vitale il Movimento Olimpico possa avere un importate ruolo da svolgere a beneficio dell'umanità. Possa la fiamma olimpica una volta ancora ardere, aiutando le future generazioni a recuperare la voglia e la felicità di vivere, e la volontà di lavorare duramente. Io so per certo che ciascuno di voi farà del suo meglio per assistere il nostro movimento in questo lavoro di enorme valore e sono a conoscenza che tutti voi siete in attesa di ricevere informazioni su come questo lavoro debba esser compiuto. Pertanto, ho riassunto in cinque punti ciò che, a mio avviso, è l'attività che dobbiamo iniziare da subito: organizzare e incoraggiare, ciascuno nel proprio paese, la cultura dell'esercizio fisico e delle varie discipline sportive; coordinare questa riorganizzazione attraverso la collaborazione con le federazioni sportive; invitare il proprio Comitato Olimpico Nazionale a riprendere immediatamente il lavoro; aiutare nella raccolta di fondi per la ripresa degli allenamenti degli atleti, in modo da prepararli per le future Olimpiadi. Ogni indicazione sembra confermare che la guerra, nell'Estremo Oriente e in Giappone, terminerà in due anni o meno. Noi possiamo dunque concludere, su questa base, che i prossimi Giochi potrebbero essere organizzati nel 1948. Inoltre il CIO, sotto la mia leadership, sarà convocato per un meeting a Londra entro la primavera del prossimo anno. Infine, voglio informarvi che la mia proposta di nominare un secondo vicepresidente è stata accolta e ho l'onore di comunicarvi di aver assegnato tale carica a Mr. Avery Brundage".
Sigfrid Edström era diventato acting president del CIO ‒ essendone già primo vicepresidente dal 1937, dopo esser stato cooptato nel board esecutivo sin dal 1921 ‒ alla morte del belga Henri de Baillet-Latour, avvenuta per infarto nella notte del 6 gennaio 1942. De Baillet-Latour, successore di Pierre de Coubertin alla guida del Movimento olimpico nel 1925, aveva incontrato molte difficoltà, dopo l'invasione del Belgio da parte della Germania nazista, a mantenere i contatti con gli altri membri olimpici e con la stessa organizzazione a Losanna, sede della segreteria generale, affidata a Lydia Zanchi. Molti dei suoi compiti erano, in realtà, già passati a Edström che, essendo svedese, godeva dei vantaggi della neutralità del suo paese. Cosicché, almeno sotto questo aspetto, la successione non aveva avuto alcun carattere traumatico: tipo molto energico, ottimo organizzatore, dotato di profonda conoscenza dello sport, Edström aveva subito preso in mano la macchina del CIO, compiendo anche un viaggio negli Stati Uniti per incontrarvi Brundage e, a dispetto dei problemi di comunicazione in tempo di guerra, manteneva contatti intensi con i colleghi. D'altro canto, Edström era sì un dirigente industriale di professione, ma soprattutto un dirigente sportivo. Nato a Göteborg nel 1870, educato in Svezia e Svizzera, laureato in ingegneria, era stato ottimo sprinter e vicepresidente del comitato organizzatore dei Giochi Olimpici di Stoccolma nel 1912. Sempre in quell'anno aveva fondato la IAAF, la Federazione internazionale di atletica, di cui sarebbe rimasto presidente sino al 1946, quando formalmente venne eletto alla guida del CIO.
Il problema più grave, per Edström e per il Movimento, era trovare una città disposta a organizzare i Giochi, nelle inevitabili ristrettezze del dopoguerra. Già nel 1945 Edström, Brundage e lord Aberdare, inglese, si erano incontrati a Londra per discuterne. Una lista di località candidate, basandosi su contatti informali, era stata messa per iscritto: St. Moritz e Lake Placid per le Olimpiadi invernali; Atene, Baltimora, Losanna, Filadelfia, Los Angeles, Minneapolis e Londra per quelle estive. Le candidature vennero inviate, per lettera, a tutti i membri del CIO, con l'aggiunta che, nel caso fosse stata scelta Londra, le Olimpiadi invernali avrebbero avuto luogo a St. Moritz. Questo dipendeva dal fatto che nel 1936 il CIO aveva assegnato i Giochi invernali a Sapporo e quelli estivi a Tokyo, ma con lo scoppio della guerra cino-giapponese, nel 1937, si era dovuto cambiare, scegliendo in sostituzione St. Mortiz e Helsinki. L'inizio della Seconda guerra mondiale, nel 1939, e l'invasione della Finlandia da parte dell'URSS, nel 1940, obbligò però il CIO a cancellare i Giochi del 1940 e mettere in calendario un'altra edizione per il 1944, che si sarebbe dovuta disputare a Cortina d'Ampezzo (inverno) e Londra (estate).
I membri del CIO per i Giochi del 1948 indicarono Londra. L'annuncio venne dato nel febbraio del 1946, a Losanna, durante la sessione in cui Edström fu formalmente eletto quarto presidente del CIO. Venne anche confermato che sarebbe stata St. Moritz a ospitare la prima Olimpiade invernale del dopoguerra, perché la designazione di Cortina, nell'Italia che era stata alleata del nazismo, appariva a tutti impraticabile.
Le Olimpiadi del 1948 furono anche l'occasione per attuare una più profonda divisione, soprattutto sotto l'aspetto amministrativo-finanziario, tra i Giochi estivi e quelli invernali. St. Moritz mirava a dare nuovo impulso attraverso i Giochi alla sua vocazione turistica, penalizzata negli anni del conflitto: i Giochi portarono oltre 20.000 spettatori, 2000 atleti partecipanti, molti giornalisti e, di conseguenza, ampia copertura mediatica. Tale caratterizzazione, al contrario, non esisteva al momento per l'Olimpiade estiva: la candidatura di Londra, così come il supporto che era venuto dal sindaco della città, non aveva altro scopo che il rilancio di un movimento al quale la Gran Bretagna era storicamente legata. Giochi estivi e invernali, insomma, cominciavano a separare le loro strade anche se la divisione netta sarebbe avvenuta molto più tardi, cioè negli anni Novanta, quando la commercializzazione, e soprattutto le esigenze dei network televisivi, imporranno al CIO di far svolgere i Giochi invernali e quelli estivi in anni diversi.
La scelta di Londra come sede della prima edizione olimpica postbellica aveva anche un forte carattere simbolico. La Gran Bretagna era stata la fiera avversaria del nazismo e Londra era la città che più di ogni altra Hitler avrebbe voluto distruggere: se Berlino aveva trionfalmente ospitato l'ultima edizione dei Giochi, esaltando la forza organizzativa, economica e militare della Germania nazista, toccava ora alla democrazia britannica dimostrare che i valori morali dell'olimpismo potevano trovar casa soltanto in un paese libero, rispettoso dei diritti dell'uomo.
Naturalmente, sotto l'aspetto della grandiosità, nessun paragone poteva esser fatto con Berlino 1936. La Gran Bretagna aveva sì vinto la guerra, ma ora doveva ricostruire la sua economia. L'industria era al collasso, la disoccupazione enorme, ogni genere alimentare razionato. Winston Churchill aveva perso le elezioni politiche e ai conservatori era succeduto un governo laburista, la cui prima preoccupazione era quella di ridare lavoro agli inglesi, riformando anche il sistema sociale e il welfare. Queste erano le priorità della Gran Bretagna, non le Olimpiadi. Dunque, i Giochi furono poveri ma dignitosi e comunque ricchi di prestazioni di atleti che, proprio in ragione di quei risultati, hanno meritato la hall of fame dell'olimpismo.
Nella preparazione ai Giochi, il CIO doveva anche risolvere alcuni delicati problemi politici. Secondo la tradizione e nello spirito del movimento chiamato a unire e non dividere, l'invito a partecipare all'Olimpiade doveva esser rivolto a tutti i Comitati nazionali olimpici. La caduta del regime nazista aveva, però, provocato anche la scomparsa delle organizzazioni sportive del Terzo Reich, mentre due membri tedeschi del CIO, Karl von Halt e il duca Adolph Friedrich von Mecklenburg, erano stati catturati dai russi e internati a Buchenwald. Inoltre la Germania era ormai divisa, di fatto, in due paesi: il settore occupato dagli alleati (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) e quello sottoposto all'occupazione sovietica. Utilizzando anche qualche diplomatica ipocrisia, Edström decise che, in assenza di un governo, sia politico sia sportivo, nessun invito poteva essere recapitato ai tedeschi. La stessa considerazione fu fatta per il Giappone, cosicché a queste due nazioni venne negata la partecipazione ai Giochi del 1948. Un diverso trattamento fu invece riservato agli antichi alleati della Germania: Austria, Ungheria, Bulgaria, Romania e Italia ricevettero regolare lettera d'invito e mandarono le loro squadre. Degli altri paesi dell'Europa dell'Est, ormai sotto l'influenza sovietica, parteciparono soltanto Cecoslovacchia e Polonia. Le nuove nazioni presenti a Londra furono Cile, Danimarca, Islanda, Sud Corea e Libano.
Un altro delicato problema era rappresentato dall'Unione Sovietica e dall'atteggiamento da seguire, specie in anni di crescente Guerra Fredda, nei confronti di quel regime. I membri del CIO erano, nella stragrande maggioranza, conservatori per convinzioni politiche e per stato sociale, dunque profondamente antibolscevichi; tuttavia decisero che i contatti non dovessero esser interrotti: l'URSS venne invitata a costituire un proprio Comitato nazionale olimpico che sarebbe stato riconosciuto nel momento in cui avesse compreso un certo numero di federazioni nazionali affiliate alle relative federazioni internazionali. A quel punto un rappresentante sovietico sarebbe stato eletto tra i membri del CIO. Nel 1946, l'URSS si affiliò alla IAAF inviando una squadra ai Campionati Europei di atletica leggera di Oslo. Nel 1947 si aggiunsero le affiliazioni di pallacanestro, sollevamento pesi, lotta e calcio. L'integrazione sovietica e del blocco comunista nel Movimento olimpico era dunque iniziata, anche se il board esecutivo del CIO ritenne che fosse ormai troppo tardi per ammettere l'URSS ai Giochi di Londra e la stessa Unione Sovietica fece sapere che i suoi atleti non erano pronti. A distanza di molti anni è tuttavia inevitabile una domanda: perché Edström, Brundage e lord Burghley, che in pratica dettavano la politica del CIO ed erano ferocemente anticomunisti, aprirono le porte ai sovietici? L'ipotesi più probabile è che vedessero nel blocco comunista un potente alleato nel combattere il professionismo sportivo, che era la loro priorità, naturalmente chiudendo gli occhi sul professionismo di Stato.
La XIV Olimpiade (XII e XIII edizione, 1940 e 1944, non ebbero luogo a causa del conflitto mondiale) si tenne dunque a Londra, dal 29 luglio al 14 agosto 1948, vi presero parte oltre 4000 atleti (con qualche oscillazione a seconda delle fonti). Sul numero dei Comitati olimpici nazionali rappresentati, ovvero delle nazioni presenti, non vi sono invece dubbi: 59 paesi risposero all'invito, cioè dieci in più di quanti avevano partecipato all'ultima edizione, quella di Berlino 1936. Il programma comprendeva 20 discipline per un totale di 136 competizioni.
Gli atleti non ebbero alloggi sontuosi: si accontentarono di caserme dell'esercito e di aule scolastiche adibite a dormitorio. Anche gli impianti furono in molti casi di fortuna: a Wembley, il grande stadio del calcio, venne allestita una pista atletica, giusto per il periodo dei Giochi. Molte competizioni, dalla ginnastica al basket, si tennero nei saloni circostanti, che erano stati costruiti per l'Esposizione Imperiale del 1924. Ma la partecipazione del pubblico fu straordinaria: l'atletica contò 80.000 spettatori ogni giorno, contribuendo in maniera sostanziale a trasformare i Giochi in un successo anche finanziario. Lord Burghley, il presidente del Comitato organizzatore, era d'altro canto persona parsimoniosa, almeno in fatto di sport: l'uomo giusto, insomma, per un evento da economia di guerra. I Giochi di Londra vanno anche ricordati perché sono stati i primi a essere teletrasmessi. In verità, l'esperimento televisivo era già iniziato a Berlino, nel 1936, dove però la trasmissione era limitata a un teatro. Ma nel 1948 gli inglesi in possesso di una TV ‒ in realtà assai pochi ‒ poterono godersi i Giochi da casa.
Nonostante a Londra la partecipazione femminile fosse limitata a poco più del 10% degli atleti presenti, nessuno storico dello sport può oggi mettere in dubbio che a dominare quei Giochi, conquistando l'attenzione e l'ammirazione dell'opinione pubblica mondiale, sia stata una donna, l'olandese Fanny Blankers Koen che, con le sue straordinarie esibizioni di grazia e di talento, conquistò soltanto quattro medaglie d'oro perché i regolamenti dell'epoca impedivano di prender parte a più di quattro competizioni. In realtà Blankers Koen deteneva sei record del mondo: 100 m (11,5″), 80 m ostacoli (11,00″), salto in lungo (6,25 m), salto in alto (1,71 m), 4 x 110 yards (47,4″), staffetta 4 x 200 m (1′41″). Dovendo scegliere, con l'aiuto del marito Jan Blankers, suo allenatore sin dagli anni giovanili, decise di lasciar perdere i salti, concentrandosi soltanto sulle tre gare di corsa (100 m, 200 m, 80 m ostacoli), per poter contribuire poi al successo olandese nella staffetta 4x100 m. In sette giorni di competizioni, la trentenne atleta olandese disputò undici gare, vincendo quattro titoli olimpici ed eguagliando quello che Jesse Owens aveva fatto nel 1936. Nessuna donna, invece, è più riuscita nella stessa impresa, neppure Marion Jones che, 52 anni più tardi, a Sydney, avrebbe sì vinto cinque medaglie, ma soltanto tre d'oro.
Blankers Koen si era già segnalata alle Olimpiadi di Berlino, quando appena diciottenne e gareggiando come Francina Elsje Koen aveva ottenuto un quinto posto con la staffetta 4x100 m e un sesto posto nel salto in alto (1,55 m). Durante la guerra si era sposata e dal matrimonio erano nati due figli, Jan e Fanny. Nella preparazione per i Giochi del 1948 aveva dunque dovuto fare i conti con le sue incombenze di madre: non più di due allenamenti la settimana, per due ore al giorno, nel periodo estivo; un allenamento, il sabato, durante l'inverno. Agli allenamenti andava in bicicletta, portandosi appresso i due figli in un grande cesta. Non erano pochi quelli che consideravano il suo impegno atletico come un tradimento dei doveri materni. Lei stessa molti anni dopo ricordò che i concittadini le scrivevano quanto trovassero non dignitoso che una madre perdesse tempo su una pista di atletica e che le fosse permesso di gareggiare in pantaloncini corti. I critici sportivi, alla vigilia dei Giochi, la ritenevano troppo in là con gli anni, ma furono ampiamente smentiti. La prima vittoria venne sui 100 m con 11,9″; quindi gli 80 m ostacoli con 11,2″, record olimpico, ma anche un arrivo così ravvicinato a quello dell'inglese Maureen Gardner che i giudici furono costretti a consultare per tre volte il photofinish. Mentre l'esame era ancora in corso, la banda prese a suonare God save the king e Fanny pensò che la sua rivale ‒ che venne poi accreditata dello stesso tempo ‒ avesse vinto. Invece, l'inno salutava l'arrivo nello stadio del re Giorgio VI. Poco dopo, la vittoria fu assegnata a Blankers Koen. I 200 m furono la gara più dura. Stava quasi per rinunciare, accontentandosi delle due medaglie già conquistate, ma il marito-allenatore la spronò a tentare una nuova impresa, e vinse in 24,4″, su una pista trasformata in fango dal- la pioggia, e con oltre 6 m di vantaggio, un margine che neppure Florence Griffith, nel 1988 a Seul, sarebbe riuscita a eguagliare. Poi fu la volta della staffetta 4x100 m: ricevette il cambio, per l'ultima frazione, con quasi 5 m di distacco, in quarta posizione. Finì prima, ancora una volta al photofinish, in 47,5″.
L'atletica, come s'è detto, fu il motore dei Giochi di Londra. Harrison Dillard, americano, grande specialista degli ostacoli, primatista del mondo, aveva incredibilmente mancato la qualificazione ai Trials nella sua specialità. Il giorno precedente si era però qualificato sui 100 m, arrivando terzo. Nella finale olimpica ottenne il titolo più prestigioso in 10,3″. Un'altra competizione che sorprese i critici fu quella dei 400 m: il giamaicano Herb McKenley, primatista del mondo, era considerato sicuro vincitore e invece si impose il suo connazionale Arthur Wint, che era anche un grande ottocentista. Al termine della sua carriera atletica, Wint ‒ che era medico ‒ occupò importanti posizioni politiche e diplomatiche e fu ambasciatore in Gran Bretagna tra il 1974 e il 1979. Curiosamente, anche il quarto arrivato di quella finale dei 400 m, l'americano David Bolen, divenne in seguito un diplomatico, ambasciatore degli Stati Uniti con un ultimo incarico in Germania Est. Nel mezzofondo, l'uomo che emerse come figura nuova delle corse di resistenza fu Emil Zatopek, cecoslovacco. Sconfitto dal belga Gaston Reiff sui 5000 m, vinse i 10.000 m in 29′59,6″ davanti a quello che sarebbe divenuto un altro campione leggendario, il francese Alain Mimoun.
La maratona sembrò far rivivere le emozioni su- scitate da Dorando Pietri quarant'anni prima. Il bel- ga Étienne Gailly, alla sua prima esperienza su quella distanza, guidò la corsa a lungo, sino ad accumulare un vantaggio di 41″ dopo 25 km. Ma gli inseguitori, guidati dal coreano Choi Yoon-chil, lo raggiunsero e lo superarono dopo il 32° chilometro. Al 35° chilometro il coreano aveva un vantaggio di 28″ sull'argentino Delfo Cabrera, altro atleta alla sua prima esperienza su quella distanza, ma non aveva ben misurato le sue energie e fu costretto al ritiro pochi chilometri dopo. A 5 km dall'ingresso di Wembley, Cabrera conduceva per pochi secondi su Gailly, mentre l'inglese Tom Richards era in terza posizione. Fu a quel punto che Gailly decise l'attacco: superò Cabrera, guadagnando 50 m sull'argentino e mantenendone un centinaio sull'inglese; ma le sue forze stavano declinando, entrò nello stadio di Wembley poco più che al passo e barcollando. Immediato spuntò, negli spettatori, il ricordo di Pietri. Ma Gailly riuscì a rimanere in piedi, seppur con difficoltà. Cabrera fu il primo a superarlo, andando a vincere; poi arrivò Richards, mentre Gailly ebbe un lieve collasso a non più di 50 m dal traguardo. Si riprese e continuò sino all'arrivo per conquistare il terzo posto. Nessun giudice, ricordandosi di quanto era accaduto a Pietri, si mosse per prestargli aiuto, prima che avesse superato la linea del traguardo.
Il giorno dell'Italia arrivò con Adolfo Consolini e Giuseppe Tosi, al lancio del disco. Consolini era stato primatista del mondo sino a poco prima: il primo record l'aveva stabilito nel 1941, al Giuriati di Milano, con 53,54 m; quindi, nel 1946, si era migliorato, sempre al Giuriati di Milano, a 54,23 m, primato battuto con 54,93 m dall'americano Bob Fitch, pochi giorni prima dei Giochi nel corso di un meeting all'Università del Minnesota. Ma il giorno della finale olimpica, tutto riuscì facile a Consolini, che era davvero il miglior lanciatore: con 52,78 m vinse largamente, dominando Giuseppe Tosi (51,78 m) e soprattutto l'americano Fortune Gordien, che sarebbe diventato un formidabile lanciatore, pur non vincendo mai un titolo olimpico. La superiorità di Consolini fu confermata, in ottobre, durante un meeting all'Arena di Milano: 55,33 m, di nuovo record del mondo. Consolini è stato uno dei più grandi atleti italiani di tutti i tempi e lo dimostra non soltanto il successo di Londra ma anche il secondo posto che ottenne quattro anni dopo, a Helsinki. Dopo il sesto posto alle Olimpiadi di Melbourne, l'atleta mancò di poco la finale a Roma 1960, in quello stesso stadio olimpico in cui, il giorno dell'inaugurazione dei Giochi, aveva avuto l'onore di pronunciare, ormai quarantatreenne, il giuramento olimpico a nome di tutti gli atleti.
A Londra l'atletica italiana si difese onorevolmente anche con Edera Gentile Cordiale e Amelia Piccinini, seconde rispettivamente nel lancio del disco e getto del peso femminile, e con la staffetta 4x100 m: Michele Tito, Enrico Perucconi, Antonio Siddi e Carlo Monti ottennero il terzo posto, in 41,5″, dietro agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. L'Italia confermava di possedere un'ottima scuola di staffettisti e il risultato di Londra valeva certo quello di Berlino 1936, dove, in condizioni atletiche e ambientali più favorevoli, gli italiani avevano ottenuto la medaglia d'argento.
Londra celebrò anche la nascita di uno straordinario campione: il decathleta americano diciassettenne Robert 'Bob' Mathias. In pochi mesi, spinto dal suo insegnante presso il liceo di Tulare, un minuscolo villaggio nel centro della California, aveva appreso i rudimenti delle dieci specialità, riuscendo a qualificarsi ai Trials per i Giochi Olimpici. La gara londinese fu dura, non priva di errori, ma Mathias alla fine precedette il francese Ignace Heinrich di 69 punti, diventando anche il più giovane vincitore dell'oro nella storia delle Olimpiadi di atletica.
Altra disciplina largamente seguita ai Giochi di Londra fu la scherma, che godette del più alto afflusso di pubblico nella storia delle Olimpiadi. L'Italia era uno dei paesi con maggiore storia e migliori campioni e fu protagonista in ogni gara. La Francia era la grande rivale e si comportò assai bene: nel fioretto, Jehan Buhan e Christian d'Oriola dominarono, in una finale alla quale partecipò Manlio Di Rosa, che sarebbe divenuto uno dei grandi maestri continuatori della tradizione italiana. Nel fioretto a squadre la sfida fu ovviamente con i francesi, che vinsero il titolo, mentre gli azzurri (Renzo Nostini, che sarebbe poi stato per molti anni presidente della Federazione scherma e vicepresidente del CONI, Manlio Di Rosa, Edoardo Mangiarotti, Giuliano Nostini, Giorgio Pellini, Saverio Ragno) ottennero la medaglia d'argento. Nella spada, Luigi Cantone, che aveva sostituito all'ultimo minuto Dario Mangiarotti, infortunatosi a un piede, vinse a sorpresa il titolo, in un pool finale che durò oltre cinque ore. Cantone aveva perso i primi due incontri con Carlo Agostoni (giunto alla fine settimo) e Edoardo Mangiarotti (terzo), ma riuscì a vincere gli ultimi sette. Nella spada a squadre l'Italia fu di nuovo seconda, dietro la Francia, con Luigi Cantone, Luigi Mandruzzato, Dario e Edoardo Mangiarotti, Fiorenzo Marini e Carlo Agostoni. Nella sciabola, Vincenzo Pinton fu secondo e Gastone Darè sesto. Altra medaglia d'argento, alle spalle dell'Ungheria, nella competizione a squadre con Gastone Darè, Carlo Turcato, Vincenzo Pinton, Mauro Racca, Aldo Montano e Renzo Nostini. Infine, nel fioretto femminile terminò sesta Velleda Cessari.
Il pugilato ebbe, nel 1948, una larga partecipazione di atleti e una notevole attenzione del pubblico britannico, storicamente appassionato all'arte nobile della boxe. Ma come spesso accade nelle competizioni pugilistiche, le decisioni dei giudici sollevarono molte accuse di incompetenza: il fatto era in parte comprensibile, considerato che per anni, a causa della guerra, le competizioni internazionali, e dunque i confronti utili allo studio e alla preparazione degli arbitri e delle giurie, erano stati sospesi. Argentina, Ungheria e Repubblica Sudafricana furono tra i paesi dominanti, con due titoli ciascuno, Cecoslovacchia e Italia ne ottennero uno. Ernesto Formenti divenne campione olimpico nei pesi piuma (57 kg), vincendo per k.o. nell'ultimo minuto e mezzo dell'incontro il sudafricano Dennis Shephard. La scuola italiana di pugilato raccolse altre importanti medaglie: con Spartaco Bandinelli, argento nei pesi mosca, Alessandro D'Ottavio, bronzo nei welter, Ivano Fontana, bronzo nei pesi medi. In questa categoria, la medaglia d'oro andò all'ungherese Laszlo Papp che, nel prosieguo di carriera, sarebbe diventato uno dei più noti pugili del mondo: campione olimpico in altre due occasioni, fu il primo pugile di un paese dell'Est autorizzato a passare al professionismo, conquistando poi il titolo europeo. Lasciato l'agonismo, diventò un apprezzato allenatore.
Diciotto squadre presero parte al torneo di calcio, e fra esse l'Italia, vincitrice dell'ultimo titolo olimpico. Ma il professionismo calcistico era ormai una realtà e i migliori calciatori europei e sudamericani non parteciparono ai Giochi. All'opposto i paesi dell'Europa dell'Est, dove il professionismo ufficialmente non era ammesso, potevano includere nella selezione i loro migliori calciatori. Tuttavia la vittoria andò alla Svezia, contro la Iugoslavia. La Svezia aveva una squadra formidabile, con i tre fratelli Gunnar, Bertil e Knut Nordhal, oltreché Gunnar Gren e Nils Liedholm. Questi ultimi due, con Gunnar Nordhal, costituirono poi il famoso trio del Milan, nei primi anni Cinquanta, e Nils Liedholm, terminata la carriera di calciatore, ne iniziò una altrettanto prestigiosa come allenatore, sempre in Italia. La squadra italiana, composta da Giuseppe Casari, Guglielmo Giovannini, Adone Stellin, Tommaso Maestrelli, Maino Neri, Giacomo Mari, Emilio Cavigioli, Angelo Turconi, Francesco Pernigo, Valerio Cassani, Emilio Caprile, terminò il torneo al quarto posto.
Il ciclismo si disputò a sud di Londra, a Herne Hill. L'impianto era povero di tutto, soprattutto di illuminazione. Gli organizzatori calcolarono male la durata delle competizioni, non tenendo conto degli eventuali surplaces degli atleti, cosicché le gare finirono praticamente al buio, con i giornalisti costretti a usare delle torce per seguire gli eventi, scrivere e trasmettere gli articoli. L'azzurro Mario Ghella, studente torinese, ottenne una clamorosa vittoria, nei 1000 m sprint, contro l'inglese Reginald Harris, che era considerato imbattibile; la vittoria sorprese la critica ma in realtà fu frutto di tattica e forza fisica. Harris era stato conduttore di carri armati in Africa e nel 1940 era sopravvissuto ‒ lui solo ‒ all'incendio del suo mezzo, colpito dal fuoco tedesco. Nel prosieguo di carriera, ottenne grandi vittorie da professionista e, a 54 anni, divenne ancora campione britannico. Ma a Londra dovette subire un'altra sconfitta, in coppia con Alan Bannister, nei 2000 m di tandem, a opera degli italiani Ferdinando Teruzzi e Mario Perona, vincitori del titolo olimpico. Nell'inseguimento a squadre, l'Italia ‒ con Arnaldo Benfenati, Guido Bernardi, Anselmo Citterio e Guido Pucci ‒ fu seconda dietro la Francia.
Il nuoto venne largamente dominato dagli Stati Uniti, che nelle gare maschili si aggiudicarono sei vittorie e videro quindici dei diciotto atleti iscritti in finale. Nuovi record mondiali vennero stabiliti in otto gare, ma la vera sorpresa fu la vittoria, nei 100 m stile libero femminili, della danese Greta Andersen, che negli anni successivi divenne professionista e attraversò per sei volte il canale della Manica, ottenendo nel 1964, all'età di 36 anni, il record Inghilterra-Francia in 13h14′.
Nella pallanuoto l'Italia riuscì a ottenere uno dei più importanti trionfi alle Olimpiadi del 1948. La squadra azzurra vinse il titolo davanti ai tradizionali rivali ungheresi, con Pasquale Buonocore, Emilio Bulgarelli, Cesare Rubini, Geminio Ognio, Ermenegildo Arena, Aldo Ghira, Gianfranco Pandolfini, Mario Maioni, Tullio Pandolfini. Tra tutti spicca il nome di Cesare Rubini, che avrebbe compiuto una straordinaria carriera come allenatore di basket, dominando per anni in Italia e in Europa con la Simmenthal Milano. Un'altra bella vittoria italiana, sempre negli sport acquatici, si registrò con la medaglia d'oro nel canottaggio del quattro senza, composto da Giuseppe Moioli, Elio Morille, Giovanni Invernizzi e Franco Faggi.
Nella lotta libera, Pietro Lombardi vinse la medaglia d'oro della categoria dei pesi mosca e altri due azzurri si aggiudicarono il bronzo: Guido Fantoni nei pe- si massimi e nei medi Ercole Gallegati, già terzo a Los Angeles nel 1932.
A proposito dei Giochi di Londra si possono infi- ne ricordare alcune curiosità, parte della storia sta- tistica o del costume. Per la prima volta si tenne una competizione femminile di canoa, vinta dalla danese Karen Hoff. Si registrò la prima medaglia conquistata da una donna di colore, l'americana Audrey Patterson, bronzo sui 200 m in atletica; il giorno successivo, Alice Coachman, anche lei americana, fu la prima donna di colore ad aggiudicarsi la medaglia d'oro, vincendo il titolo di salto in alto.
La francese Micheline Ostermeyer, che vinse sia la gara di lancio del disco sia quella di getto del peso, sarebbe diventata una delle più acclamate concertiste-pianiste del dopoguerra. Alla finale dei 400 m ostacoli (allora soltanto gara maschile) prese parte l'italiano Ottavio Missoni, promettente atleta istriano (di Zara) che ebbe la carriera sportiva rovinata dalla guerra: fu sesto in 54,00″, ma la sua fama sarebbe diventata mondiale per i risultati ottenuti come disegnatore di moda.
Nella vela due coppie formate da padre e figlio vinsero rispettivamente la medaglia d'oro e d'argento nella classe Star: Hilary e Paul Smart per gli Stati Uniti; Carlos de Cardenas sr. e jr. per Cuba.
A causa dei regolamenti per lo meno aristocratici dell'epoca, nell'equitazione la Svezia vinse il titolo a squadre del dressage, ma fu poi obbligata a riconsegnare la medaglia perché un suo cavaliere, Genhall Persson, non era un ufficiale, ma soltanto un sottufficiale, grado insufficiente per essere ammessi alle competizioni.
Al termine dei Giochi si registrò la prima fuga di un atleta dai paesi ormai al di là della cortina di ferro: Maria Provanzikova, cecoslovacca, presidente della Commissione tecnica della ginnastica, rifiutò di tornare in patria.