Olimpiadi estive: Londra 1908
Numero Olimpiade: IV
Data: 27 aprile-31 ottobre
Nazioni partecipanti: 22
Numero atleti: 2023 (1979 uomini, 44 donne)
Numero atleti italiani: 68
Discipline: Atletica, Calcio, Canottaggio, Ciclismo, Ginnastica, Hockey su prato, Jeu de paume, Lacrosse, Lotta greco-romana, Lotta libera, Motonautica, Nuoto, Pallanuoto, Pattinaggio artistico su ghiaccio, Polo, Pugilato, Rackets, Rugby, Scherma, Tennis, Tiro, Tiro con l'arco, Tiro alla fune, Tuffi, Vela
Numero di gare: 110
Coronato il sogno di rinnovare il mito di Olimpia ad Atene, dopo aver commesso l'errore di insistere sull'abbinamento con l'Expo per Parigi e St. Louis, de Coubertin aveva un altro obbiettivo dichiarato: sposare la classicità dei Giochi greci con la tradizione millenaria di Roma. A lungo quindi lavorò per ottenere il sì dell'Italia all'organizzazione dei quarti, veri, Giochi. Nonostante sapesse che Stoccolma e Berlino, assieme a Londra, erano disposte da subito a farsi avanti, la sua dichiarata insistenza per Roma fu tanto caparbia da far rischiare alla sua creatura, l'Olimpiade, un nuovo e stavolta definitivo tracollo. Per questo un ampio riferimento alla vicenda romana deve fare da introduzione ai Giochi di Londra 1908.
Nella sessione del Comitato olimpico che si tenne nella capitale britannica nel 1904, i Giochi della quarta Olimpiade per il 1908 vennero assegnati a Roma: in realtà, sarebbero passati 56 anni perché ciò avvenisse. De Coubertin decise di preparare personalmente l'adesione dell'Italia viaggiando alla volta del Vaticano, di casa Savoia e del sindaco della capitale italiana. In Italia si parlava da tempo di Giochi Olimpici nella capitale. Maggiore promotore dell'idea era il segretario della Federazione Ginnastica, Fortunato Ballerini, animatore il conte Eugenio Brunetta d'Usseaux. Il conte - di origine piemontese, nato nel 1857, grande appassionato di sport (fra l'altro nel 1889 curò il regolamento dei campionati italiani di canottaggio disputati a Stresa) - era il rappresentante italiano presso l'Expo parigina del 1889 quando de Coubertin lo invitò al congresso degli esercizi fisici che si svolgeva nell'ambito dell'Esposizione. Nel 1897 fu nominato membro del CIO e in quella data si registrò la prima sollecitazione del barone alla formazione dei comitati italiani per l'Olimpiade. Brunetta risiedeva a Parigi, ma corrispondeva frequentemente con Ballerini ed era presente quando il 16 marzo 1903 la Federazione Ginnastica si occupò del progetto olimpico italiano, con l'avallo del sindaco di Roma, Prospero Colonna, che inviò ai lavori il conte Mario di Carpegna. Ballerini presentò un programma con 21 specialità - fra cui caccia, colombofilia, pompieristica e salvataggio in acqua - ma non fece cenno a finanziamenti, a parte le mille lire stanziate da Brunetta. L'accoglienza fu tiepida e anche se la Federazione compì il passo successivo, la lettera ufficiale al CIO del 22 marzo con la richiesta di organizzare i Giochi, si comprese subito che gli ostacoli da superare sarebbero stati molti. Brunetta propose comunque di costituire un comitato provvisorio. Ci si aggiornò al 23 dicembre, ma in quella data, il senatore Francesco Todaro, che presiedeva la federginnastica, riferì che il Governo e il sindaco di Roma non intendevano accollarsi l'onere finanziario dei Giochi. Fu approvato un ordine del giorno di rinuncia, proposto da Romano Guerra, membro della Commissione tecnica e, in seguito a questo, Ballerini si dimise.
Poco dopo arrivò un ulteriore autorevole parere negativo. In un articolo pubblicato nella primavera 1905, il fisiologo Angelo Mosso scrisse che "dai calcoli fatti, bisognerà chiedere al Parlamento almeno mezzo milione; e sarà denaro sciupato, perché non impareremo nulla; faremo una cattiva figura e saremo scoraggiati anche prima di cominciare, poiché sappiamo già che resteremo gli ultimi… Gli Italiani non sono ancora in grado di misurarsi cogli stranieri in una gara mondiale per l'educazione fisica". Mosso era un luminare della fisiologia dell'epoca: il suo parere fu pesantissimo, né servì un'accorata risposta di Ballerini a mutarne il convincimento.
Comunque, mentre la settima sessione del CIO da Londra assegnava a Roma i Giochi, il 22 giugno 1904, il governo Giolitti era impegnato in ben altre questioni: moti di popolo, sciopero generale, rivolta nel Mezzogiorno, nuove elezioni e rafforzamento del suo schieramento. A Londra si era notato subito che come credenziale Brunetta poteva presentare solo una lettera d'appoggio morale del sindaco di Roma, ma de Coubertin aveva pilotato l'assemblea verso il sì e la Germania si era decisa a ritirare la candidatura di Berlino. Dunque il CIO si pronunciò per Roma, ma l'Italia non rispose che con un telegramma di felicitazioni di re Vittorio Emanuele III, che non significava né soldi né patrocinio diretto.
Il 1905 fu un brutto anno per l'Italia: Giolitti si dimise, Fortis tentò per due volte di formare il governo, tutte le risorse furono assorbite dai terremoti di Calabria e Sicilia. Sembrò profilarsi un po' di speranza quando il nuovo sindaco di Roma, Enrico Cruciani Alibrandi, nominò una commissione di fattibilità per i Giochi, che però si riunì solo due volte, fra la fine del 1905 e l'inizio del 1906. De Coubertin, intanto, tentava ancora: a febbraio del 1905 fu ricevuto a Roma dal re, che a suo dire gli garantì un contributo personale di 50.000 lire; poi in Vaticano cercò, senza successo, di ottenere udienza da papa Pio X; parlò in seguito di "certe difficoltà incontrate a Roma e che debbo tenere segrete". Comunque insistette e arrivò addirittura a scegliere gli impianti: piazza di Siena, suggerita dal re, per l'atletica, Tor di Quinto per l'equitazione, Caracalla per lotta e scherma (la sede che ospiterà le gare di Roma 1960), un tratto del Tevere fra ponte Milvio e ponte Margherita per nuoto e canottaggio, e la piazza d'armi che oggi è piazza Mazzini per la ginnastica.
Ma i soldi, tra moti di piazza e investimenti per il tunnel del Sempione e per l'acquedotto pugliese, non c'erano, anche a prescindere dalle pretese di Milano e Torino come rivali di Roma. Così Brunetta si risolse a scegliere proprio Atene 1906, i Giochi del decennale, per dichiarare - con la scusa dell'eruzione del Vesuvio - che neppure il nuovo primo ministro, Sydney Sonnino, era intenzionato a sostenere le Olimpiadi romane. Nella sessione ateniese del CIO che Brunetta presiedeva, l'annuncio del membro italiano rivelò con crudezza che de Coubertin, rimasto a Parigi, aveva coltivato un sogno impossibile.
Subito dopo aver comunicato la rinuncia italiana lo stesso Brunetta si rivolse a un suo vecchio amico, lord William Henry Grenfell, barone Desborough di Taplow, presidente della British olympic association, perché favorisse l'organizzazione della quarta Olimpiade a Londra. Desborough era in Grecia come atleta, facendo parte del gruppo di schermidori arrivati da Napoli con lo SS Branwen, il lussuoso yacht di Lord Howard de Walden. Altri componenti del team, che si piazzò secondo nella spada a squadre, erano Charles Newton Robinson e Theodore Cook, membri come Desborough della BOA, lo stesso lord de Walden, che in seguito fu presidente della Federscherma, e i due futuri vicepresidenti, sir Cosmo Duff-Gordon ed Edgar Seligman. Il progetto - come racconta Cook nel suo libro sulla crociera del Branwen - nacque a bordo dello yacht. Ad Atene c'erano il re e la regina d'Inghilterra. Quale migliore occasione per sollecitarne l'attenzione? Desborough sondò Edoardo VII, che si dichiarò d'accordo, e avvertì Brunetta e gli altri membri del CIO presenti.
Al ritorno, il board della British olympic association decise di inviare formale richiesta di adesione a tutte le strutture sportive britanniche: se la proposta avesse ricevuto consensi si sarebbe formato un vero e proprio Comitato olimpico. La risposta fu positiva, la lettera di candidatura partì il 19 novembre per Parigi. Chiave di volta dell'intero progetto fu lord Desborough, allora cinquantunenne, noto per la sua attività di sportivo (oltre che schermidore, era stato canottiere con Oxford nelle sfide contro Cambridge, aveva nuotato due volte nelle cascate del Niagara e scalato tre volte il Cervino). Otto giorni dopo l'invio della lettera al CIO, sui giornali inglesi compariva già il piano preparatorio di massima per i Giochi.
Il problema più serio era rappresentato dall'assenza di un vero stadio: il tennis poteva andare a Wimbledon, il canottaggio a Henley, il tiro a Bisley; ma per lo stadio serviva un aiuto esterno. Ancora una volta lo offrì un evento fieristico. Nell'estate del 1908 si doveva svolgere a Londra, sui 140 acri di Shepherd's Bush nella parte occidentale della città, l'Expo franco-britannica, programmata nel 1905 (ebbe luogo dal 14 maggio al 31 ottobre, con oltre 8 milioni di visitatori e un guadagno di 420.000 sterline). Desborough riuscì a convincere gli organizzatori a costruire uno stadio, comprensivo di pista d'atletica e ciclismo, piscina, spogliatoi e scalee. Per 'sole' 44.000 sterline di allora, in cambio del ricavato degli incassi, nacque White City, così chiamato dagli edifici bianchi dell'Expo che lo circondavano.
L'impianto comprendeva pista in cenere di 536 m, ciclabile in legno di 603 m, piscina di 100 x 20 m con una torre alta 55 m per i tuffi, e all'interno spazio per calcio, hockey su prato, rugby e lacrosse, piattaforme per ginnastica e lotta, una zona in erba destinata all'arco: un modello di struttura onnicomprensiva che Berlino adottò per lo stadio dei Giochi del 1916, poi cancellati per la guerra. Mai più, dopo di allora, è stato possibile assistere nello stesso luogo e con lo stesso biglietto, senza muoversi dal proprio posto, ad atletica, nuoto, ciclismo, ginnastica e lotta. La capacità dello stadio era di 63.000 spettatori seduti e 30.000 in piedi; vi erano poi un palco reale e altri cinque palchi per le autorità. La posa della prima pietra avvenne il 2 agosto 1907, i lavori furono diretti da Charles Perry, l'architetto che aveva realizzato la pista in cenere del Panathinaikos e che poi curò il completamento degli stadi di Stoccolma e Anversa. Il 14 maggio 1908, apertura dell'Expo, lo stadio fu inaugurato dai principi di Galles. Sorprendentemente, dopo i Giochi cadde in disuso: le strutture adiacenti furono demolite e solo nel 1927 White City tornò a essere utilizzato, con una nuova pista di 400 m, ma da un'associazione per le corse dei cani, che vi organizzò addirittura la 'maratona Dorando' per levrieri. In seguito ospitò speedway, calcio, rugby, equitazione e perfino corse di scimmie, ma tornò a essere affollato una sola volta, per un sermone del predicatore Billy Graham nel 1954. L'ultima manifestazione, una corsa di cani alle dieci di sera, vi si tenne il 22 settembre 1984. Pochi giorni dopo, la demolizione lasciò il posto ai nuovi impianti della BBC, l'unica a possedere immagini in movimento degli eventi svoltisi in un luogo che non esiste più.
Quanto all'organizzazione vera e propria, Londra si preparò ad accogliere, in base alle iscrizioni ricevute, oltre 2600 atleti: alla fine furono 2023, fra cui 44 donne, in rappresentanza di 22 comitati olimpici, con la stranezza di Australia e Nuova Zelanda fuse in una sola rappresentativa e la Boemia ammessa come entità indipendente. Le gare si svolsero in un arco di tempo che andò dal 27 aprile, data d'inizio del torneo di rackets, lo squash del tempo, al Queens, e il 31 ottobre, quando si concluse l'hockey su prato.
Il programma, presentato e approvato all'Aia nel 1907, prevedeva 110 gare in 23 sport, fra cui una disciplina invernale, il pattinaggio su ghiaccio di figura, e stranezze contenute, come rackets e jeu de paume accanto al tennis e l'unica gara di motonautica della storia olimpica. Questa competizione, prevista a metà luglio, fu spostata di un mese e mezzo per consentire a lord de Walden e al duca di Westminster, impegnati in gara negli USA, di partecipare: si svolse sulla costa di Southampton, su 40 miglia nautiche, distinta in tre classi, e ironia della sorte volle che i due nobili non portassero a termine nessuna delle due prove previste nella classe open. Partecipò anche la ventisettenne Sonia Hoge, navigatrice del marito John Marshall Gorham nella classe sotto i 60 piedi, sulla Quicksilver che non arrivò al traguardo. Attualmente, la Carta Olimpica vieta le competizioni "basate su propulsione meccanica".
Non si riuscirono a organizzare gare di equitazione (a parte il polo) e di golf, per l'opposizione dei club britannici, oltre che la metà del programma di vela, a causa della scarsità di iscritti che rese inutile la faticosa trasferta delle imbarcazioni verso il teatro di gara, previsto a Glasgow, in Scozia. Ebbero luogo solo quattro gare all'isola di Wight.
Incastonata nella fase centrale dei Giochi, il lunedì 13 luglio, vi fu la sontuosa e discussa cerimonia d'apertura, cui diede inizio alle 15.49 l'arrivo della carrozza reale. Alla presenza anche dei principi, di numerosi regnanti, nobili e dignitari, e delle rappresentanze diplomatiche, de Coubertin presentò alla regina Alexandra i membri del CIO, poi la fanfara precedette la richiesta di lord Desborough al re di dichiarare aperti i Giochi; Edoardo VII lo fece con la semplice ed essenziale formula oggi a tutti nota. Seguì la parata dei partecipanti, raggruppati sotto 18 vessilli, a partire dall'Austria, con la sola Finlandia senza bandiera, su richiesta della Russia che la controllava. Tutte le squadre inclinarono la bandiera in segno di omaggio passando davanti al palco reale, a eccezione degli USA, indignati perché il loro vessillo non appariva fra quelli che garrivano al vento sui pennoni di White City. Mancava anche quello svedese, c'erano invece le bandiere di Cina e Giappone che pure non erano presenti, errori di cui gli organizzatori chiesero scusa. Ma fu evidente che Ralph Rose, portabandiera americano, non piegò la bandiera di proposito. Tutti gli altri lo fecero, anche gli svedesi, e ovviamente anche il giovane italiano Pietro Bragaglia, alfiere della Ginnastica Ferrara, che non gareggiò ma visse un'esperienza indimenticabile. La maratona, e soprattutto i 400 m, avrebbero provocato altri notevoli incidenti anglo-americani.
L'Italia inviò una rappresentativa di 68 atleti, selezionati da un vero comitato olimpico e da una commissione ad hoc. Questa era stata istituita come comitato per i Giochi di Londra, sotto la spinta di Brunetta e Ballerini, e presieduta da Carlo Compans di Brichanteau si era riunita per la prima volta a Milano nel 1907 per fondersi l'anno dopo, il 18 maggio 1908 a Roma, con i 'romani'. Il comitato, che a quel punto era non solo di selezione, ma il primo vero comitato olimpico italiano, ottenne l'appoggio del ministro dell'Istruzione Rava e i finanziamenti (25.000 lire dal governo Giolitti, 6000 lire dal re e un totale di 32.500 lire fra contributi diversi, meno di 100.000 euro di oggi), e organizzò le selezioni per la rappresentativa, che avrebbe dovuto comprendere 83 atleti. I fondi tagliarono la selezione a 67 partenti, uno si aggregò a Londra, viaggiarono anche alfiere e istruttore dei ginnasti. Dopo tre giorni di treno e sette ore di attesa alla stazione, senza nessuno che parlasse inglese, iniziò la lunga ricerca degli alloggi. Ma l'Italia fu fra le protagoniste, per la prima volta anche nell'atletica, a cominciare dalla maratona.
Le gare di atletica furono splendide: la prima vera grande manifestazione internazionale di questo sport. La maratona ricevette dalle vicende di Londra il definitivo impulso per diventare la più famosa delle creature di de Coubertin. Intanto, fu codificata una distanza, 26 miglia su strada e 385 yards all'interno dello stadio, pari a 42,195 km, che ne divenne la lunghezza ufficiale per delibera della Federazione internazionale nel 1921: una lunghezza arbitraria, che nacque da una precisa richiesta. La prova era inizialmente prevista su 25 miglia, più il tratto in pista, per un totale di 40,230 km, più o meno la distanza corsa ad Atene 1906; ma la famiglia reale chiese che ai bambini della principessa di Galles fosse possibile assistere alla partenza affacciati alla nursery reale del castello di Windsor; lord Des-borough, che era lo starter, decise dunque di allungare di un miglio la gara, in modo che dalla terrazza a est del castello si potessero ammirare i concorrenti al via. Alla partenza, quel 24 luglio, si assieparono 55 concorrenti di 16 nazioni, disposti su quattro file, un record per questa gara: ne arrivò la metà, 27 atleti più quello che sembrò essere il vincitore e fu invece squalificato, Dorando Pietri. Ciascun concorrente era accompagnato da due assistenti in bicicletta: Pietri corse in compagnia di Emilio Lunghi, il più grande mezzofondista veloce italiano dell'epoca, e di Brocco, un italiano che faceva l'autista a Londra e fungeva da interprete della squadra. La temperatura era di 26 gradi. Partì veloce lo scozzese Thomas Jack che guidò per 5 miglia, per ritirarsi poco dopo. Fu rilevato da Fred Lord e Jack Price, entrambi britannici, che condussero assieme fino alle 10 miglia, finché Price allungò. Poi Price fu raggiunto da Charles Hefferon, inglese in gara per il Sud Africa, che aveva sempre tallonato il duo di testa. Quando Hefferon prese il comando, serrò dalle retrovie uno dei favoriti, Tom Longboat, un indiano onondaga di origine canadese, che gareggiava no-nostante le proteste degli americani, i quali ne avevano chiesto l'esclusione per professionismo, minacciando di ritirarsi dai Giochi. Longboat alle 17 miglia si avvicinò a Hefferon, ma 5 km più avanti si ritirò. Alle 20 miglia, dunque, mentre il caldo si faceva sentire, Hefferon teneva ancora la testa, ma alle sue spalle emergevano l'americano John Hayes e Dorando Pietri, che correva con il numero 19. Fu lì che Pietri produsse il suo sforzo, conquistando il secondo posto e passando alle 25 miglia a 3′52″ da Hefferon. A poco più di un miglio dalla fine, Pietri coronò il suo inseguimento scavalcando Hefferon, ma il suo incedere cominciò a farsi estremamente sofferto. Entrò nello stadio in evidente stato di affaticamento, e il filmato - in realtà un'animazione composta di diverse immagini prese in successione - che ancora esiste lo mostra mentre cade a terra quattro volte, lungo i 400 m scarsi che lo separavano dal trionfo. Fu soccorso dal medico di servizio e dai giudici, impiegò 9′46,4″ a percorrere gli ultimi 355 m. Il rapporto ufficiale disse poi che "andava assolutamente assistito, sembrava potesse morire proprio sotto gli occhi della regina". Stava per stramazzare al suolo, quando fu sorretto e letteralmente accompagnato a braccia oltre l'arrivo. Concluse in 2h54′46,4″, uscì in barella e finì in infermeria: mezzo minuto più tardi, sulle sue gambe, arrivò l'americano John Hayes, che aveva superato Hefferon 20 metri prima dell'ingresso nello stadio, e lo precedette sul filo di una cinquantina di secondi. La bandiera italiana fu issata sul pennone più alto ma USA e Sud Africa presentarono protesta ufficiale 'per indebita assistenza' e questa fu accolta: Pietri - che venne curato in infermeria per quasi tre ore - fu squalificato.
Fin qui i nudi fatti: va aggiunto che, come molti corridori di lunga lena facevano allora, Pietri si era aiutato con solfato di stricnina, che è uno stimolante cardiaco in dosi non elevate e si trasforma in una mortale pozione che provoca spasmi muscolari e blocco neurorespiratorio, fino alla morte, in dosi più massicce. In pista, l'italiano fu assistito essenzialmente da Jack Andrew, segretario onorario del Polytechnic Harriers e organizzatore della gara, che seguì le istruzioni del medico di servizio, il dottor Michael J. Bulger, il quale sollecitò la rianimazione con i sali quando l'atleta cadde al suolo; Andrew afferrò Pietri solo sul traguardo, quando stava per cadere: è l'uomo con il megafono in mano, alla destra dell'atleta, in una delle immagini più famose della storia dello sport, mentre Bulger è quello che lo attende oltre il traguardo. Alla sinistra dell'italiano c'è un uomo corpulento, che lo aveva assistito in pista: è sir Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes, inviato ai Giochi per il Daily Mail. Fu lui a suggerire alla regina di donare, il giorno dopo, a Pietri una coppa con la scritta "A P. Dorando, in ricordo della maratona da Windsor allo stadio, 24 luglio 1908, dalla regina Alexandra". Gli italiani avevano iscritto i loro atleti secondo la consuetudine di fornire, per ciascuno, nell'ordine, cognome e nome: Pietri divenne Dorando per tutti, anche per il giovane compositore americano Irving Berlin che gli dedicò una canzone diventata famosa, come l'intera vicenda.
"Io non sono il vincitore… Invece, come dicono gli inglesi, io sono "colui che ha vinto e ha perso la vittoria"". Con questo articolo, apparso il 30 luglio sul Corriere della Sera, Pietri rievocò le sue gesta: ma chi era in realtà? Terzo dei quattro figli di Desiderio e di Maria Teresa Incerti, nato a Mandrio, frazione di Correggio (Reggio Emilia), il 16 ottobre 1885, si era trasferito con la famiglia a Carpi, dove il padre, fittavolo a Mandrio, aveva aperto un negozio di frutta e verdura. A 14 anni entrò come garzone nella pasticceria Roma; gli piaceva correre in bici e a piedi, nel 1903 si iscrisse alla Ginnastica La Patria di Carpi. L'anno dopo cadde durante una gara dietro derny, il motociclista si rovesciò e Dorando si ferì, chiudendo la sua carriera ciclistica. Su consiglio del velocista Tullio Miselli, si allenò per la corsa: una volta consegnò a Reggio una lettera e tornò in poco più di 4 ore, coprendo a piedi 50 km. La svolta venne nel settembre 1904, con l'arrivo a Carpi di Pericle Pagliani, che si esibì sui 10 km, seguito come un'ombra dal giovane garzone. Dorando fu incoraggiato a proseguire e debuttò a Bologna il 2 ottobre, sui 3000 m, arrivando secondo; una settimana dopo, in un tentativo di primato sulla mezzora, vinse la prima gara battendo Gaetano Cagliari, che deteneva la miglior prestazione italiana dei 25 km su strada. Conquistò il titolo emiliano dei 1000 m, e l'anno dopo, il 15 ottobre, fu consacrato dalla maratona di Parigi, organizzata da L'Auto: sui 30 km del percorso, lo sconosciuto italiano dominò la gara con 6 minuti sul secondo arrivato. La ferma militare, lunga due anni, non gli impedì di ottenere, nel 1906, il successo nella maratona romana valida per la selezione ai Giochi intermedi; qui era tra i favoriti, ma si ritirò al 24° km per forti dolori viscerali. L'anno dopo fu campione italiano sui 5 e 20 km: nella prima gara stabilì anche il nuovo record nazionale in 16′27,2″. Nell'anno di Londra vinse (con record) il titolo italiano dei 20 km, ma si ritirò per insolazione nella maratona tricolore. Il 7 luglio, su 40 km misurati, chiuse in 2h38′, più o meno il tempo che avrebbe fatto segnare ai 40 km di Londra. Partì prima degli altri, il 9 luglio, per Londra. Quando tornò, fu accolto come un trionfatore: gli eventi di Londra scatenarono nel mondo una vera febbre della maratona. Pietri partecipò a numerose rivincite con Hayes e Longboat negli USA, andò poi in Sud America, tornò, acquistò un albergo con i proventi della sua carriera da professionista, ma amministrò male le sue sostanze e fu costretto a trasferirsi a Sanremo, dove nel 1923 aprì un'autorimessa. La gestì assieme alla moglie Teresa Dondi, fino alla morte, avvenuta il 7 febbraio 1942.
John Hayes non divenne altrettanto famoso. Nato nel 1886 a New York, dove la famiglia, irlandese, era appena emigrata, faceva le consegne per il grande magazzino Bloomingdale's. Correva così bene da dedicarsi alla lunga distanza: nel 1907 fu terzo nella maratona di Boston, vinse quella di Yonkers, l'anno dopo arrivò secondo a Boston. Al ritorno in patria da Londra, fu promosso manager della sezione articoli sportivi del grande magazzino, ma non vi lavorò mai, preferendo correre e allenarsi. Guadagnò parecchio da professionista: famosa è restata la rivincita con Pietri al Madison Square Garden, il 25 novembre 1908, corsa al coperto, 262 giri della pista in legno di 161 m. Partenza alle 21, biglietti venduti anche a 40 dollari, fra gli inviati vi era anche Luigi Barzini per il Corriere della Sera. Pietri vinse con 45″ di vantaggio. Seguirono molte altre sfide, ancora al Madison il 15 marzo 1909, sempre con Pietri vincitore, l'anno dopo a San Francisco e di nuovo l'italiano vinse, in volata. Hayes accompagnò i maratoneti USA a Stoccolma 1912, poi fece l'allenatore alla Columbia University, tentò la carriera di attore, infine diventò importatore di prodotti alimentari.
Se la maratona rubò l'attenzione mondiale, i 400 m furono teatro di un clamoroso incidente fra USA e Gran Bretagna. Il miglior britannico era il sottotenente scozzese Wyndham Halswelle, gli americani erano tre, John Carpenter, John Taylor e William Robbins. Halswelle, tre volte campione nazionale, aveva appena corso in 48,4″ le 440 yards, record del mondo, tempo che eguagliò sulla distanza metrica nel secondo turno olimpico. In finale, Carpenter fu sorteggiato all'interno, a fianco gli vennero posti Halswelle, Robbins e Taylor: non c'erano corsie disegnate sulla pista. Robbins faticò a farsi strada, poi all'ingresso nel lunghissimo rettilineo finale Carpenter entrò in testa con lo scozzese alle spalle. Per evitare di essere superato, l'americano allargò vistosamente, spingendo Halswelle fino a 45 cm dalla corda, verso l'esterno. Un giudice, Arthur Roscoe Badger, fece segno agli ufficiali di gara sul traguardo di spezzare il filo di lana. Carpenter concluse in 48,4″, tempo rilevato ufficiosamente, Halswelle arrivò al passo. Dopo lunga riunione della giuria, Carpenter in serata fu squalificato e si decise di far disputare di nuovo la finale due giorni dopo, in corsia, senza Carpenter. I dirigenti americani ordinarono a Robbins e Taylor di non presentarsi, e Halswelle vinse, in 50″, l'unica finale olimpica di atletica corsa da un solo atleta. Gli USA dichiararono che ritenevano Carpenter campione olimpico: "e noi diremo che il campione della maratona è Pietri", rispose la stampa britannica. Alla convention dell'AAU, la federazione atletica USA, del 1909, fu approvata una mozione che respingeva la squalifica di Carpenter. Tuttavia, come mostra una foto apparsa il 24 luglio 1908 sul Daily Mirror, le impronte degli atleti sulla cenere sono rivelatrici della scorrettezza dell'americano. La polemica durò a lungo: assai meno la vita del protagonista britannico. Halswelle - che aveva vinto un argento e un bronzo ad Atene 1906, dopo aver conquistato quattro titoli scozzesi nello stesso pomeriggio, quell'anno - corse una sola volta dopo l'Olimpiade, a Glasgow. Morì per il colpo di un cecchino, il 31 marzo 1915, sul fronte francese, a Neuve Chapelle. Taylor, vero favorito della gara, se n'era andato assai prima, nel dicembre del 1908, per una febbre tifoidale.
Come se non bastasse, ci si mise anche il tiro alla fune ad alimentare le discussioni, quando i poliziotti di Liverpool si presentarono al primo turno contro gli USA (che schieravano tre lanciatori: Ralph Rose, John Flanagan e Matt McGrath) con scarpe "grandi come ferry boats", come scrisse il lanciatore Martin Sheridan, arricchite, secondo gli americani, di robusti chiodi per far presa sul terreno. I superiori del corpo di Liverpool negarono, testimoni indipendenti confermarono che si trattava di scarpe d'ordinanza, la gara andò avanti, la finale vide Liverpool perdere contro i colleghi di Londra.
Tornando all'atletica, le prove furono in generale di alto livello. E ci fu anche l'Italia sul proscenio: non solo con Pietri, ma anche con l'argento di Emilio Lunghi negli 800 m. Lunghi, beffato nella batteria dei 1500 m - solo il vincitore passava in finale - dall'inglese Norman Hallows, poi medaglia di bronzo, conquistò la sua batteria degli 800 m davanti all'americano Harry Coe, preceduto 'di due yards', e affrontò in finale il superfavorito americano Melvin Sheppard, che aveva vinto tre volte il titolo AAU della distanza. Prima della gara furono disegnate corsie sulla pista, per evitare l'incidente accaduto nei 400 m. Sheppard, già vincitore dei 1500 m una settimana prima, tenne un ritmo forsennato, passando in 53″ a metà corsa, dietro la 'lepre' britannica Ivo Fairbairn-Crawford. Lo scavalcò ai 500 metri, poi cedette e Lunghi, che non si era fidato di un passaggio così veloce, rimontò come un forsennato, mentre Sheppard impiegò quasi un minuto nella seconda metà, ma chiuse con 1,4″ di vantaggio.
Lunghi, nato a Genova il 16 marzo 1886, aveva cominciato a correre sei anni prima di Londra con l'Andrea Doria, poi aveva continuato con la Pedestre Genova. A vent'anni era campione italiano dei 1500 m, lo stesso anno fu primo al Giro di Milano (11 km) battendo Pietri. L'anno dopo vinse gli 800 m della preolimpica per Atene 1906, ma non fu inviato per mancanza di fondi. Conquistò due titoli italiani con la vecchia federazione, uno con la nuova, nel 1907 si dedicò alla strada, l'anno dopo ottenne il primato europeo dei 1000 m, ma la sua vera impresa risale al 1909, in America: batté tre volte Sheppard a New York e Newark, ottenendo anche una migliore prestazione mondiale sulle 700 yards, poi andò in Canada dove il 15 settembre a Montreal corse in 1′52,8″ le 880 yards, ottenendo su 804,68 m lo stesso tempo di Sheppard a Londra 1908 sugli 800 m: record del mondo che migliorava quello di Charles Kilpatrick del 1895 e che fu seguito dalla miglior prestazione mondiale sui 2/3 di miglio del 10 ottobre a New York. Tornò in Italia da eroe, anche se il suo tempo fu ratificato come primato italiano solo 18 anni dopo. Corse fino al 1921, tre anni dopo fu commissario tecnico degli italiani a Parigi. Ma per una setticemia subentrata a un febbre reumatica morì nel settembre del 1925, a soli 40 anni.
Due curiosità per chiudere il lungo capitolo atletico. Nei 100 m destò sensazione la sconfitta degli americani a opera di un sudafricano non ancora ventenne, Reggie Walker, campione nazionale 1907, ma battuto da Edward Duffy l'anno dopo e inviato a Londra grazie a una sottoscrizione avviata nella sua città natale, Durban. A 19 anni e 128 giorni ‒ ancor oggi il più giovane oro dei 100 m nella storia olimpica ‒ disputò la finale contro gli americani Nathaniel Cartmell e James Rector, e il canadese Robert Kerr. Duffy era uscito in semifinale, il primatista del mondo Knut Lindberg, svedese (10,6″), in batteria. Walker precedette Rector di un piede e mezzo (mezzo metro scarso) e vinse in 10,8″, eguagliando il record olimpico. Divenne subito professionista su consiglio del famoso coach Scipio Africanus 'Sam' Mussabini, di origini arabo-italiane, molto noto come allenatore di Harold Abrahams, vincitore dei 100 m a Parigi 1924, e come tale immortalato nel film Chariots of fire (Momenti di gloria).
Una foto ritrae il vincitore dei 110 m ostacoli, l'americano Forrest Smithson, mentre passa l'ostacolo con una Bibbia aperta nella mano. È una immagine realizzata in posa, ad hoc, per ricordare la religiosità di un atleta diventato poi ministro battista e secondo alcuni scattata per protestare contro l'abitudine europea di correre alla domenica. In realtà la finale di Smithson si corse di sabato, senza Bibbia.
Accanto a quello di Lunghi, un altro argento venne agli azzurri dalla sciabola a squadre, dominata dagli ungheresi preparati da Santelli, con quel Marcello Bertinetti che poi fondò la sezione calcio della Pro Vercelli. In effetti fu la Boemia a incontrare l'Ungheria in finale, poi i cechi si rifiutarono di combattere ancora per l'argento, ritenendosi già secondi, e l'Italia affrontò e batté la Germania, eliminata dagli ungheresi, per una strana seconda piazza.
All'oro arrivò per primo Alberto Braglia, probabilmente all'epoca il miglior ginnasta del mondo, autore di due successi a Stoccolma 1912 e di cui si parlerà a lungo nel capitolo dedicato a quell'edizione. Destò più sorpresa la vittoria nella lotta greco-romana, pesi leggeri, di Enrico Porro. Piccolo e rissoso, milanese di Porta Ticinese, ma nato a Lodi Vecchio il 16 gennaio di 23 anni prima, Porro aveva fatto il mozzo e il tipografo a Buenos Aires. In una scivolosa e gelida palestra milanese 'El paviment de giass' era cresciuto fino al titolo europeo del 1906. In Marina con una ferma di 4 anni, andò ai Giochi in licenza. Nei quarti affrontò lo svedese Gustaf Malmström, campione europeo dei 75 kg l'anno precedente, dimagrito per l'occasione, e ne uscì trionfante con la maglietta strappata. Gliene prestò una per la finale il finlandese Arvo Lindén, eliminato in semifinale dal russo Nikolay Orlov. Nella finale contro il russo, che pesava 7 kg più di lui, Porro sembrò dover soccombere: ma Orlov rinunciò a combattere per il tempo regolamentare, ci fu un recupero di 20 minuti e Porro ce la fece ai punti. Il re in visita alla Spezia gli regalò una medaglia enorme con una risatina: erano piccoli entrambi. Per una piaga al braccio, causatagli da una bruciatura per un cortocircuito, Porro nella selezione per Stoccolma 1912 non riuscì a superare il veronese Alessandro Covre (match nullo, secondo i giudici); andò ai Giochi del 1920 e del 1924, ma in entrambe le edizioni fu eliminato al secondo turno nei pesi piuma.
Nell'ampio panorama dei Giochi di Londra merita di essere segnalata la presenza femminile simboleggiata da Sybil 'Queenie' Newall, vincitrice nel 'double national round' di tiro con l'arco. Gonna alla caviglia, corpetto bianco, grosso basco in testa, discendente di un'antichissima famiglia che risaliva al Quattrocento, Newall non era la miglior tiratrice britannica: fra il 1886 e il 1922 Alice Legh, che non partecipò ai giochi di Londra, vinse 23 titoli nazionali contro i due di Newall, e la settimana dopo la gara olimpica la batté di 151 punti. Ma Queenie, che aveva 53 anni e 8 mesi, rimane la meno giovane fra le donne ad aver vinto un oro olimpico. Alle sue spalle si piazzò un'altra tiratrice britannica, Lottie Dod, che al contrario è a tutt'oggi la più giovane vincitrice di Wimbledon (in singolare a 15 anni), oltre che nazionale di hockey su prato e golfista, campionessa britannica nel 1904.
Trascurando le solite formazioni ibride, il medagliere finale premiò i britannici con 56 ori, 51 argenti, 39 bronzi, davanti agli USA (23 successi). Andò a segno per la prima volta la Russia zarista, con due argenti e l'oro di Panin nel pattinaggio di figura. Panin, nome di battaglia di Nikolay Kholomyenkin, di San Pietroburgo, ufficiale della guardia zarista, fu costretto a usare uno pseudonimo per gareggiare: quattro anni dopo, a Stoccolma, si piazzò quarto a squadre nella pistola militare. Fu poi il fondatore della scuola sovietica di pattinaggio.
A tre ori a testa approdarono il già nominato Sheppard (800 m, 1500 m e staffetta olimpica) e il nuotatore inglese Henry Taylor (400 e 1500 m stile libero, più la staffetta 4 x 200 m), nato a Hollywood nel Lanceshire, che si allenava nel canale del cotonificio a mulino dove lavorava. A Londra duellò con l'australiano Frank Beaurepaire, che nei 1500 m lo sospinse al record del mondo: non a quello britannico, perché la piscina era lunga 'solo' 100 m e non 110 yards (109,33 m) come richiesto. Taylor, che aveva debuttato ad Atene 1906 e continuò a gareggiare fino ad Anversa 1920, smettendo a 41 anni, dovette vendere tutti i suoi trofei (35 coppe e 300 medaglie) dopo aver comprato un pub e dichiarato bancarotta. Finì guardiano dei bagni pubblici. Dopo la sua morte i trofei furono recuperati ed esposti in un museo di Chadderton.
La quarta Olimpiade fu un successo tecnico e organizzativo che restituì serenità al barone de Coubertin; si sorrise anche quando una medaglia fu consegnata a lord Desborough dalla moglie, o allorché la regina premiò una bambina, la figlia di Clarence Kingsbury, oro nei 20 km di ciclismo, già partito per Lipsia, dove si disputavano i campionati del mondo. I Giochi restavano patrimonio dell'umanità.