Olimpiadi antiche
di Mario Pescante
Prima di affrontare il tema specifico delle origini dei giochi atletici dell'antica Grecia è opportuno premettere che la pratica agonistica era diffusa sin da epoche remote in molti paesi dell'Oriente e nella quasi totalità delle civiltà fiorite nel bacino del Mediterraneo. Anche se le nostre conoscenze sono in parte basate su fonti letterarie non sempre attendibili, molti riscontri archeologici testimoniano senza incertezze che alcune discipline, come la lotta, il pugilato, le gare ippiche, la corsa, erano esercitate dalle antichissime popolazioni dell'Egitto, della Mesopotamia, di Creta e di altre isole dell'Egeo. Queste attività, pur traendo origine da esigenze di vita quotidiana, avevano assunto anche finalità ludiche.
Chiare tracce di tali usanze compaiono in Mesopotamia. In questa regione, ad Ashumak, nei pressi di Baghdad, reperti archeologici risalenti al 3° millennio a.C. testimoniano l'esistenza di pratiche atletiche in epoca remota. Si tratta di raffigurazioni su tavolette di terracotta, ove compaiono effigiati due pugili che si affrontano piede contro piede. L'atteggiamento è di difesa e di attacco, simile allo stile dei pugilatori dei primi dell'Ottocento.
Esperienze di carattere agonistico vengono attribuite anche agli ittiti, popolazione indoeuropea stanziata nella regione centrosettentrionale della penisola anatolica dell'Asia Minore nel 3° millennio. Ottimi cavalieri, gli ittiti furono i primi a utilizzare i carri non solo per combattere, ma anche a scopo agonistico. In alcuni testi scoperti nel 1907 a Bogazkoy (Turchia), scritti in carattere cuneiforme, si fa riferimento a gare equestri nelle quali il vincitore riceveva come riconoscimento l'onore di essere nominato auriga del carro reale.
Ulteriori conferme sulla diffusione di pratiche atletiche in epoche remote al di fuori dei confini della Grecia provengono dall'Egitto. Corsa, lotta, voga, pugilato, scherma con il bastone, sollevamento pesi, gare equestri erano le discipline più praticate. Le testimonianze più interessanti sono quelle rinvenute nella necropoli di Saqqara e nelle mastaba di Beni Hassan. Nella tomba di Ptahotep, ministro del faraone Isesi, della V dinastia, vissuto intorno al 2675 a.C., sono rappresentate 15 coppie di lottatori. Anche nel sepolcro di Ti, alto dignitario della V dinastia vissuto intorno al 2500 a.C., compaiono raffigurazioni di varie fasi di un incontro di lotta, con 400 figure di lottatori che effettuano una serie di prese degne della migliore tecnica moderna. Sempre a Saqqara, in un rilievo in calcare, è documentata la corsa rituale di Zoser, faraone della III dinastia; in un'altra pittografia compaiono movimenti di ginnastica a corpo libero. Oltre alle scene di lotta e pugilato, molto frequenti sono le immagini di atleti impegnati a battersi in una specie di scherma con il bastone: i contendenti sono rappresentati men- tre impugnano, con la mano destra, l'arma infilata in un'elsa di cuoio e si difendono dai colpi con il braccio sinistro alzato, protetto da un'asticella di legno. Un'altra attività esercitata dagli egizi, era la voga, molto praticata poiché il Nilo era considerato una sorgente di vita e coloro che regavano sul fiume, nell'immaginario popolare, ricevevano benefici e divini influssi. Raffigurazioni di vogatori provenienti dal tempio di Hatscepsut sono ora conservate nel Museo di arte egizia di Berlino. In Egitto erano anche diffusi giochi ricreativi e popolari (la corsa con il cerchio spinto da un bastone, il tiro con la fune, i giochi con la palla), di cui Erodoto e Strabone ci hanno trasmesso abbondanti descrizioni, sottolineando l'importanza attribuita dagli egizi alla pratica atletica per temprare non solo il fisico, ma anche il carattere dei giovani.
Vari ritrovamenti archeologici testimoniano l'esistenza di pratiche agonistiche anche a Creta, la grande isola del Mediterraneo orientale culla della civiltà minoica. All'epoca della fondazione di Cnosso, intorno al 3° millennio, risale la taurokathapsìa, gioco e rito religioso che consisteva in una sorta di caccia al toro con lo scopo finale di legare l'animale: l'inseguimento avveniva a cavallo, poi ci si portava sulla groppa e sulla testa del toro e si effettuavano acrobatici volteggi prima di immobilizzarlo. Questi esercizi furono riprodotti spesso nell'arte cretese. Così in un affresco rinvenuto a Cnosso è rappresentata una ragazza nell'atto di essere sbalzata a terra da un toro, mentre un giovane compie delle giravolte sul dorso dell'animale; in un vaso venuto alla luce ad Haghia Triada sono dipinte quattro scene di esercizi atletici: nella prima vi sono raffigurazioni di taurokathapsìa, nelle altre tre incontri di pugilato e di lotta. Sempre ad Haghia Triada è stato rinvenuto un vaso di steatite, risalente al 17° sec. a.C., ove appaiono dipinti due pugili in posizione di 'guardia', con i pugni avvolti in strisce di cuoio. Questo particolare accorgimento, usato per proteggere le mani e per recare maggiore offesa all'avversario, diede origine agli speciali guanti adottati nove secoli dopo durante gli incontri di pugilato dei giochi panellenici. A Cnosso appaiono, infine, raffigurati su un sarcofago, pugili in processione.
Ulteriori testimonianze su attività agonistiche in epoche riferite alla prima civiltà greca provengono da Micene e Tirinto, città dell'Argolide. Vestigia architettoniche e reperti artistici, risalenti al 15° sec. a.C., evidenziano che a Micene si praticavano le consuete discipline da combattimento, unitamente ad attività allora meno diffuse, quali la corsa e il sollevamento pesi; un affresco rinvenuto a Tirinto raffigura un'esibizione di taurokathapsìa, con un giovane che afferra un toro per le corna e si accinge a saltarlo acrobaticamente. È interessante rilevare che, spesso, assisteva alle gare un folto pubblico di appassionati, come dimostrano per es. il bassorilievo di un sarcofago egizio della XX dinastia, su cui è scolpito un gruppo di spettatori che assistono a una gara di lotta, o la scultura di un artista cretese che, mediante l'immagine simbolica di una serie di archetti accostati uno all'altro, raffigura la folla presente a un incontro di lotta.
Indubbiamente, molti secoli prima dell'inizio dei giochi dell'antica Grecia, esisteva già un'attività agonistica, che, sia pure non regolamentata e a carattere episodico, era diffusamente praticata. Tuttavia, nessun popolo dell'antichità ha coltivato l'ideale atletico così profondamente come la Grecia. È qui che l'agonismo nacque in stretta connessione con la religione e i suoi riti, per poi svilupparsi anche in rapporto alle esigenze dell'addestramento militare. Ogni cittadino aveva il dovere di formarsi per difendere la propria patria e, tenuto conto della tattica con la quale i soldati si scontravano sui campi di battaglia, era evidente che l'esito dei conflitti dipendeva dalle qualità fisiche, dalla prestanza e dall'addestramento dei cittadini-soldati. Le corse erano praticate per potenziare le doti di velocità e resistenza; il salto per valorizzare l'agilità; i lanci del disco e del giavellotto per irrobustire i muscoli; l'oplitodromia esercitava a muoversi sui campi di battaglia agevolmente, malgrado l'impaccio dell'armatura; la lotta, il pugilato e il pancrazio addestravano ai combattimenti e agli scontri corpo a corpo.
Fatte queste premesse, è parere unanime che vada riconosciuto ai Greci dell'età preclassica il merito di aver istituito, per primi, giochi atletici con una cadenza periodica, caratterizzati da grande solennità e da complessi aspetti cerimoniali, tecnici e organizzativi.
di Mario Pescante
Nell'ambito del culto politeistico degli dei ebbe origine in Grecia il cosiddetto 'culto agonistico', celebrato con l'istituzione di gare per rendere più solenni i riti religiosi. L'intento era quello di glorificare gli dei, onorandoli con l'organizzazione di agoni, nel contesto di un rigoroso cerimoniale. I giochi divennero, pertanto, un'occasione rituale e, al contempo, agonistica, in cui la vittoria nella competizione costituiva un'occasione simbolica per accostare l'atleta alla divinità. Non sarebbe possibile interpretare correttamente il fenomeno delle Olimpiadi nell'antichità se non si cogliesse, innanzitutto, questo profondo significato. Solo così si possono individuare le profonde radici dell'agonismo (oggi diremmo dello sport), identificarne i valori originari e i contenuti ideali.
Il disperso mondo delle pòleis greche ospitava centinaia di giochi, alcuni di importanza panellenica, altri di rilievo solamente locale. Ma, ovunque, gli ingredienti di base delle celebrazioni erano gli stessi; da una parte i riti religiosi con le processioni, i sacrifici, le offerte votive, le preghiere; dall'altra, le feste agonistiche con i loro giochi. Sia che si trattasse di agoni musicali, di retorica, di arte drammatica, di danza o di pittura, sia che si disputassero gare atletiche, al centro di queste attività c'era sempre l'agòn, l'agonistica. Coristi, musici, dicitori, danzatori, araldi e drammaturghi gareggiavano e venivano premiati alla stessa stregua degli atleti.
Bisogna però intendersi bene sul significato che gli antichi greci davano all'agòn, cioè alle competizioni regolate da norme. "L'importante è partecipare, non vincere", proclamerà il fondatore dell'olimpismo moderno, Pierre de Coubertin. "L'importante è vincere" era, invece, la regola basilare dell'agonismo greco. Partecipare alle competizioni non costituiva, di per sé, un titolo di merito, poiché solo la vittoria dava la gloria, accostava gli atleti agli dei, li avvicinava all'Olimpo. Non esisteva il 'podio', non erano previsti riconoscimenti per il secondo e terzo classificato. Non essere primo significava perdere e questo era tutto; la sconfitta era considerata un'infamia, un disonore. Questa caratteristica dell'agonistica greca era collegata alla tradizionale concezione dell'uomo eroico, così come veniva celebrato nei tempi arcaici. "O corona o morte" gridavano gli atleti prima di scendere in campo all'epoca dell'occupazione romana. Nelle imprese degli antichi atleti, dunque, non trovava certamente posto il moderno concetto del fair play. Altro elemento peculiare dell'agonistica greca era l'assenza nei programmi dei giochi panellenici delle gare a squadra. La vittoria spettava al singolo individuo, la gloria non poteva essere condivisa con i compagni, ma soltanto, come declamavano gli antichi poeti, con la propria famiglia, i propri antenati, la propria gente. Così pure non sono mai stati tramandati record, ma piuttosto primati di 'qualità': pugili senza cicatrici, lottatori imbattuti, vincitori senza combattere, perché si erano ritirati tutti gli avversari.
I giochi atletici si svolgevano per commemorare la scomparsa di grandi personaggi, la cui memoria veniva perpetuata attraverso le imprese degli atleti, anche allo scopo di esorcizzare la morte. Vita e morte, infatti, per gli antichi greci, erano in relazione dialettica tra loro; di conseguenza, secondo le antiche credenze, gli atleti che gareggiavano nei giochi traevano vigore proprio dagli eroi scomparsi, in onore dei quali si svolgevano le competizioni. La continua rigenerazione della speranza era rappresentata dal sacro fuoco, che ardeva incessantemente nell'Altis, il recinto di Olimpia. Ebbe così origine il culto agonistico che metteva in contatto il mondo della religione con quello dell'atletica, conferendo alle gare un carattere di sacralità. Per questo motivo i luoghi che ospitavano i principali giochi panellenici erano generalmente sede di culti religiosi. Solo con il trascorrere dei secoli il collegamento tra competizioni e riti religiosi andò attenuandosi e i giochi subirono una graduale trasformazione, diventando l'occasione specifica per praticare attività agonistica.
Per quanto riguarda l'individuazione di un periodo ben determinato in cui collocare la nascita dei giochi atletici nell'antica Grecia, le fonti di riferimento sono generalmente quelle letterarie. La descrizione più antica di competizioni appare nel XXIII libro dell'Iliade, che offre una minuziosa rappresentazione delle gare organizzate da Achille, sotto le mura di Troia assediata, per accompagnare i riti funebri celebrati in onore di Patroclo, ucciso in duello da Ettore. Il racconto dei giochi è senza dubbio il più completo fra le antiche descrizioni dell'agonistica greca ed è riferito quasi fosse un resoconto giornalistico moderno, ciò che è ancor più sconcertante perché Omero probabilmente visse due secoli prima dell'inizio dei Giochi Olimpici e tuttavia fornisce una descrizione copiosa e analitica delle competizioni. Le prove descritte sono otto: due corse, a piedi e con i carri; due lanci, disco e giavellotto; tre combattimenti, pugilato, lotta e scontro con le armi; una di destrezza, il tiro con l'arco. La maggior parte di queste gare costituì successivamente il programma di base dei Giochi Olimpici.
I competitori dell'Iliade provengono esclusivamente dal gruppo dei nobili guerrieri che comandano l'armata greca. Le corse si svolgono in un impianto di fortuna, ricavato adattando all'uopo il terreno esistente. Il percorso è delimitato ai due lati da pietre cuneiformi; come indicazione per invertire la corsa, al termine del rettilineo, è usato un tronco in legno interrato, denominato mèta, contornato da grandi macigni. Il racconto inizia con la corsa dei carri, la più aristocratica di tutte le gare, monopolio dei capi militari che partecipano alle battaglie sui loro cocchi. Una serie di nozioni tecniche si ricava dalle raccomandazioni di Nestore di Pilo, famoso auriga, al figlio Antiloco, che ha come avversari i favoriti Diomede, Eurialo e Merione. Per questa corsa Achille mette in palio cinque premi, uno per ciascuno dei concorrenti, un'eccezione, che si ripeterà anche nelle altre prove, rispetto alla pratica comune nell'agonistica greca, dove di regola veniva assegnato un riconoscimento solo al vincitore. Segue la descrizione delle altre gare, il pugilato e la lotta, discipline che occupavano un ruolo importante nell'educazione atletica achea. Anche nel pugilato vengono messi in palio due premi, uno per ciascuno dei due concorrenti, che hanno le mani ricoperte da una speciale protezione costituita da strisce di pelle intrecciate sul polso; le dita sono libere e possono così serrarsi a pugno. La competizione di lotta vede contendersi la vittoria Ulisse e Aiace, i due eroi achei che rappresentano le caratteristiche tipiche di questa disciplina: l'astuzia e la forza. Il combattimento è estenuante; i due lottatori si afferrano per le braccia e restano in questa posizione di difesa così a lungo che Aiace, per tentare di dare in qualche modo un esito al combattimento, propone a Ulisse di lasciarsi sollevare alternativamente senza porre difesa. Nessuno dei due, malgrado l'espediente, riesce ad avere la meglio; vengono, perciò, ambedue dichiarati vincitori da Achille che consegna, come premio, due tripodi di metallo e otto buoi. È l'unico episodio citato da fonti scritte di una competizione dei giochi antichi terminata con una vittoria a pari merito. Si disputa, quindi, la prova di corsa alla quale concorrono tre atleti: Aiace, Antiloco e Ulisse. La gara è molto semplice: gli atleti afferrano una sbarra, dietro la quale vengono allineati in attesa del segnale di via per poi raggiungere, il più velocemente possibile, un traguardo, collocato a una distanza che Omero non precisa. Seguono le prove di lancio: nel giavellotto, di cui non sono forniti dettagli né di forma né di misure, la vittoria viene assegnata, in segno di rispetto e deferenza, al capo supremo della spedizione, Agamennone; per quanto riguarda il disco, al contrario, Omero si dilunga nel descrivere l'attrezzo, che non risulta essere il disco vero e proprio utilizzato nei Giochi Olimpici, ma un blocco di metallo non lavorato, che rappresenta anche il premio per l'atleta che lo scaglia più lontano. Tenuto conto delle fattezze dell'oggetto, sarebbe stato forse più corretto parlare di lancio del peso.
L'Iliade avvalora dunque la tesi secondo la quale fin dai tempi della civiltà micenea i greci avevano la consuetudine di organizzare giochi collegati a cerimonie funebri. Tuttavia anche nella maggior parte delle opere letterarie successive a quelle omeriche, lo svolgimento dei giochi è sempre concomitante con cerimonie religiose o riti funerari in onore di un dio o di un eroe. La motivazione religiosa non solo donava un carattere di sacralità alle competizioni, ma ne stabiliva anche la periodicità; i giochi acquisivano, in tal modo, una continuità temporale che ne garantiva la sopravvivenza. Naturalmente ciò presupponeva la ricerca di sedi fisse e spazi idonei ove far svolgere le gare. Per queste ragioni il popolo greco scelse come residenze abituali dei giochi località ove si celebravano culti religiosi. L'usanza di associare le onoranze funebri con i giochi atletici non fu peraltro peculiare della Grecia. In Italia, per esempio, tale legame è attestato dalle raffigurazioni di corse con i carri di combattimenti di pugilato e di lotta che si trovano su numerosi sarcofagi provenienti dalle tombe etrusche.
Lo stretto nesso esistente tra l'agonismo e la religione trovò il suo riscontro più evidente nelle origini delle principali feste agonali organizzate nell'antica Grecia: i Giochi Pitici, Istmici, Nemei, Panatenaici e, soprattutto, i Giochi Olimpici, l'istituzione dei quali ha preceduto gli altri di circa due secoli.
Tra le feste panelleniche grande rilievo ebbero i Giochi Pitici, detti anche Delfici. La loro origine si perde nei tempi, poiché ancor prima della loro istituzione ufficiale si svolgevano a Delfi feste locali, durante le quali si celebravano agoni presso l'oracolo di Apollo Python. Il programma originario prevedeva esclusivamente esibizioni musicali e un premio veniva conferito per il migliore inno ad Apollo, cantato con l'accompagnamento della cetra. Quando i Giochi Pitici ebbero il loro inizio ufficiale, nel 590 a.C., mantennero la loro caratteristica di essere soprattutto concorsi di musicisti, drammaturghi, poeti e pittori. Proponevano dunque una situazione quasi antitetica rispetto a Olimpia, dove si disputavano prevalentemente gare atletiche. Le due manifestazioni, nel loro insieme, rappresentavano un quadro completo dell'agonistica greca, nelle sue componenti atletiche e artistiche.
Le feste si svolgevano nel territorio di Delfi, in un paesaggio completamente diverso da quello di Olimpia: se quest'ultima giaceva nella valle verdeggiante e piatta dell'Alfeo, Delfi era arroccata tra i dirupi rocciosi del versante meridionale del monte Parnaso, nella Focide, a strapiombo su una distesa di olivi che si allargava sino alle acque del golfo di Corinto. Al luogo si attribuì, sin da epoca remota, un carattere sacro, connesso probabilmente con i movimenti tellurici frequenti nella zona e con le esalazioni delle numerose sorgenti solforose. Non sorprende quindi che agli inizi si sia sviluppato il culto ctonio di Gea, la Terra. Solamente nel 7° sec. a.C. prevalse il culto di Apollo, in onore del quale fu costruito il tempio, dove la Pizia recitava i responsi dell'oracolo emettendo suoni inarticolati che venivano interpretati dai suoi sacerdoti. L'oracolo di Delfi acquistò per l'intera Grecia una straordinaria importanza, non solo religiosa ma anche politica, tanto da esercitare una notevole influenza anche nei progetti di colonizzazione delle nuove terre. Era d'uso, infatti, consultarlo prima di ogni movimento migratorio, per ottenere suggerimenti e ricavarne auspici.
Conoscenze essenziali sui Giochi Pitici sono state offerte dall'archeologia. Gli scavi condotti intorno al 1860 dalla Scuola archeologica francese di Atene portarono al ritrovamento di reperti pregiati, quali la statua bronzea dell'Auriga, che faceva parte di una quadriga innalzata per celebrare la vittoria di Polizelo nel 478 a.C. Durante gli scavi furono scoperte anche le rovine del tempio di Apollo, l'anfiteatro e lo stadio, considerato, per la sua posizione, il più suggestivo nell'antica Grecia. Esso giace su un'ampia terrazza nella parte più alta di Delfi, ai piedi delle due rocce Fedriadi (le Brillanti), grandi colline rocciose che si innalzano a strapiombo per 250 m. Come a Olimpia, sembra non ci sia stato uno stadio permanente fino alla seconda metà del 5° sec. a.C. Ai tempi di Pindaro, infatti, le gare non avevano luogo a Delfi, ma nella sottostante pianura di Crisa. Il cambiamento avvenne probabilmente fra il 448 e il 421 a.C., quando i focesi presero la direzione della festa. Per costruire uno stadio sui ripidi fianchi delle colline fu necessario innalzare un massiccio muro di protezione, la cui data di costruzione è stata individuata grazie a una curiosa iscrizione contenente il divieto di portare vino all'interno dell'edificio. Lo stadio delfico fu restaurato nel 2° sec. d.C. grazie alla generosità del mecenate Erode Attico che, secondo Pausania, lo rivestì di marmi come aveva fatto in quello di Atene. Le corse con i carri e a cavallo continuarono a svolgersi nella piana di Crisa poiché a Delfi non c'era spazio sufficiente per costruire un ippodromo. Presso la fonte Castalia si trovano, infine, i resti di un ginnasio costruito nel 4° sec. a.C., epoca in cui le feste acquistarono particolare importanza, dopo il periodo di decadenza che aveva fatto seguito all'invasione persiana.
Secondo Pausania i giochi sarebbero stati istituiti da Apollo per celebrare l'uccisione del terribile serpente Pitone, simbolo dei culti preellenici della Terra, oppure da Diomede, uno degli eroi achei che presero parte all'assedio di Troia, il quale li avrebbe istituiti in onore di Apollo. Lasciando da parte la mitologia per attenersi a ricostruzioni più rigorosamente storiche, gli studiosi fanno risalire le origini di queste feste alla celebrazione della vittoria che Delfi, a capo della Lega anfizionica, riportò nella Prima guerra sacra contro i focesi di Crisa, ricca città ai piedi del Parnaso. Da quel momento Delfi conobbe un'epoca di prosperità, di cui fu appunto manifestazione l'istituzione nel 590 a.C. delle feste pitiche, uno dei pochi esempi di giochi panellenici a trarre origine da un evento bellico. Le feste, che originariamente si disputavano ogni otto anni, a partire dal 582 a.C. iniziarono a mutare il loro carattere esclusivamente musicale per includere nel programma, in emulazione dei Giochi Olimpici, anche gare atletiche ed equestri. Fu inoltre deciso di farle svolgere con una cadenza quadriennale, nell'agosto del terzo anno di ciascuna Olimpiade e, sull'esempio delle Olimpiche, di proteggerle con la proclamazione di una 'tregua sacra' di tre mesi.
I giochi, preceduti dai rituali sacrifici propiziatori, venivano inaugurati con il caratteristico nòmos piticòs. Nella stessa giornata, atleti, giudici, sacerdoti e autorità formavano un corteo che, partendo dalle mura esterne della città, percorreva la via sacra sino al santuario consacrato ad Apollo. Il giorno seguente le feste proseguivano fra competizioni musicali di canto e flauto e concorsi poetici. Seguivano, secondi per importanza, i concorsi ippici. Le corse con i carri, che non comparivano nel programma della prima edizione, furono inserite nel 582 a.C. Il primo vincitore fu Clistene, tiranno di Sicione, tra i protagonisti nella Guerra sacra. In questa gara colsero l'alloro altri personaggi illustri come Gerone di Siracusa, Senocrate di Agrigento e Arcesilao, celebre auriga di Cirene. I concorrenti in queste gare dovevano essere piuttosto numerosi, come si evince dall'ode in onore della vittoria di Arcesilao in cui Pindaro racconta che durante la corsa non meno di 40 carri furono travolti in una caduta rovinosa, a causa dell'ardore agonistico dei contendenti. Anche Sofocle ricorda le gare equestri nei Giochi Pitici, descrivendo nell'Elettra le mete che contrassegnavano il punto in cui i concorrenti invertivano la corsa al termine del rettilineo. Altri autori riferiscono che nell'ippodromo di Delfi erano collocati tre blocchi di pietra con le seguenti iscrizioni che incitavano gli atleti: "sii veloce", "volta", "sii deciso". Le corse dei carri e a cavallo persero la loro importanza in epoca romana e gradualmente scomparvero, forse per l'impoverimento degli allevamenti greci durante l'occupazione romana. Le feste si concludevano con altre gare atletiche, che ricalcavano il programma dei Giochi di Olimpia. Il programma fu ampliato nel 498 a.C. con l'introduzione della corsa con le armi, apparsa a Olimpia pochi anni prima e, nel 346 a.C., con il pancrazio per ragazzi, che fece la sua comparsa nei Giochi Olimpici solamente nel 200 a.C.
La complessa direzione dei giochi era affidata a un Comitato composto dalle personalità più accreditate della Lega anfizionica, formata in origine dalle 12 tribù che risiedevano in prossimità del santuario di Demetra. La Lega era amministrata da un direttorio formato da due membri per ciascuna tribù, il pulagòros, quale delegato politico, e lo hieromnèmon, figura religiosa. La legge anfizionica del 380 a.C. conteneva tutti i dettagli relativi ai compiti degli ieromnemoni: essi predisponevano il programma, proclamavano la tregua sacra, assicuravano il funzionamento degli impianti, sovrintendevano ai sacrifici e alle cerimonie religiose, esplicavano le funzioni di giudice e presiedevano alle premiazioni. I vincitori erano premiati simbolicamente con la consegna di pomi, frutti sacri ad Apollo e con corone di alloro. La corona di foglie di lauro è raffigurata su una moneta rinvenuta a Delfi, mentre un'altra, trovata a Corinto, rappresenta un tavolo sul quale sono deposte, accanto alla corona d'alloro, cinque mele e un vaso.
I Giochi Pitici ebbero la loro maggiore risonanza nel 4° sec. a.C., quando venne edificato il ginnasio e fu ampliato il programma con l'aggiunta di nuove prove. Con la decadenza delle competizioni olimpiche, si è persa traccia anche delle pitiche. Si ha motivo di ritenere, comunque, che la loro fine sia stata decretata dall'Editto dell'imperatore Teodosio (392 d.C.) che, come vedremo, costituì l'ordine di morte per tutti i culti agonistici dell'antichità greca.
Corinto, patria di ricchi mercanti e di grandi navigatori, situata sull'istmo che unisce il Peloponneso al continente, ospitò i Giochi Istmici nell'epoca in cui era il più grande centro di scambi commerciali dell'intera Grecia. Le varie leggende circa l'origine di queste competizioni sono legate, direttamente o indirettamente, a Poseidone dio del mare e delle forze occulte della terra, venerato soprattutto lungo le coste e nelle isole dell'Egeo. Narra il mito che i primi contendenti dei giochi di Corinto furono lo stesso Poseidone ed Eolo, dio dei venti, che gareggiarono per assicurarsi il dominio sul territorio, arbitro Briareo, figlio di Poseidone, che assegnò l'Acrocorinto a Eolo e l'Istmo al padre. Plutarco, nella Vita di Teseo, fa invece risalire la loro fondazione a Teseo, figlio di Egeo re di Atene, il quale, durante il suo viaggio da Atene a Corinto, avrebbe ucciso Scirone, eroe eponimo di Megara, e avrebbe istituito i giochi per ricordare l'impresa compiuta; l'antagonismo tra i due mitici personaggi rispecchierebbe in realtà la rivalità esistente tra Atene e Megara. Plutarco tramanda anche una versione discordante, secondo cui l'eroe ateniese istituì le feste per celebrare l'alleanza tra le regioni di Megara e dell'Attica. Secondo lo storico, prima di Teseo, le Istmiche avevano la caratteristica di giochi notturni in quanto si celebravano dopo il tramonto del sole, al lume di fiaccole e di falò. L'eroe attico ne modificò il rituale facendole disputare di giorno come gli altri giochi panellenici; stabilì, inoltre, che gli ateniesi avessero diritto a un posto d'onore negli stadi. Il trattamento preferenziale riservato agli ateniesi in realtà molto probabilmente era da collegare agli ottimi rapporti che Atene e Corinto avevano prima dell'insorgere di rivalità commerciali. Un altro racconto leggendario, secondo cui Teseo avrebbe fondato i giochi in antagonismo con Ercole che aveva istituito quelli di Olimpia, spiegherebbe le ragioni dell'acceso antagonismo tra le due feste, al punto che agli elei, secondo quanto riferisce Plutarco, non era consentito di gareggiare a Corinto.
Un frammento di una tavola rinvenuto nell'isola di Paro porterebbe a collocare l'istituzione delle Istmiche addirittura intorno al 12° sec. a.C. Esse vanterebbero, di conseguenza, un'antichità maggiore rispetto alle prime gare che a Olimpia precedettero i giochi ufficiali. Sarebbe seguita, quindi, una lunga sospensione, che durò fino al 582 a.C. A partire dal 581 a.C. i Giochi Istmici ebbero il loro avvio ufficiale, assumendo cadenza biennale, nel secondo e quarto anno di ogni Olimpiade.
I Giochi Istmici, nonostante fossero di livello inferiore a quelli Olimpici per i contenuti agonistici e a quelli Pitici per la componente artistica, erano caratterizzati da un grande concorso di spettatori ed erano i più frequentati fra tutte le feste panelleniche. Non raggiunsero mai, tuttavia, l'importanza panellenica e il prestigio dei Giochi Olimpici, come dimostra anche il decreto del legislatore ateniese Solone, che stanziava a spese della pòlis 100 dracme per i vincitori delle Istmiche e 500 per quelli delle Olimpiche.
Per quanto riguarda le caratteristiche tecniche e organizzative, scarseggiano gli elementi sia sulla durata delle gare sia sul loro svolgimento. Pausania, che pure dedica due libri alla descrizione dei Giochi Olimpici, fornisce solo poche informazioni su quelli Istmici. Circa la loro evoluzione nel 5° e 4° secolo, si rileva che tra i vincitori ci sono pochi nomi di atleti residenti nelle colonie della Sicilia e dell'Italia; gran parte dei concorrenti provenivano da Corinto, Egina, Tebe, Atene e da alcune isole dell'Egeo. La partecipazione di altre pòleis fu probabilmente condizionata dalla politica dei corinzi che cercavano di conservare una certa equidistanza tra Atene e Sparta. Durante le guerre del Peloponneso gli ateniesi disertarono le Istmiche, ma, alcuni anni dopo, nel 412 a.C., Corinto rifiutò l'invito di Sparta di partecipare alla liberazione di Chio dalla dominazione ateniese e, dopo avere proclamato la tregua sacra, indisse i Giochi invitando gli ateniesi a parteciparvi
Fonti letterarie, come gli epinici di Pindaro e Bacchilide, e i resti di edifici e impianti riportati alla luce nel 19° secolo, nonché la ricca varietà di reperti rinvenuti in particolare tra le rovine del tempio di Poseidone forniscono notizie sul programma dei Giochi. Inizialmente essi prevedevano solo competizioni atletiche ed equestri, ma intorno al 4°-3° sec. a.C. furono introdotti anche agoni musicali, che videro tra i principali protagonisti Nicocle di Taranto, il quale riportò quattro vittorie consecutive. L'importanza delle attività musicali e intellettuali è sottolineata dalla creazione, proprio a Corinto, nel periodo ellenistico (3° sec. a.C.), di corporazioni di attori di professione che si esibivano nelle varie feste locali, denominate collègia technìtai. In analogia con questa iniziativa, anche gli atleti professionisti crearono la loro associazione, eleggendo Ercole a nume tutelare.
Come tutti i grandi appuntamenti panellenici, anche le Istmiche si aprivano con un rigido cerimoniale religioso e duravano probabilmente parecchi giorni. Prima dell'inizio delle gare, un corteo di atleti, giudici e sacerdoti percorreva la via sacra e si recava presso il grande altare innalzato in onore di Poseidone. Dopo i sacrifici propiziatori, si procedeva alla cerimonia del giuramento da parte degli atleti e dei giudici. Terminato il rituale, iniziavano i concorsi musicali, retorici e poetici. Seguivano competizioni atletiche, con prove distinte per adulti, giovani e ragazzi. Secondo alcuni autori si svolgevano anche delle regate. Le gare avevano luogo in un'area situata presso il tempio di Poseidone. Dello stadio originario si è persa ogni traccia, mentre è stato possibile localizzare il secondo impianto, costruito intorno al 5° secolo e ricavato dal letto di un torrente la cui acqua era stata deviata in un canale sotterraneo. Il fondo prosciugato, livellato, fu sistemato a pista per le corse. Anche dell'ippodromo non si sono trovati i resti; si ha però la certezza, grazie alle testimonianze pervenuteci, che le gare ippiche ebbero grande rinomanza. La figura di Poseidone alla guida di un carro compare, tra l'altro, in un gran numero di monete corinzie e siciliane. Nel 2° sec. d.C. un cittadino romano di Corinto, Publio Licinio Prisco, finanziò alcune opere che arricchirono gli impianti e gli edifici utilizzati per le Istmiche. A lui si deve, tra l'altro, la costruzione del portico che conduceva gli atleti nello stadio. Le feste si concludevano con una cerimonia che si svolgeva durante la notte nei pressi del tempio di Melicerte, illuminato da migliaia di fiaccole portate dai fedeli e dal fuoco delle fosse ove si compivano i sacrifici. Le fiamme erano alimentate da tronchi di pino e olio d'oliva. Al tempo di Pindaro, i vincitori delle gare venivano premiati con una corona di pino selvatico. Dal 485 a.C. il pino fu sostituito dall'apio secco, per distinguere il serto dei Giochi Istmici da quello dei Nemei, che era di apio fresco.
Le feste Istmiche si interruppero nel 146 a.C., allorché la città fu distrutta dalle truppe del generale romano Lucio Mummio, intervenute per soffocare una rivolta. In conseguenza di questo avvenimento, i Giochi furono trasferiti a Sicione per tornare a Corinto, cento anni dopo, quando la città fu ricostruita per opera di Cesare.
Come si può rilevare dalla cronologia sinora menzionata, intorno al 6° sec. a.C. si ebbe un proliferare di giochi atletici in più regioni della Grecia. A questo periodo vengono ricondotti anche i Giochi Nemei, considerati, peraltro, i meno importanti tra le competizioni panelleniche. Organizzati nella valle solitaria ove sorgeva il Tempio di Zeus Nemeo, a metà strada tra Fliunte e Cleone, si ritiene fossero già esistenti prima del 1° millennio a.C. Dopo una lunga stasi, nel 572 a.C. le celebrazioni furono ufficialmente ripristinate e riorganizzate come feste panelleniche. Si svolgevano con cadenza biennale, nel secondo e quarto anno dei Giochi Olimpici, in una valletta boscosa dell'Argolide settentrionale attraversata dal fiume Nemea.
Come per tutte le feste agonali dell'antica Grecia, anche l'origine delle Nemee è legata a un mito: le avrebbe istituite Adrasto, uno dei sette eroi che parteciparono alla spedizione contro Tebe, per onorare la memoria di Archemoro, figlio del re di Nemea, assalito e soffocato da un serpente dopo esser stato lasciato incustodito dalla nutrice, allontanatasi per indicare una fonte ai Sette durante la loro sosta nella valle nemea. Parteciparono alle gare tutti e sette i condottieri che, equanimemente, si aggiudicarono una prova ciascuno. Secondo un altro mito, riferito da Bacchilide, i Giochi sarebbero stati fondati da Ercole dopo la prima delle sue leggendarie fatiche, l'uccisione del leone nemeo che infestava la valle aggredendo gli abitanti.
La direzione delle Nemee fu causa di sanguinose dispute tra le città di Cleone e Argo. Originariamente il controllo fu esercitato da Cleone, ma nel 460 a.C. la titolarità dei Giochi passò ad Argo, che tuttavia fu accusata di utilizzare la tregua sacra in maniera strumentale, bloccando in più di un'occasione un'aggressione spartana. L'uso fraudolento della tregua fu interrotto dal re di Sparta Agesipoli che, nel 390 a.C., invase Nemea e punì gli argivi privandoli delle feste. Alla fine del 3° sec. a.C. i Giochi tornarono ad Argo ove furono ospitati fino ai tempi dell'invasione romana.
Nemea, come Olimpia, non era una città vera e propria, ma un luogo sacro ove sorgevano pochi edifici: un tempio dedicato a Zeus Nemeo, un edificio amministrativo, uno stadio, un ginnasio e un ippodromo che, secondo la descrizione di Pausania, aveva una lunghezza doppia rispetto allo stadio. Di queste costruzioni ci sono pervenuti solo pochi resti. I Giochi, che avevano un programma essenzialmente atletico, avevano inizio a metà luglio, ma non se ne conosce la durata. Originariamente si svolgevano solo competizioni di corsa e gare ippiche; solo più tardi, durante l'epoca ellenistica e imperiale, si aggiunsero agoni musicali per citaredi ed esibizioni riservate ai trombettieri.
Una caratteristica tecnica delle Nemee era la distanza da percorrere nella corsa delle armi, che consisteva in quattro stadi, il doppio di quella prevista a Olimpia. La direzione delle gare era affidata a giudici, detti ellanodici come quelli dei Giochi Olimpici. Dalle poche notizie pervenuteci sui concorrenti, sembra che nel 5° sec. a.C. essi provenissero principalmente dal Peloponneso, da Atene e dalle isole Egee. Più tardi, durante la conquista romana, si affermarono anche atleti professionisti di Alessandria e dell'Asia Minore. Al contrario dei Giochi Istmici, nei quali prevaleva un tono festoso e quasi mondano, le Nemee erano contraddistinte da una forte caratterizzazione religiosa che le ricollegava alle loro origini funebri. Tale impronta trovava aderente rappresentazione nell'abbigliamento dei protagonisti: i giudici e i concorrenti indossavano, in segno di lutto, indumenti scuri; anche i riti avevano caratteristica preponderante di culto funerario. Gli atleti partecipanti ai Giochi Nemei erano suddivisi, così come per quelli Istmici, in tre categorie: i paidès (ragazzi), gli agéneioi (giovani) e gli àndres (adulti); il limite esatto dell'età per ciascuna classe non risulta chiaramente dalle fonti scritte. In epoca imperiale a Nemea, come a Corinto, si costituì una corporazione di atleti professionisti, con nume tutelare Dioniso.
Il premio ai vincitori consisteva originariamente in una corona di ulivo selvatico, segno di pace, sostituito in seguito con apio fresco e una foglia di palma. Le Nemee, secondo alcune fonti, sopravvissero all'Editto di Teodosio e continuarono a svolgersi, per un certo tempo, anche dopo la scomparsa delle Olimpiadi.
Parallelamente alle grandi feste panelleniche che costituivano i cosiddetti 'giochi maggiori', esistevano nell'antica Grecia feste locali, denominate 'giochi minori', nei quali gli agoni atletici si alternavano con concorsi musicali, letterari e artistici. Il novero delle competizioni era piuttosto nutrito; talora le gare avevano una caratteristica rituale, come nel caso della corsa con le torce che si rifaceva all'antico costume di trasferire il fuoco sacro da una località all'altra con fiaccole portate da atleti, tradizione alla quale si ispira nelle Olimpiadi moderne la staffetta di tedofori che recano il fuoco di Olimpia dalla patria dell'olimpismo antico sino alla città sede dei Giochi.
Queste feste cittadine, presenti nel 6° sec. a.C. sicuramente in almeno 50 città, avevano un modesto rilievo, poiché la loro notorietà e diffusione erano esclusivamente locali. Il loro numero crebbe tuttavia in relazione al sorgere di varie città fondate dai coloni greci e al processo di ellenizzazione subito da centri già esistenti. Anche fuori dalla Grecia, pertanto, vennero organizzati giochi, secondo le consuetudini della madre patria. Si ebbe così un proliferare di feste locali che, con il tempo, si moltiplicarono sino a diventare oltre 300 nel 1° sec. d.C.
Mentre il vincitore delle feste panelleniche riceveva riconoscimenti simbolici come palme, rami di ulivo, serti di alloro o di sedano, in quelle locali gli atleti, oltre a percepire ingaggi sostanziosi, erano sicuri di ricevere ricompense tangibili. Al British Museum di Londra, per esempio, è conservata, in ottimo stato, una caldaia di bronzo risalente al 6° secolo, rinvenuta a Cuma (Magna Grecia) e recante l'iscrizione "in premio ai Giochi di Onomastos"; l'oggetto fu messo in palio in qualche festa celebrata in onore del famoso pugile Onomastos di Smirne, olimpionico del pugilato nella XXIII Olimpiade.
Nell'ambito delle feste minori, una discreta importanza avevano i giochi che si svolgevano a Epidauro, antica città dell'Argolide che in età ellenistica prosperò poiché era sede di un celebre santuario dedicato ad Asclepio. Ogni cinque anni in onore di questo dio venivano celebrate le Asclepiadi, durante le quali si svolgevano agoni musicali in un teatro con una cavea circolare a 50 file di sedili. La costruzione, famosa per la sua acustica, è uno degli esempi meglio conservati di edifici teatrali greci, ancora oggi utilizzato.
Ad Argo, che è ritenuta la più antica città della Grecia (le origini risalirebbero al 2000 a.C.) e faceva parte, con Micene, del regno di Agamennone, ogni anno si disputavano gare di corsa denominate Imenee. La loro origine si ricollegava al mito delle Danaidi, le figlie di Danao che per ordine del padre uccidevano i mariti nella prima notte di nozze finché per intervento di Afrodite, dea dell'amore, Danao non rinunciò al crudele rito e promise di far sposare le figlie ai vincitori di una gara di corsa.
Iolco, antichissima città che sorgeva nella Tessaglia sul golfo di Pagase ai piedi del monte Pelio, ospitava i Giochi Peliaci, che si disputavano in memoria del re Pelia sulla spiaggia da dove partì la spedizione degli Argonauti, i mitici eroi greci comandati da Giasone. Raffigurazioni dei giochi funebri per Pelia compaiono su uno dei più famosi monumenti dell'arte figurativa greca, l'arca di Kypselos, del 6° sec. a.C., custodita a Olimpia, e su un'anfora ugualmente del 6° sec., il vaso di Anfiarao, conservato nel Museo di Berlino.
Teseo, figura eminente del ciclo eracleo, avrebbe dato vita ai giochi Ecalesi e, a Creta, a feste funebri in onore di Androgeo figlio del re Minosse. Feste funebri di una qualche importanza furono istituite dal re Teutamide a Larissa, città della Macedonia. In una edizione vi prese parte Perseo, che si affermò in tutte le prove del pentathlon.
Lungo è l'elenco delle feste organizzate a Sparta. Fra le più antiche si ricordano le Carnee, istituite nel 676 a.C. in onore di Apollo Carneo, l'antico dio Carno, l'ariete che aveva guidato i Dori nella loro migrazione. Per questo motivo le competizioni erano riservate a concorrenti provenienti dalle città doriche. Il programma era prevalentemente costituito da agoni musicali. Alla stessa epoca risalgono le Iacinthie, gare a carattere funebre organizzate in memoria di Giacinto, ucciso accidentalmente da Apollo durante una gara di lancio del disco. Le competizioni agonistiche non costituivano però la parte predominante delle feste, che erano soprattutto caratterizzate dai riti religiosi. Talete di Creta nel 668 a.C., per commemorare la sconfitta di Isie da parte di Argo, introdusse le Gimnopedie (da gùmnos, "nudo" e pedào, "saltello"), competizioni di danza tra giovani nudi. Sparta organizzava anche le Leonidee per ricordare i caduti alle Termopili (480 a.C.). Le gare, che avevano luogo tra le tombe degli eroi, si svolgevano annualmente ed erano riservate esclusivamente agli spartani. Su queste competizioni ci sono pervenute diverse iscrizioni, una delle quali contiene i regolamenti all'epoca della loro riorganizzazione (1° sec. d.C.), durante l'impero di Nerva. Le epigrafi più interessanti sono quelle che descrivono il cosiddetto gioco del planeto che si svolgeva su un'isoletta, fra due squadre che cercavano di spingere gli avversari nell'acqua colpendoli con pugni, calci e lottando. Poiché le iscrizioni sono mutilate non si conoscono i dettagli sul numero dei componenti e sui regolamenti. Sempre a Sparta si ha notizia di alcune feste private, come le Euriclee, che prendevano il nome dal loro finanziatore Euricle, ricco e potente commerciante vissuto nel 1° sec. a.C.
A Platea vennero istituite le Eleuterie, per celebrare la vittoria ellenica contro i persiani (479 a.C.). Fu in occasione di questa battaglia che, come riferisce Erodoto nelle sue Storie, Mardonio, generale persiano, fu avvicinato da un suo comandante che esclamò: "ahimé Mardonio, contro quale specie di uomini ci hai mandato a combattere; uomini che non per denaro disputano le loro gare, ma per l'onore".
Anche ad Atene, ove si celebravano le più note Panatenaiche, vennero istituite feste di minore importanza, come le Tesee, la grande rassegna dell'atletismo degli efebi dell'Attica, organizzata in onore di Teseo. La festa era annuale e consisteva in un rituale religioso e in competizioni atletiche. Il programma si apriva con i concorsi per araldi e trombettieri, seguiti da corse con le fiaccole, alle quali partecipavano squadre in rappresentanza di palestre e ginnasi ateniesi. Il programma atletico comprendeva lo stàdion, il pankràtion e l'oplitodromìa. In linea di massima ricalcava le prove delle Olimpiche, a eccezione del pentathlon e delle gare equestri. Nelle Tesee gli atleti erano suddivisi in quattro classi, a seconda dell'età.
Le feste Delie, forse ancora più antiche delle Olimpiche, sono citate nell'inno omerico ad Apollo. Giochi minori di scarso rilievo ebbero ospitalità in altre città della Grecia quali Mileto, Messene, Egina, Rodi, Megara, Tebe, Chio, Samo.
I giochi locali che ottennero il maggior successo e dei quali abbiamo più ampie notizie furono sicuramente quelli organizzati ad Atene e che dal nome della città presero l'appellativo di Giochi Panatenaici o Panatenee. Secondo il mito li avrebbe istituiti, con cadenza quadriennale, Erittonio, uno dei primi re di Atene, in occasione della dedica di una statua di Atena che doveva ricordare la sua vittoria sul gigante Asterio. Per gli storici la prima edizione ufficiale sarebbe stata organizzata nel 566 a.C. dall'arconte Ippokleides. Le gare, all'inizio, erano riservate esclusivamente agli abitanti di Atene e in origine non ebbero rilevanza al di fuori dei confini cittadini, per non accrescere ulteriormente il prestigio di Atene. Nel 528 a.C. Pisistrato stabilì che le competizioni potessero essere aperte anche agli atleti delle pòleis alleate, ma dopo alcune edizioni i Giochi furono sospesi. Li ripristinò Pericle intorno al 460 a.C.
Le feste, celebrate in onore di Atena Pallas, dea della sapienza e della guerra, si distinguevano in piccole Panatenee (annuali) e grandi Panatenee (quadriennali), che si svolgevano ogni terzo anno di ciascuna Olimpiade verso la fine di luglio, in coincidenza con l'anniversario della fondazione di Atene. Il programma, che sin dalle origini valorizzava la componente letteraria e artistica, era molto articolato e prevedeva concorsi musicali e di recitazione, prove atletiche, una regata e addirittura una specie di concorso di bellezza. L'esistenza di competizioni musicali è provata da due piccole anfore panatenaiche, risalenti al 6° sec. a.C., conservate nel British Museum: una rappresenta un citarista, l'altra un flautista che si esibisce in piedi su una pedana. Questi concorsi ebbero la loro consacrazione ufficiale nel 460 a.C., grazie a uno speciale decreto di Pericle. Fu stabilito anche il regolamento delle gare di canto, cetra e flauto, ospitate nell'Odeon, un teatro fatto costruire appositamente nel 442 a.C. e ricordato come il più bello e imponente del mondo classico.
L'importanza delle feste di Atene è evidenziata dal gran numero di autorità coinvolte nella loro organizzazione: i grandi sacerdoti preparavano la processione e i riti sacrificali; gli arconti, coadiuvati da alti magistrati, erano responsabili di tutti gli altri aspetti organizzativi e l'arconte eponimo curava la raccolta dell'olio destinato come premio ai vincitori. Il Gran Consiglio sovrintendeva all'amministrazione, alle cerimonie religiose, al controllo dell'operato dei giudici e alla manifattura del peplo e delle anfore.
L'inizio delle competizioni era preceduto da un corteo che percorreva le principali strade di Atene. Il fregio che si snoda lungo la cella del Partenone descrive in dettaglio la composizione della processione: apriva la sfilata una nave sospinta su due ruote, scortata da fanciulle recanti anfore ricolme di vino; seguivano i buoi destinati al sacrificio, quindi gli araldi alla testa delle delegazioni di Atene, delle colonie e delle pòleis alleate; a metà corteo erano schierate le autorità cittadine: i pritani, gli arconti, gli strateghi, i tesorieri; chiudevano la sfilata fanciulli, che recavano anfore, soldati e cavalieri armati. Alla processione panatenaica prendevano parte anche alcuni anziani. Ogni tribù selezionava i propri rappresentanti e veniva premiata la delegazione che aveva inviato gli anziani di migliore aspetto. La meta finale del corteo era l'Acropoli. Qui, alcune fanciulle di nobile famiglia, vestivano con un ricco peplo la statua della dea Atena. Seguiva la cerimonia del giuramento degli atleti e dei giudici che erano nominati per quattro anni e venivano scelti, uno per ciascuna delle dieci tribù ateniesi. Nei giorni della festa dimoravano nel Prytaneion, luogo sacro dove erano custodite le statue delle divinità e il fuoco di Hestia. I riti si chiudevano con il sacrificio di 100 buoi (ecatombe) e con il banchetto finale, al quale intervenivano tutti i partecipanti. Esaurita la parte protocollare, avevano inizio le feste che duravano nove giorni. Aristotele, nella Costituzione degli ateniesi, scrive che le prime tre giornate erano riservate alle recitazioni di poesia epica, alle esibizioni musicali e drammatiche. Una fonte epigrafica risalente al 4° sec. a.C. fornisce utili elementi per ricostruire la sequenza di questi concorsi. Il programma iniziava con le gare per citaredi, continuava con le esibizioni dei cantanti accompagnati dal flauto e si concludeva con le competizioni per adulti suonatori della lira.
Gli agoni atletici si svolgevano nel quarto e quinto giorno; il sesto era riservato alle corse con i carri e a cavallo. I primi vasi panatenaici del 6° secolo attestano, con le loro raffigurazioni, che nel programma delle Panatenee, sin dalle origini, figuravano tutte le prove previste nei Giochi Olimpici. I concorrenti erano suddivisi in base all'età in due categorie: adulti e ragazzi; nel 4° sec. a.C. fu aggiunta una terza classe, quella dei giovanetti. Per i più giovani il programma prevedeva cinque gare: lo stàdion, il pentathlon, la lotta, il pugilato e il pancrazio. Le competizioni per adulti erano completate da dìaulos, dòlichos, corsa a cavallo e oplitodromìa. Complessivamente il numero delle competizioni era piuttosto folto. Un'iscrizione del 2° sec. a.C. enumera ben 24 gare e un'altra, incompleta, ne cita 16.
Nel settimo giorno avevano luogo due esibizioni tipiche delle Panatenee: le danze con le armi, denominate pirriche (pyrrìche), e la corsa con le fiaccole (lampadedromìa). Il bassorilievo sulla base di una statua eretta da Atarbo per commemorare le vittorie riportate da un coro pirrico nelle Panatenee rappresenta otto giovani nudi con elmo e scudo, che danzano sotto la guida di un maestro vestito con un lungo mantello. La seconda gara, la lampadedromìa, consisteva in una corsa di efebi che, con una staffetta, recavano una fiaccola dall'ara di Prometeo, nei pressi dell'Accademia, sino all'Acropoli. Nell'ottavo e nono giorno le feste si concludevano con una solenne processione e, infine, con una regata nel porto del Pireo che vedeva competere equipaggi delle varie tribù. I concorrenti che trionfavano ricevevano, oltre ai premi in denaro, anche grandi vasi decorati, ricolmi di olio, noti con il nome di anfore panatenaiche. L'olio era considerato il prodotto più pregiato dell'Attica e in base alle leggi dell'epoca apparteneva alle pòleis, poiché tutti gli alberi d'ulivo erano di proprietà della comunità. L'arconte, dopo la spremitura, raccoglieva l'olio e lo consegnava ai tesorieri. Durante i Giochi venivano assegnate come premio complessivamente 1300 anfore. Tenuto conto che un vaso di olio valeva 12 dracme, è evidente che i premi avessero un grande valore commerciale. Un'iscrizione risalente al 4° sec. a.C. dà precise notizie sui criteri di assegnazione di questi riconoscimenti: 150 anfore, riccamente decorate, ciascuna contenente circa 20 litri d'olio, venivano attribuite al vincitore della corsa con i carri; 50 a chi si affermava nello stàdion; 40 erano messe in palio nel pancrazio, 30 nel pentathlon, nella lotta e nel pugilato. Sui vasi, dipinte in nero su fondo rosso, erano raffigurate, da un lato, Atena con elmo, scudo e lancia e, dall'altro, scene agonistiche relative alla gara in cui l'atleta si era affermato. La dea normalmente è inquadrata da due pilastri sormontati da un emblema: su quello di destra compare la scritta "uno dei premi da Atene". I vasi panatenaici sono stati rinvenuti in grande quantità e anche in luoghi molto distanti dalla Grecia, probabilmente perché ai vincitori era concesso di venderli e in tal modo esportare un prodotto considerato pregiato oltre che sacro. La maggior parte dei vasi panatenaici pervenuti mostrano figure di corridori, a conferma della popolarità delle gare di corsa presso gli ateniesi che, in questa disciplina, riportarono a Olimpia il maggior numero di allori. Alcuni studiosi, riferendosi a questa circostanza, ritengono che la stessa scelta del vincitore della gara dello stàdion, quale eponimo dell'Olimpiade, sia dovuta all'influenza ateniese.
di Mario Pescante
Le feste panelleniche che superarono in prestigio e popolarità tutte le altre furono quelle organizzate nella città sacra di Olimpia e perciò denominate Giochi Olimpici. Sulle loro origini esiste una fitta rete di suggestivi racconti leggendari, tra i quali alcuni riportati da Pindaro nei suoi epinici appaiono particolarmente avvincenti. Nella prima delle 14 Odi olimpiche, il poeta narra il mito di Enomao, re di Pisa d'Elide, che era rappresentato sul frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia. Il sovrano, avendogli un oracolo predetto che sarebbe morto per mano del futuro genero, era determinato a impedire le nozze della bellissima figlia Ippodamia. Confidando nella superiorità dei cavalli divini regalatigli da Fetonte, a ogni pretendente proponeva una corsa di carri da Pisa a Corinto, con il patto che se avesse vinto avrebbe sposato Ippodamia, in caso contrario sarebbe stato ucciso. Dopo la morte di tredici aspiranti fu la volta di Pelope, figlio del re frigio Tantalo, che si presentò alla guida di un carro condotto da cavalli alati, donatigli da Poseidone. Scorgendo, però, le teste dei pretendenti sconfitti inchiodate alle porte del palazzo di Enomao, Pelope perse la fiducia nelle proprie possibilità e per essere sicuro di aggiudicarsi la corsa pensò di avvalersi dell'aiuto di Mirtilo, figlio di Ermes e auriga del carro di Enomao, al quale promise di fargli passare una notte con Ippodamia se lo avesse messo in condizione di vincere la corsa. Mirtilo accettò l'offerta e tolse i perni degli assali del carro di Enomao, sostituendoli con pezzi di cera. Durante la corsa, le ruote si staccarono, il carro si rovesciò ed Enomao morì. Pelope, quindi, vinse la sfida ma, non avendo intenzione di mantenere la promessa fatta a Mirtilo, lo gettò in mare. Mentre moriva, Mirtilo lo maledisse e Pelope per sfuggire all'anatema tentò di conciliarsi i favori di Zeus organizzando in suo onore i primi Giochi di Olimpia. Un'altra versione del mito narra che Pelope, dopo aver vinto la mortale sfida con Enomao, sposò Ippodamia e divenne sovrano di Pisa, estendendo il suo dominio su tutta la penisola, cui diede il nome di Peloponneso. Alla sua morte fu sepolto nella valle dell'Alfeo, nella località in cui poi sorse la città sacra di Olimpia. In suo onore si sarebbero svolti i primi Giochi Olimpici, con la partecipazione delle tribù della regione. Una terza tradizione attribuisce la fondazione dei Giochi a Ercole, che li avrebbe istituiti per rendere grazie agli dei dopo aver ucciso Augia, re dell'Elide, che gli aveva commissionato la pulitura delle stalle e si era poi rifiutato di pagargli il compenso pattuito. In quella occasione, fu consegnato ai vincitori un ramo d'ulivo, premio che nel simbolismo olimpico sarebbe diventato l'emblema della vittoria. Numerose altre leggende sono state tramandate riguardo alle origini dei Giochi Olimpici, quasi tutte d'ispirazione religiosa, caratteristica che fa comprendere quale fosse la loro importanza cultuale.
Passando dal piano della mitologia a quello della storia, in base alle testimonianze derivate dalle opere di Pindaro e di altri lirici, da frammenti di prose anonime e dagli scritti di autori romani, ma anche dai ritrovamenti archeologici, dalle epigrafi e dai resti monumentali di Olimpia alcuni storici moderni sostengono che almeno dieci secoli prima della nascita di Cristo a Olimpia già si celebravano feste religiose, durante le quali venivano disputate gare di carri in onore di Pelope. A tale epoca risalgono, infatti, alcuni reperti archeologici rinvenuti nella valle dell'Alfeo e costituiti da piccoli carri votivi in bronzo, attrezzati per gareggiare. Non è dunque improbabile ritenere che già intorno al 1° millennio a.C. si siano svolti agoni equestri nel quadro di cerimonie sacre. Questa teoria è stata oggetto di molte critiche e bisogna notare che anche i suoi assertori, tra cui Theodor Mommsen, ritengono che quelle corse fossero un fatto episodico e non avessero un ciclo regolare.
La fonte storica primaria sulle origini dei Giochi è costituita da Pausania, memorialista e geografo vissuto nella seconda metà del 2° sec. d.C. Secondo la sua ricostruzione, confermata da altri studiosi, i Giochi sarebbero nati da un atto politico: l'accordo tra due re per fare di Olimpia un territorio neutrale e delle Olimpiadi il simbolo di una tregua politico-militare. L'autore ricostruisce la storia del Peloponneso e in particolare della regione ove sorgeva il santuario di Olimpia, risalendo all'epoca in cui il territorio era abitato dalle tribù degli elei, dei cauconi e degli epei, la cui principale risorsa era costituita dagli allevamenti di cavalli e bestiame, utilizzati per scambi commerciali con i mercanti cretesi e fenici che risalivano l'Alfeo con le loro barche sino a Olimpia. Queste tribù non vivevano in città vere e proprie, ma in villaggi non fortificati: per gli invasori dori fu agevole impadronirsi del loro territorio e costringere gran parte di loro a emigrare. Solo con l'avvento di Oxilo, re degli etoli, la regione trovò una sua pacificazione e le correnti migratorie si arrestarono. Risalirebbe a quest'epoca (11° sec. a.C.) l'istituzione dei primi giochi locali. Ben presto tuttavia si riaccesero i conflitti tra gli elei, i pisati e altri popoli confinanti. Per tentare di porvi fine il re dell'Elide, Ifito, stipulò un patto di tregua con Licurgo, re di Sparta, ottenendo che il suo regno fosse riconosciuto territorio sacro e inviolabile. Ifito avrebbe poi istituito o ripristinato agoni atletici a Olimpia per ringraziare gli dei. La notizia del patto tra Ifito e Licurgo, avallata anche da Plutarco, trovava conferma nell'iscrizione incisa in un disco bronzeo custodito nel tempio di Hera, nel sacro recinto dell'Altis: la scritta, ancora leggibile ai tempi di Aristotele, citava i nomi di Ifito e di Licurgo. Del disco ci è giunta la descrizione sempre attraverso Pausania: "Il disco di Ifito ... contiene per iscritto il testo della tregua che gli elei bandiscono per i giochi olimpici, e la scritta non compare in versi continuati, ma le lettere girano in figura di cerchio sul disco medesimo". Aristotele definì il disco di Ifito "il monumento più importante della storia del Peloponneso".
Non fu facile ottenere l'estensione del patto di tregua ad altri popoli confinanti. È incerto se Cleostene, re di Pisa, citato nella Historia Greca di Flegone di Tralle e in un paragrafo della Repubblica di Platone, aderì all'accordo immediatamente o successivamente. Alla terza Olimpiade ci fu l'adesione della Messenia e, progressivamente di altre pòleis. Bisognerà attendere il 7° sec. a.C. per vedere il patto rispettato e accettato nell'intera Ellade.
La tesi più consolidata, secondo la quale la prima edizione delle Olimpiche ebbe luogo nell'8° sec. a.C., si fonda soprattutto sugli scritti di Timeo, storico greco vissuto tra il 4° e il 3° sec. a.C. e autore di opere in gran parte tramandate da Polibio. Timeo compì un minuzioso lavoro di ricerca, confrontando le liste degli efori, dei re spartani, degli arconti ateniesi e delle sacerdotesse di Argo, con gli elenchi dei vincitori olimpici redatti da Ippia di Elide e aggiornati da Aristotele. Riuscì, così, a ricostruire tutte le edizioni dei Giochi sino ad allora disputate, ricavandone un vero e proprio calendario, utilizzabile come riferimento storico. Accertato che il primo anno dell'era cristiana coincide con la CXCV Olimpiade e facendo il calcolo a ritroso, quattro anni per quattro anni, grazie allo studio effettuato da Timeo, l'inizio dei Giochi Olimpici va fatto risalire a 776 anni prima della nascita di Cristo. Secondo Mommsen il 776 va considerato, più che la data di fondazione, quella che segna la trasformazione dei Giochi da gare occasionali e locali a massimo agone atletico dell'antica Grecia.
Il mondo ellenico pose il 776 a.C. all'inizio di un ciclo storico-politico comune a tutte le pòleis greche, facendone l'anno di origine della propria storia. Il calendario greco prendeva infatti le mosse da quella data, chiamando Olimpiade il periodo di quattro anni intercorrente tra un'edizione e l'altra. Comunemente si diceva che una persona era vissuta o morta durante questa o quella Olimpiade e, per maggiore efficacia mnemonica, per un determinato periodo ciascuna edizione prese il nome dal vincitore della gara dello stàdion.
Fondamentali per una ricostruzione cronologica dei Giochi sono gli antichi elenchi degli atleti che conquistarono gli allori olimpici. Durante i primi due secoli non si teneva una sistematica documentazione epigrafica e si ignora quale fosse il sistema adottato dai sacerdoti di Olimpia per tener nota dei vincitori. È comunque indiscutibile che a Olimpia si facesse uso della scrittura sin da epoca remota, come si rileva dalle iscrizioni del disco di Ifito e dai decreti degli elei sulla tregua sacra, risalenti al 7° sec. a.C. Alla fine del 5° sec. a.C. il filosofo e retore greco Ippia di Elide controllò gli archivi del Bouleterion, ove si riuniva il Gran Consiglio degli elei, e recuperò i nomi dei vincitori, originariamente custoditi nell'antico tempio di Hera. Plutarco era molto scettico sull'accuratezza di tali ricerche e in base alle sue perplessità anche alcuni studiosi moderni non danno credito ai risultati del lavoro di Ippia e, quindi, alla lista degli olimpionici redatta prima del 6° secolo. Nel 350 d.C. Aristotele, che intraprese il disegno di ricostruire la storia dell'Ellade attraverso le feste panelleniche, procedette a una revisione degli elenchi. Il filosofo prese come base delle sue ricerche il lavoro di Ippia e ne aggiornò la collocazione temporale, che si rivelò fondamentale anche per la cronologia antica. Gli archivi di Olimpia e le documentazioni originali di Ippia e Aristotele sono andati perduti, ma è stato possibile rilevare tracce consistenti delle ricerche dei due studiosi in molte fonti letterarie successive. L'elenco dei vincitori fu, in seguito, revisionato dagli Alessandrini, da Filocopo e infine, ai tempi dell'imperatore Adriano (2° sec. d.C.), da Flegone di Tralle, il quale controllò e pubblicò il registro olimpico facendone il punto di riferimento cronologico per gli anni dal 576 a.C. al 137 a.C. La lista fu successivamente completata da Giulio Africano e da Eusebio, vescovo di Cesarea, che la aggiornò sino al 217 d.C.
Quando le Olimpiadi furono ufficialmente istituite i greci vivevano in un'area geografica relativamente limitata, che si estendeva dalla parte meridionale della penisola balcanica alle isole dell'Egeo, sino a lambire le coste dell'Asia Minore. In quel periodo ebbe inizio un vivace movimento migratorio che ebbe come meta, fra l'altro, la Sicilia ove i corinzi nel 734 a.C. fondarono Siracusa. Sei anni dopo i megaresi edificarono una nuova Megara, al di là delle colline di Ibla e, un secolo più tardi, le due Megara si unirono per colonizzare Selinunte. Gela fu fondata invece dagli abitanti di Rodi e Creta. Nell'Italia meridionale gli achei diedero vita alle ricche città di Sibari, Crotone e Metaponto. Un secondo flusso migratorio portò i greci a nord sino a Marsiglia, per discendere sino alla penisola iberica. A sud si insediarono sulle sponde dell'Africa settentrionale sino a Cirene in Libia; a nordest si spinsero fino alle coste del Mar Nero. Le nuove città erano comunità autonome dalle pòleis di provenienza, ma si consideravano greche a tutti gli effetti: stessa lingua, stessi dei, stessi riti, stessa organizzazione della vita culturale e quindi anche stesso diritto di partecipare, in condizioni di parità, alle Olimpiadi.
Per oltre quattro secoli dalla loro istituzione, i Giochi Olimpici si svolsero in contesto politico costituito unicamente dalle comunità greche. La fase successiva, che ebbe un'importanza notevole per quanto riguarda i criteri di partecipazione ai Giochi, iniziò quando si accrebbe la pressione dei macedoni sulla Grecia. Benché avessero in comune con i greci l'etnia e la lingua, i macedoni erano considerati barbari ed era per questo motivo che i loro re cercarono di diffondere la cultura greca tra i loro sudditi, fra l'altro incoraggiando e sostenendo le feste panelleniche. L'ammissione alle gare olimpiche significò il loro diritto di essere considerati greci a tutti gli effetti. Nel 338 a.C. Filippo II il Macedone sconfisse la coalizione greca guidata da Atene e marciò contro il Peloponneso. Dopo aver sottomesso Sparta, riunì tutte le pòleis greche a Corinto e costituì la Lega degli Elleni per preparare la guerra contro i persiani. Alla sua morte per assassinio due anni dopo, il giovane figlio Alessandro ne riprese i progetti avviando una spettacolare serie di conquiste, che lo portarono a dominare un immenso territorio dall'Egitto ai confini dell'India. Ne seguì la costituzione di nuovi Stati territoriali legati alla Grecia e retti dai generali di Alessandro e dai loro discendenti. Contemporaneamente greci e macedoni costituirono colonie in Egitto e Siria. Furono queste trasformazioni politico-militari a creare le premesse per l'apertura delle porte di Olimpia anche ai nuovi adepti greco-macedoni: i Giochi non erano più solo un patrimonio degli elleni, ma erano diventati ecumenici e quella che era considerata la più ellenica delle feste si trasformò in una rassegna agonistica di atleti provenienti da gran parte del mondo allora conosciuto.
La terza fase, quella finale, fu di nuovo contraddistinta da una conquista, questa volta a opera dei Romani. L'avvio dell'occupazione partì dalla Sicilia, a cominciare dagli ultimi anni del 3° sec. a.C., per concludersi nel 146 a.C., anno in cui l'Ellade fu trasformata in provincia romana. La prassi seguita da Roma non prevedeva disegni di integrazione politica e culturale dei territori occupati e lo Stato, pertanto, continuò sempre a rimanere diviso tra la parte occidentale di cultura latina e quella orientale greca, comprendente anche la Sicilia e la Magna Grecia. Per questa ragione gli antichi Giochi non furono mai adottati dal mondo latino o piegati alla volontà del conquistatore. Ci fu solo un tentativo di Silla di trasferire le gare a Roma, ma fu un fatto episodico di cui a stento si rileva traccia. È per questo motivo che gli atleti dei Giochi, salvo poche eccezioni, provenivano esclusivamente dalle regioni greche dell'impero romano. I competitori non greci furono aristocratici, emigrati al seguito degli eserciti e più o meno ellenizzati, oppure sovrani e generali affascinati dalla fama dei Giochi e dalla gloria che una vittoria olimpica recava loro.
Altro aspetto rilevante nel rapporto tra la storia politica dell'Ellade e quella olimpica è il fatto che le città greche, nonostante avessero perduto la loro autonomia, dopo l'occupazione romana non persero il loro ascendente sull'orgoglio dei cittadini. Anche nel periodo di maggiore declino dei Giochi, quando erano andati perduti valori e riferimenti ideali, i vincitori olimpici amavano identificarsi con la propria città e con la propria gente.
Fatte queste premesse, è più agevole comprendere l'evolversi dei Giochi Olimpici per quanto concerne la partecipazione degli atleti. Scorrendo la lista dei vincitori e le loro città di origine, si ripercorre in parallelo la storia dell'Ellade, così come l'abbiamo succintamente esposta. La prima competizione dei Giochi vide in gara corridori delle due vicine città di Pisa ed Elide e la vittoria andò a un atleta di Elide di nome Koroibos, come attesta Pausania. Le Olimpiche persero presto il loro carattere locale, per trasformarsi in una festa di tutto il Peloponneso e più tardi, dell'intera Grecia e delle sue colonie. Nella III Olimpiade, il vincitore nella corsa fu un atleta proveniente dalla Messenia, regione del Peloponneso sudoccidentale che nelle prime undici edizioni dei Giochi si aggiudicò ben sette vittorie sempre nella corsa. Nella VI Olimpiade prevalse un atleta di Dime, la più occidentale delle pòleis dell'Acaia. Man mano che le Olimpiche affermavano il loro carattere panellenico, nella lista degli olimpionici figurarono atleti di Cleone, Corinto, Megara, Sparta, Epidauro, Sicione, Atene, Tebe, tutte città comunicanti con Olimpia attraverso l'istmo di Corinto.
Nel 720 a.C. fecero la loro apparizione in veste di vincitori gli spartani: con Akanthos si aggiudicarono la corsa di resistenza (dòlichos), inserita per la prima volta nel programma. La lunga lista dei successi spartani continuò sino alla L Olimpiade (580 a.C.), dopo di che scomparvero quasi del tutto. Secondo Aristotele, la superiorità di Sparta, durata un secolo e mezzo, fu dovuta all'adozione di una sistematica attività di preparazione fisica, con finalità precipue di addestramento militare. Fu con l'avvento degli spartani che i Giochi, monopolio di classi privilegiate, entrarono in contatto con lo spirito democratico dell'epoca. L'antico carattere aristocratico sopravvisse solo nelle corse dei carri e in quelle a cavallo, che offrivano a re, nobili, tiranni, imperatori e generali la possibilità di fare sfoggio delle loro ricchezze e della loro potenza. L'educazione greca seguì molto da vicino l'esempio spartano; all'inizio del 6° secolo Solone emise specifici regolamenti per il funzionamento delle palestre e dei ginnasi.
Nel 696 a.C. fra gli olimpionici comparvero gli atleti ateniesi, che successivamente sarebbero stati incoraggiati dalle ricompense in denaro previste dalla già citata legge emanata da Solone per premiare i vincitori dei giochi panellenici. A quest'epoca risale anche la massiccia partecipazione di atleti delle colonie greche del Mediterraneo e in particolare della Sicilia. Queste presenze testimoniano l'espansione in tutto il mondo ellenico dell'ideale unitario cui i giochi Olimpici si ispiravano. Il primo colono vincitore a Olimpia fu Onomastos di Smirne (688 a.C., XXIII Olimpiade), cui venne anche riconosciuto il merito di aver compilato le prime regole per disciplinare i combattimenti nella specialità del pugilato, che per lungo tempo rimase appannaggio dei greci delle colonie. Nel 6° sec. a.C. il primato di campioni provenienti dalla Magna Grecia riguardò in particolare Crotone, sede di un rinomato centro di specializzazione agonistica. Questa scuola, dopo quella di Sparta, utilizzava allenatori e metodi di addestramento molto avanzati e fu resa celebre dalla presenza di famosi medici come Callifonte, Democede e in particolare Alcmeone, al quale va il merito di aver studiato in maniera approfondita gli effetti fisiologici degli esercizi fisici e la loro importanza sulla struttura fisica degli atleti. Alcmeone e Democede istituirono la prima vera scuola medica su basi scientifiche a supporto di quella atletica. Nel 616 a.C. (XLI Olimpiade) il primo vincitore del pugilato per ragazzi fu un oriundo di Sibari; nella XLVI si affermò nello stàdion per ragazzi un atleta di Mileto, Polymestor; da Samo proveniva Pythagoras, vincitore nel pugilato nella XLVIII edizione.
Le colonie ebbero un progresso così rapido e così qualificato che, a partire dalla L edizione (580 a.C.), superarono la madre patria. La loro supremazia fu tale che il secolo successivo fu denominato il secolo coloniale di Olimpia. In particolare i crotonesi dominarono incontrastati le corse di velocità nella LI Olimpiade, piazzando ben sette corridori ai primi posti nella gara dello stàdion. Era originario di Crotone anche il lottatore Milone, riconosciuto come il più grande campione dell'antichità, vincitore, a partire dal 540 a.C., di sei Olimpiche, sei Pitiche, dieci Istmiche e nove Nemee: curriculum mai eguagliato. Le affermazioni dei crotonesi continuarono con regolarità per circa un secolo; su 25 edizioni dei Giochi, per ben 18 volte la città della Magna Grecia si impose con un suo atleta. Dopo il predominio dei crotonesi, per varie edizioni nessuna città riuscì a prevalere decisamente sulle altre; è questa l'epoca durante la quale i Giochi conobbero il loro migliore momento di penetrazione in paesi sempre più lontani. Nel 5° sec. a.C. (XCIII Olimpiade) si affermò il primo macedone, Archelaos, proprietario di una quadriga. Un altro macedone, l'illustre Filippo II, colse la corona olimpica nel 356 a.C. (CVI edizione). Il re, seguendo l'esempio dei tiranni siciliani, a ricordo dei suoi allori olimpici, fece coniare delle monete con l'effige di un cocchio.
Nel 72 a.C. (CLXXVII edizione) comparve tra i nomi dei vincitori il primo atleta di provenienza incerta, ma dal nome sicuramente latino: Gaios, che si affermò nella corsa del dòlichos. Negli anni a seguire si sarebbero distinti altri olimpionici di origine romana, tra i quali si ritrovano alcuni dei più illustri nomi della storia di Roma: il futuro imperatore Tiberio, nella CXCIV Olimpiade colse l'alloro nella corsa delle quadrighe; venti anni dopo, si affermò nella stessa prova il generale latino Germanico. Nel 67 d.C. fece il suo trionfale ingresso, sul 'palcoscenico' di Olimpia, Nerone. Acclamato imperatore a 17 anni, aveva sempre coltivato la smodata bramosia di trionfare nei Giochi greci nella duplice veste di atleta e artista e frequentava quotidianamente lezioni di cetra e canto presso il musico Terpno, per prepararsi alle competizioni. Istituì in Roma le feste neroniane che prevedevano agoni musicali, atletici e ippici, in emulazione con i Giochi greci. Gli elei, violando la protocollare cadenza quadriennale dei Giochi, spostarono di due anni la CCXI Olimpiade, prevista nel 65, per consentire a Nerone di essere presente e fu lui infatti il personaggio trionfante di quell'edizione. A Olimpia i giudici gli assegnarono la vittoria nelle sei specialità nelle quali volle cimentarsi: corsa di carri, quadriga con puledri, concorsi per araldi, tragedi, citaredi e in una gara disputata per la prima e l'ultima volta, per imposizione dell'imperatore, il tiro a dieci cavalli. Nerone raccolse complessivamente, nell'insieme dei giochi panellenici, 1808 corone, superando così Teogene che, in ventidue anni di attività, ne aveva conseguite 1400. L'imperatore, dopo aver depredato Olimpia di centinaia di opere d'arte e aver fatto distruggere, per gelosia, molte statue di vincitori, ripartì per Napoli dove fu salutato con i più stravaganti onori mai tributati a un olimpionico. Una breccia fu aperta nelle mura della città per consentirgli l'ingresso trionfale su un cocchio tirato da cavalli bianchi. La stessa pittoresca coreografia fu ripetuta ad Anzio e ad Albano. Il suo ingresso a Roma fu ancora più teatrale. Lo storico greco Dione Cassio, nella sua Storia romana, narra che Nerone si fece precedere da manipoli di legionari che recavano centinaia delle sue corone olimpiche, mentre gli araldi proclamavano, uno per uno, i suoi trionfi. Gli viene anche attribuita un'altra stravaganza l'invenzione della claque, nella fattispecie un coro di giovani plebei appositamente reclutati e istruiti per applaudire in maniera preordinata durante gli spettacoli. Questi plauditori professionali venivano distinti in gruppi a seconda delle voci e delle diverse specie di acclamazioni. Il primo gruppo era formato dai bombi, specialisti in ovazioni rumorose, il secondo era costituito dagli imbricii che si esprimevano con applausi e grida più composte, il terzo (testae) era addetto alle grida sillabate molto diffuse negli stadi moderni.
I Giochi Olimpici seppero sopravvivere non solo a Nerone ma anche ai drammatici eventi che si susseguirono nei successivi tre secoli e che colpirono la Grecia con alterne vicende. Le gare Olimpiche si conclusero nel 369 d.C. con la CCLXXXVII edizione, anche se il verdetto finale che avrebbe posto fine alla storia dei Giochi sarebbe stato emesso nel 393 d.C. L'ultimo evento agonistico portò alla ribalta un barbaro, l'armeno Varazdate, che vinse nel pugilato. Il suo nome chiude la lista degli olimpionici dell'antichità.
L'atto politico più rilevante correlato ai Giochi di Olimpia era la proclamazione della tregua (ekecheirìa), indetta nei mesi antecedenti l'inizio delle gare e divulgata dai cosiddetti spondophòroi, "messaggeri di pace", sacri e inviolabili araldi scelti tra i membri delle famiglie aristocratiche. Questi ambasciatori avevano l'incarico di propagandare il sacro culto olimpico in tutta la Grecia. Il loro annuncio serviva a ricordare a tutti non solo la data dei Giochi, che non era mai la stessa e variava in base a calcoli astrologici, ma anche la proclamazione della tregua sacra.
Secondo alcuni studiosi, l'origine di questo istituto si deve collegare all'armistizio che veniva a interrompere le battaglie per consentire il recupero e la sepoltura dei cadaveri. È verosimile che questa pratica venisse poi estesa ai giochi panellenici. Uno dei principali riferimenti letterari è ancora una volta l'opera di Pausania e la sua descrizione del disco di Ifito, con l'iscrizione commemorativa del patto tra il re dell'Elide e quello di Sparta. Gli effetti dell'intesa dei due sovrani si estesero a tutti gli Stati che inviavano atleti e delegazioni a Olimpia e, un po' per volta, a tutto il mondo greco. Un altro riferimento letterario è contenuto nel Panegirico di Isocrate, in cui il celebre oratore auspica una federazione panellenica come alleanza politico-militare per difendere i greci e la loro civiltà dai barbari e indica nei Giochi Olimpici l'occasione ideale per sollecitare un'unione tra tutte le pòleis. In particolare Isocrate si sofferma sulla tregua olimpica, invitando i greci ad apprezzarne il significato simbolico al di là dell'ambito territoriale e delle ragioni della sua proclamazione. Sul significato della tregua olimpica si sofferma anche Erodoto, che nelle Storie scrive che i greci, per rispettare l'armistizio, avrebbero addirittura interrotto la battaglia delle Termopili, lasciando increduli i soldati persiani.
Malgrado questi riferimenti letterari, che peraltro trovano riscontro in altre fonti, gli studiosi moderni sono molto dubbiosi sull'interpretazione da dare ai contenuti e alle finalità della ekecheirìa. Sino a qualche tempo fa l'opinione consolidata era che la tregua olimpica fosse una sorta di armistizio generale: si interrompevano i conflitti in corso e tutti gli eserciti sospendevano le azioni belliche, senza condizioni e senza limitazioni di tempo e di luogo, nel rispetto sacrale dell'evento olimpico. Alla tregua olimpica così intesa come espressione simbolica di un armistizio di pace legato a una celebrazione sportiva si rifece Pierre de Coubertin, per il quale uno dei motivi ispiratori dell'idealismo olimpico da lui rifondato e rinnovato era quello di dare con la riorganizzazione dei Giochi Olimpici un contributo alla comprensione tra i popoli e alla costruzione di un mondo più pacifico. De Coubertin si rese interprete di questo sentimento nel suo discorso radiofonico I fondamenti filosofici del moderno spirito olimpico, tenuto alla vigilia dei Giochi di Berlino del 1936, in cui riferendosi al clima politico dell'epoca che preannunciava la tragedia culminata nello scoppio della Seconda guerra mondiale, dichiarò con enfasi: "l'Umanità sarebbe felice se, come ai tempi dell'antica Grecia, nel mezzo di una guerra, gli eserciti nemici interrompessero per un momento le loro battaglie, per celebrare e onorare i Giochi Olimpici". I principali teorici dell'olimpismo moderno hanno cercato anch'essi di accreditare l'intento pacificante delle Olimpiadi, ricordando che le feste di Olimpia erano al servizio di un'idea di pace che trovava la propria esaltazione nell'ekecheirìa.
Recentemente, però, gli studiosi, anche grazie a una più scrupolosa analisi delle fonti storiche e letterarie, hanno assunto nei confronti dell'antica tregua una posizione più critica e differenziata rispetto al passato, mettendo in discussione l'equivalenza tregua olimpica=pace universale e sostenendo che l'ekecheirìa avesse effetti molto più limitati nel tempo, nello spazio e nella portata. Si è già detto come le feste di Olimpia, per gli antichi greci, fossero espressione di una comunanza cultuale e culturale, intesa però come realtà preesistente da rinnovare e non come un progetto politico da perseguire. Di conseguenza anche la tregua olimpica non poteva avere diretti obiettivi politici, ma era da considerare soprattutto un'iniziativa, quasi un espediente, per assicurare il regolare svolgimento dei Giochi.
È d'altra parte impensabile ritenere che il concetto sacrale della ekecheirìa fosse così sentito da imporsi d'incanto a popoli bellicosi che, frantumati in città, villaggi, tribù, divisi da rivalità e odi profondi, erano in costante lotta tra di loro. Un altro indizio che tende a ridimensionare la portata della tregua sacra si fonda sul fatto che in Grecia si svolgevano numerose feste agonali che occupavano praticamente gran parte dell'anno e in particolare i mesi estivi, periodo nel quale più sovente si intraprendevano azioni militari. In occasione delle principali feste veniva proclamata la tregua che aveva una durata di due o tre mesi per Olimpia, di quattro mesi per i Giochi Pitici, di sessanta giorni per le feste Eleusine, di un mese per le Panatenaiche. È evidente che se l'armistizio fosse stato scrupolosamente osservato per ciascuna delle manifestazioni in programma, ci sarebbero stati solo brevi intervalli temporali durante i quali poter combattere senza incorrere nelle sanzioni. La storia greca dimostra che così non fu ed è sufficiente ripercorrere la storia di alcuni eventi bellici per verificare che molte battaglie furono combattute in coincidenza delle feste panelleniche. In occasione della XXVIII Olimpiade (668 a.C.) Sparta soffocò la rivolta messenica. Nel 664 a.C. (XXIX Olimpiade) gli stessi elei invasero Dime. Nel 572 a.C. (LII Olimpiade) il re di Elide attaccò e sconfisse Pisa. Nel 480 a.C. (LXXV Olimpiade) si combatterono le battaglie di Salamina e delle Termopili. Nel 422 a.C. Atene invase l'isola di Delo durante il periodo di tregua indetto per i giochi Pitici; Tucidide, che riferisce l'episodio, non fa cenno ad alcuna sanzione. Nel 412 a.C., il re di Sparta, nel corso della XCII Olimpiade, attaccò Chio, alleata di Atene, e l'esercito ateniese, per vendicarsi, invase Corinto; anche in questo caso gli elei non presero provvedimenti, poiché risulta che gli ateniesi parteciparono regolarmente ai Giochi. Nel 394 a.C. il re spartano Agesilao si scontrò con i tebani e i loro alleati sconfiggendoli a Cheronea; dopo la battaglia si recò a Delfi, ove si svolgevano i Giochi Pitici, per ringraziare Apollo; anche in questa circostanza, agli spartani fu consentito di gareggiare.
Senofonte riferisce di una sensazionale violazione della ekecheirìa verificatasi nel 4° sec. a.C. Nel 399 a.C. Agide di Sparta attaccò l'Elide per obbligarla a riconoscere l'indipendenza della Trifilia e dell'Arcadia, ma anche per punirla della sua alleanza con Atene durante la Guerra del Peloponneso. Gli elei furono presto sottomessi e dovettero concedere l'autonomia alle due regioni con le quali erano in conflitto, ma gli spartani, nonostante le pressioni dei pisati, non li privarono della direzione dei Giochi Olimpici per non aumentare l'autorità politica dell'Arcadia e della Trifilia. Dopo alcuni anni, nel 365 a.C., gli elei cercarono una rivincita attaccando Lasione, una città fortificata ai confini dell'Arcadia, ma furono respinti. Gli arcadi si vendicarono e invasero l'Elide, occupando Olimpia in armi. I pisati, protetti dall'esercito arcadico, diressero l'Olimpiade del 364 a.C. (la CIV). Fu in questa occasione che si verificò la più grave violazione della tregua olimpica, con la riscossa degli elei e dei loro alleati achei che penetrarono in Olimpia attaccando l'esercito arcadico. Lo scontro, entrato nella storia come 'la battaglia dell'Altis', costrinse gli ellanodici a sospendere l'ultima gara in programma, il pentathlon. Gli elei, che non riuscirono a scacciare il nemico dalla città sacra e si ritirarono, non subirono nessun provvedimento e i pisati, la cui presidenza sarebbe stata di breve durata, si preoccuparono solo di completare le gare di quella Olimpiade. Due anni dopo gli arcadi, non volendo essere considerati sacrileghi profanatori dei luoghi sacri, riconsegnarono agli elei la direzione delle Olimpiche.
L'elenco delle violazioni potrebbe proseguire, ma gli episodi citati sono sufficientemente significativi per escludere che la tregua olimpica presso gli antichi greci potesse avere il significato e la valenza di un armistizio generale. I greci del resto hanno sempre utilizzato la parola ekecheirìa, che letteralmente vuol dire "sospensione delle ostilità", e mai usato la eirène, che significa inequivocabilmente "pace". La tregua sacra, dunque, come l'ha ben definita lo storico Manfred Lammer, può essere considerata "una proclamazione, formalmente concordata, di inviolabilità delle regioni ove si svolgevano le feste religiose ed i giochi ad essi collegati e di incolumità di tutti coloro che vi prendevano parte: atleti, allenatori, delegazioni e spettatori". Per quanto riguarda i suoi elementi base, Lammer ne individua tre. Il primo si riferisce alla sua sacralità (hieròs) e quindi all'inviolabiltà, permanente e universalmente riconosciuta, del territorio di Olimpia. Dapprima l'estensione di questa neutralità all'intero territorio dell'Elide costituì un evento eccezionale, ma tale diritto può ritenersi definitivamente acquisito nel 570 a.C., dopo una lunga serie di lotte degli elei contro i pisati. Polibio racconta che l'Elide grazie alla neutralità di cui godeva non fu obbligata a fortificare le città, non dovette tenere un esercito in armi, non fu coinvolta nei conflitti così frequenti tra le pòleis greche e non partecipò alla difesa del territorio quando l'intera Grecia dovette impegnarsi contro un nemico esterno. Per quanto è noto, l'inviolabilità di Olimpia e dell'Elide, nell'età arcaica e classica, fu generalmente rispettata, con le uniche eccezioni della già citata battaglia dell'Altis tra elei e arcadi e dell'occupazione di Olimpia da parte di Fidone di Argo verso la metà del 4° secolo.
Il secondo elemento insito nel concetto di tregua sacra era il riconoscimento del diritto di asilo per coloro che si recavano a Olimpia. Atleti, allenatori, membri di delegazioni ufficiali e visitatori, nel corso della permanenza a Olimpia per i Giochi e durante il viaggio di andata e ritorno, godevano di una sorta di immunità anche se attraversavano il territorio di una città in guerra con la loro. A conferma di questa tesi può essere citato Tucidide il quale scrive che in occasione della Guerra del Peloponneso, gli atleti, gli accompagnatori e gli spettatori ateniesi potevano attraversare territori ostili per recarsi a Olimpia, senza essere aggrediti.
Il terzo elemento è relativo alle sanzioni previste e concordate contro tutti i violatori di Olimpia o dell'integrità fisica dei partecipanti ai Giochi. Dapprima si trattò di una garanzia spartana, poi tutte le pòleis greche, aderenti alla comunità olimpica, furono obbligate a un'azione solidale contro chi non rispettava il patto. Concorreva a garantire l'ekecheirìa anche il fatto che fosse ritenuta una disposizione divina, in quanto originata da una sentenza dell'oracolo delfico.
La direzione dei Giochi di Olimpia fu oggetto di dispute sanguinose tra i due popoli confinanti che si battevano per il predominio sul territorio della valle dell'Alfeo, ove sorgeva la città sacra: da una parte gli abitanti di Elide, dall'altra quelli di Pisa, con un'intromissione temporanea di Fidone, re di Argo. Le tante lotte sulla titolarità della organizzazione dei Giochi, che videro un'alternanza di eventi, sono descritte nelle opere di Pausania e Strabone. Ambedue concordano sul fatto che le feste Olimpiche all'inizio, sino alla ottava edizione, furono dirette dagli elei. Un primo avvicendamento si ebbe nel 748 a.C. allorché i pisati si rivolsero a Fidone, re di Argo, e con il suo aiuto strapparono la presidenza agli elei. Questi però la riconquistarono immediatamente, mantenendola sino al 668 a.C. (XXVIII Olimpiade), quando scesero in guerra contro la città di Dime e furono così obbligati a cedere nuovamente la titolarità ai pisati che la conservarono sino alla LI Olimpiade. Nel 572 a.C. il re di Elide riaprì le ostilità contro Pisa, attaccò e distrusse la città, devastò la Trifilia e riprese la direzione dei Giochi mantenendola per due secoli. Nel 365 a.C. arcadi e pisati invasero Olimpia e penetrarono con gli eserciti nel sacro recinto dell'Altis, scacciando gli elei; l'anno seguente organizzarono congiuntamente la CIV Olimpiade. Si trattò comunque di un'occasione isolata, poiché l'edizione successiva fu nuovamente affidata agli elei. Questi non riconobbero la CIV Olimpiade, considerandola anolympiàs e cioè mai disputata.
Le Olimpiadi si svolgevano ogni quattro anni in un periodo compreso tra i mesi di Apollonio e di Partenio, fissato dai sacerdoti in base a un complicato calendario religioso. La data prescelta cadeva nel cuore dell'estate, in modo che il giorno centrale, il terzo, durante il quale si svolgevano i riti più importanti, coincidesse con il secondo o il terzo plenilunio dopo il solstizio d'estate. Il periodo era disagevole a causa delle alte temperature, tanto che non erano rari i casi di insolazione, anche mortali (ne fu vittima tra l'altro, durante la LVIII Olimpiade, il vecchio filosofo Talete), in compenso vi era il vantaggio della maggiore lunghezza delle giornate. Alcuni mesi prima della data stabilita per l'apertura dei Giochi, gli ambasciatori (spondophòroi) si recavano in ogni regione dell'Ellade per annunciare l'inizio delle feste, invitare i giovani a partecipare alle gare e le genti ad assistere.
Terminata la fase preparatoria e di divulgazione dell'annuncio, veniva il momento in cui diventavano protagonisti gli atleti. Un mese prima dell'inizio delle gare, i concorrenti dovevano trovarsi a Elide. I ritardatari venivano esclusi dalle gare, a meno che, come precisa in dettaglio Pausania, non avessero una giustificazione valida, quale per esempio una malattia, un naufragio o un assalto da parte di ladroni o di pirati. La decisione sulla ammissione alle gare spettava agli ellanodici, che sottoponevano gli atleti alle formalità del riconoscimento e al controllo della idoneità necessaria per gareggiare. L'identificazione tendeva ad accertare, secondo le regole olimpiche, che i partecipanti fossero di pura discendenza greca, di condizione libera e figli di greci liberi, regolarmente iscritti alle liste civiche della città natale e immuni da condanne penali. L'idoneità fisica veniva invece conseguita partecipando a severi allenamenti, seguiti da prove preliminari, con le quali si accertavano le capacità fisiche e la preparazione atletica dei concorrenti. In questa fase era consentito rinunciare a gareggiare, mentre tale possibilità veniva esclusa, salvo pesanti sanzioni, dal momento in cui iniziavano le prove ufficiali. I testi antichi hanno tramandato pochi casi di atleti ritiratisi dalle competizioni. Il primo di cui si ha memoria risale alla LXXV Olimpiade (480 a.C.), durante la quale il pugile Theogenes di Taso si aggiudicò la finale contro Euthymos di Locri ma, stremato, rinunciò a competere nel pancrazio, malgrado fosse regolarmente iscritto; fu punito con una pesante multa. Un altro caso fu quello di un certo Sarapion che, durante i Giochi della CCI Olimpiade (25 d.C.), intimorito dalla strapotenza e dalla mole dell'avversario, rinunciò a combattere nel pancrazio e venne parimenti multato dai giudici per la sua codardia. Su questo tema si intrattiene Filostrato di Lemmo, retore del 2°-3° sec. d.C., autore del trattato Sull'arte della ginnastica, opera fondamentale per conoscere l'evoluzione dell'agonismo nell'antica Grecia. Filostrato racconta che, al termine del periodo di allenamento, i giudici si rivolgevano ai concorrenti con queste parole: "se vi siete esercitati in maniera da far onore alla festa olimpica e se non vi siete resi colpevoli di atti ignobili, andate con coraggio allo stadio e all'ippodromo, altrimenti andate dove più vi aggrada". Gli atleti, i quali solo in epoca tarda vennero ospitati in una sorta di foresteria, il Leonidaion (350 a.C.), erano sottoposti a una rigida sorveglianza. Le regole prevedevano anche una speciale dieta a base di pane, fichi e formaggio fresco cui, solo più tardi, fu consentito aggiungere una limitata quantità di carne. Al seguito degli atleti giungevano a Olimpia i familiari e gli allenatori. Successivamente arrivavano le rappresentanze ufficiali delle pòleis: autorità, funzionari, scorte non armate, araldi con le insegne con doni per il dio olimpico, costituiti a volte da autentici tesori. Con le delegazioni affluivano migliaia di spettatori, che si accampavano intorno all'Altis.
Olimpia, durante i Giochi, era luogo di convegno per tutti , in un fiorire di iniziative diverse. Oratori, musici e letterati, alla ricerca di un riconoscimento panellenico, si esibivano nell'Altis. Chiunque avesse qualcosa da pubblicizzare si recava presso la città che divenne, così, anche un importante centro di diffusione della cultura ellenica. Luciano ricorda che, dal tempio di Zeus, Erodoto lesse alcuni capitoli della sua storia delle guerre persiane e che Tucidide, presente tra gli ascoltatori, si commosse. Grazie alla tregua olimpica, Olimpia era anche un luogo di ritrovo per uomini politici che coglievano questa occasione per incontrarsi e trattare affari di Stato. I rappresentanti di pòleis in guerra si incontravano per mettere fine alle loro contese e stipulare armistizi, trattati di pace o alleanze, i cui termini venivano comunicati a Olimpia per assicurarne l'immediata diffusione in tutto il mondo greco.
I padroni di casa della piccola Elide non erano in condizione di dare ospitalità alla gran folla dei visitatori. Pertanto questa moltitudine doveva adattarsi accampandosi sotto tende improvvisate o dormendo all'aria aperta. In epoca successiva gli invitati più autorevoli vennero ospitati come gli atleti presso il Leonidaion. Quanto al numero dei visitatori, fonti letterarie precisano che superava di gran lunga la capienza dello stadio, che poteva contenere circa 40.000 spettatori. L'incombenza della direzione e dell'organizzazione dei riti religiosi e sacrificali era affidata a un gruppo di sacerdoti, i theokòloi, i soli autorizzati a risiedere nel santuario olimpico. Oltre ai loro specifici compiti di responsabili delle cerimonie religiose e dei sacrifici, essi assicuravano anche la gestione dei templi. A partire dalla metà del 4° sec. a.C. furono ospitati in un apposito edificio, che prese il nome di Theokoleon. Un compito importante era svolto durante i Giochi anche dagli araldi, che avevano la funzione di annunciatori ufficiali. Dichiaravano, a gran voce l'apertura dei Giochi e proclamavano con enfasi il nome del vincitore, dei suoi genitori e della città natale. Il loro incarico, al pari di quello dei trombettieri, era ritenuto tanto delicato e importante che furono indette vere e proprie competizioni per scegliere i più valenti e, a partire dalla XCVI Olimpiade, le loro esibizioni furono inserite nel programma ufficiale dei Giochi.
Dalla prima alla tredicesima edizione le Olimpiadi consisterono in un'unica gara, quella dello stàdion che, secondo gli antichi, era la sintesi delle doti, non solo atletiche ma anche etiche, del vincitore e dell'intera stirpe cui apparteneva. Successivamente, il programma si arricchì di nuove discipline, a testimonianza della crescente caratterizzazione atletica delle feste. Il conseguente moltiplicarsi delle competizioni e del numero dei concorrenti rese impossibile lo svolgimento del programma in un unico giorno. Pertanto, la durata dei Giochi passò a due giornate nel 680 a.C. (XXV Olimpiade), poi a tre nel 632 a.C. (XXXVII Olimpiade), sino a occupare cinque o, forse, sei giorni, a partire dalla settantottesima edizione (468 a.C.), allorché le Olimpiche raggiunsero la loro organizzazione classica.
La questione della suddivisione delle gare nelle diverse giornate è molto dibattuta, poiché le fonti sono tra loro contrastanti. Alcuni studiosi ritengono affidabili i riferimenti dei Papiri di Ossirinco, rinvenuti alla fine dell'Ottocento da due filologi di Oxford, Bernard Pyne Grenfell e Arthur Surridge Hunt, e conservati presso il British Museum, che contengono varie notizie su Olimpia. In particolare vi compare una lista dei vincitori di alcune edizioni Olimpiche del 5° secolo (LXXV, LXXVIII, LXXXI, e LXXXIII) cui segue un'elencazione delle gare, secondo una progressione che viene mantenuta costante. Si inizia con lo stàdion e si prosegue con il dìaulos, il dòlichos, il pentathlon, la lotta, il pugilato, il pancrazio, le prove riservate ai giovani, le competizioni equestri, per terminare con la corsa con le armi. Tenuto conto che l'ordine delle prove era sempre lo stesso, sulla base anche di altri riferimenti alcuni studiosi hanno creduto di poter ripartire le varie discipline nelle cinque giornate di gara secondo la seguente successione: nel primo giorno si sarebbero disputate le tre corse (stàdion, dìaulos e dòlichos), nel secondo il pentathlon, nel terzo la lotta, il pugilato e il pancrazio, nel quarto le prove per i giovani e nel quinto le gare ippiche e la corsa con le armi. Altri ipotizzano sei giorni di gara così suddivisi: il primo riservato alle prove dei giovani, il secondo alle competizioni equestri, il terzo al pentathlon, il quarto ai riti sacrificali, il quinto alle corse, il sesto alle gare di combattimento: lotta, pancrazio e pugilato.
Notizie meno incerte si hanno sulle cerimonie protocollari che precedevano l'inizio dei Giochi. Le informazioni più particolareggiate pervengono come sempre da Pausania. Pochi giorni prima dell'inizio della festa, gli ellanodici, gli atleti, gli accompagnatori e le delegazioni ufficiali formavano un imponente corteo che muoveva da Elide verso Olimpia, percorrendo la via sacra. La processione sostava sacrificando agli dei nei luoghi previsti dai riti religiosi e dopo due giorni entrava finalmente nella valle dell'Alfeo. Sul limite del recinto sacro dell'Altis, si compivano gli ultimi riti purificatori e i sacrifici a Diana Alfea. La notte veniva trascorsa presso la foce dell'Alfeo e il giorno seguente il corteo faceva il suo ingresso a Olimpia. In testa, preceduti dagli araldi, vi erano i sacerdoti, quindi gli ellanodici, coronati da foglie di ulivo, fiancheggiati dagli alùtai, i responsabili dell'ordine pubblico, armati di sole verghe; seguivano i delegati ufficiali delle pòleis. Finalmente veniva il turno dei protagonisti delle gare: in testa sfilavano gli atleti, prima i giovani accompagnati dai genitori e quindi gli adulti, gli aurighi su carri ornati di fiori, i proprietari dei cavalli e, per ultimi, gli allenatori. Chiudevano la processione gli animali destinati ai sacrifici. Il corteo raggiungeva il recinto dell'Altis e qui, presso la statua di Zeus, i sacerdoti immolavano due buoi, mentre gli atleti pregavano in coro. Il console romano Lucio Paolo Emilio scrisse che lo spettacolo della sfilata, con il suo ingresso nell'Altis e la vista di Olimpia, superava ogni più fertile immaginazione. Terminati i riti religiosi, giungeva la fase solenne del giuramento (hòrkos) che si componeva di due parti: nella prima gli atleti dichiaravano solennemente, davanti a Zeus Horchios, di avere tutti i requisiti richiesti per partecipare ai Giochi e di essersi allenati almeno per dieci mesi consecutivi; nella seconda promettevano di gareggiare nel rispetto delle regole, con lealtà e con onore. Per i minori prestavano giuramento i genitori. Gli stessi ellanodici erano tenuti al giuramento e si impegnavano a decidere secondo giustizia e imparzialità, chiamando a testimoni gli dei. Dopo questa cerimonia si procedeva al sacrificio propiziatorio di cento buoi, che si celebrava su un'ara dedicata a Zeus. I preliminari del primo giorno si concludevano con il sorteggio degli atleti per la composizione dei turni eliminatori.
Nella seconda giornata iniziavano le gare, precedute da un rigoroso protocollo. Entravano nello stadio per primi, scortati dagli araldi, gli ellanodici che prendevano posto presso il traguardo, nella tribuna loro riservata. La sacerdotessa della dea Demetra, unica donna ammessa a Olimpia, prendeva posto su un trono collocato davanti al recinto dei giudici. Quindi facevano il loro ingresso i trombettieri; seguivano per ultimi gli atleti. Un araldo li chiamava e chiedeva ad alta voce se qualcuno dei presenti avesse avuto qualcosa da eccepire sulla loro identità. In origine secondo la tradizione, i concorrenti indossavano un succinto gonnellino stretto da una cintura. Pausania sostiene che l'indumento fu abolito a partire dalla XV Olimpiade, dopo che un atleta, di nome Orsippos (o Orrhippos) di Megara, durante la gara di corsa lo perdette o forse, come osserva l'autore, "se lo tolse poiché un atleta nudo corre più agevolmente". A partire da quella edizione dei Giochi (720 a.C.) si sarebbe deciso di consentire a tutti gli atleti di gareggiare completamente nudi.
Concluse le gare, nella quinta giornata si svolgevano le cerimonie di premiazione dei vincitori. Gli olimpionici, in corteo, si recavano al tempio di Zeus dove gli araldi, allo squillo di cento trombe d'argento, pronunciavano ad alta voce il loro nome, facendolo seguire da quello del padre e della città natale. Gli atleti ricevevano dagli ellanodici una corona di olivo e le ghirlande, prelevate dal tavolo d'oro e d'avorio custodito nel tempio di Hera, venivano poste sul capo dei vincitori dal più anziano dei giudici, l'alutàrkes. Dopo questa incoronazione, che costituiva il più alto riconoscimento che un atleta potesse conseguire nell'antica Grecia, gli atleti olimpionici compivano un giro dello stadio per ricevere le acclamazioni degli spettatori. Era una proclamazione solenne che, dopo il 6° secolo, si concretizzò nell'erezione in Olimpia, di una statua in onore dei vincitori. Secondo alcuni autori questo privilegio spettava esclusivamente a coloro che avessero trionfato in tre gare o che si fossero affermati nel pentathlon. In realtà furono erette a Olimpia molte statue per celebrare i vincitori di singole gare, senza ulteriori requisiti. La cerimonia di premiazione doveva costituire un momento particolarmente emozionante, al punto che un olimpionico di nome Eneto si accasciò, fulminato dalla gioia ai piedi del tempio di Zeus mentre veniva incoronato, e che il filosofo Chilone fu stroncato dall'emozione mentre assisteva alla premiazione del figlio.
Al termine delle competizioni, gli ellanodici proclamavano solennemente l'atleta eponimo dei Giochi, colui che aveva l'onore di caratterizzare con il suo nome l'Olimpiade. Questo privilegio, inizialmente accordato al vincitore della gara dello stadio, fu in seguito assegnato all'atleta che aveva più meritato in assoluto. Concluse le cerimonie, gli olimpionici si recavano in corteo all'Altis, accompagnati dai giudici e dalle autorità, con il capo cinto da una bianca benda di lana. Al termine dei Giochi si aprivano colossali banchetti organizzati dalle delegazioni delle varie città. A partire dal 6° secolo, gli ellanodici accoglievano i vincitori presso il Prytaneion e offrivano in loro onore un fastoso ricevimento durante il quale si leggevano poesie glorificatrici delle imprese dei vincitori.
Terminato il rito della premiazione, gli olimpionici si rimettevano in viaggio per le loro città, su carri trainati da bianchi cavalli. Il ritorno in patria era motivo di festa per l'intera comunità; tutti gli abitanti si riversavano nelle strade per ricevere gli illustri concittadini e accompagnarli presso i templi ove venivano offerti sacrifici agli dei che avevano propiziato le vittorie. Le imprese degli olimpionici sovente erano scolpite su colonne di pietra; loro statue venivano innalzate nei punti centrali della città, affinché fossero da esempio ai posteri. Nelle ricche pòleis occidentali la celebrazione del vincitore prese, con il passare del tempo, le forme più inusitate e stravaganti. Exainetos, che vinse la corsa delle quadrighe nella XCII Olimpiade (412 a.C.), rientrò ad Agrigento con una scorta d'onore di 300 bighe tirate da cavalli bianchi e guidate dai nobili della città. Plinio e Strabone scrivono che Euthymos di Locri, che vinse nel pugilato nella LXXIV, LXXVI e LXXVII Olimpiade (484, 476, 472 a.C.), fu adorato come un semidio quando ancora era in vita; racconta la leggenda che, per punire questa scellerataggine, Zeus abbatté con fulmini le sue statue a Locri e a Olimpia.
La direzione dei Giochi Olimpici e l'applicazione dei regolamenti erano affidate a due distinti organismi. Il primo, era costituito dal corpo di giudici denominati ellanodici (ellanodìkai, "giudici dei greci"), scelti tra cittadini appartenenti alle famiglie aristocratiche degli elei particolarmente stimati per autorevolezza e condotta irreprensibile. Rappresentarono, nella storia dei Giochi di Olimpia, un'istituzione famosa per il comportamento ispirato a severità e neutralità. Sulla loro incorruttibilità non fu mai espresso alcun dubbio. Si ha notizia di un solo cedimento all'epoca della partecipazione di Nerone ai Giochi della CCXI Olimpiade, quando tollerarono lo spostamento della data di svolgimento delle Olimpiche e consentirono all'imperatore di aggiudicarsi, violando le regole, numerosi allori. La loro condotta fu aspramente censurata, ma venne giustificata dagli storici per l'evidente stato di soggezione in cui versavano nei confronti dell'illustre concorrente. Quella edizione dei Giochi fu in seguito annullata dagli elei, che la considerarono come mai disputata. I casi in cui l'autorità dei giudici fu messa in discussione furono rari. La prima contestazione della quale si ha notizia avvenne quattro secoli dopo l'inizio dei Giochi, nel 396 a.C. (XCVI Olimpiade), quando il corridore Leon di Ambracia incolpò gli ellanodici di aver favorito la vittoria dell'avversario Eupolemos di Elide. Un secondo caso, molto più grave, si verificò nel 332 a.C., durante la CXII edizione, quando due atleti in gara nella prova del lancio del disco vennero accusati di corruzione e multati; uno dei due concorrenti, l'ateniese Kallippos, fu espulso dai Giochi e, per protesta contro la decisione degli ellanodici, la squadra ateniese abbandonò le gare.
I giudici, durante i Giochi, indossavano preziose tuniche color porpora, simbolo del loro rango elevato e avevano la testa coronata da foglie di olivo, la pianta sacra di Olimpia. Durante le cerimonie vi era una tribuna loro riservata, posta di fronte all'altare custodito dalla sacerdotessa della dea Demetra. I primi Giochi furono diretti da un solo giudice; poi, a partire dalla LIII edizione (568 a.C.), dopo l'alleanza tra Pisa ed Elide, ne furono eletti due, uno per ciascuna città. Nel 480 a.C., dopo la battaglia di Platea e la sconfitta dei pisati, i due ellanodici, che rappresentavano il duplice controllo delle feste, furono sostituiti da un Consiglio di nove, uno per ciascuna delle tribù elee. Con il crescere delle tribù il numero dei giudici fu portato a dieci dalla LXXVII Olimpiade (472 a.C.) per ammettere il rappresentante della Trifilia e a dodici in occasione della CIII Olimpiade (368 a.C.). Successivamente, gli elei, sconfitti dagli arcadi, persero una parte del loro territorio e le tribù si ridussero a otto; di conseguenza, anche il numero degli ellanodici fu ridimensionato. La composizione tornò a dieci nel 348 a.C. e non fu più modificata.
Gli ellanodici, nello svolgere le loro funzioni, erano divisi in tre collegi, ciascuno dei quali era incaricato di dirigere e controllare un gruppo di discipline: le corse ippiche, le gare di combattimento e le prove atletiche. I complessi compiti affidati ai giudici presupponevano una perfetta conoscenza di tutte le regole olimpiche. Pertanto, dieci mesi prima della celebrazione dei Giochi, essi erano sottoposti a un intenso tirocinio sotto la guida dei nomophylàkes ("guardiani della legge"), responsabili dell'insegnamento delle norme olimpiche e della loro interpretazione. Gli ellanodici avevano il compito di verificare che gli atleti fossero di origine greca e di condizione libera e di accertare l'età e l'idoneità fisica dei partecipanti, avendo la facoltà di escludere dai Giochi un atleta non ritenuto fisicamente in grado a sostenere gli sforzi richiesti dalle competizioni. Per quanto riguarda l'età gli studiosi hanno molto discusso su quale fosse il limite anagrafico per essere ammessi a gareggiare, facendolo oscillare fra i 14 e i 19 anni. Nelle Olimpiadi, a differenza di altre feste panelleniche o locali ove erano previste tre o quattro categorie di concorrenti, esisteva solo una distinzione tra ragazzi (paidès) e adulti (àndres). Agli ellanodici era affidato, inoltre, l'incarico di far rispettare le norme che disciplinavano lo svolgimento delle competizioni. Queste regole, che venivano tramandate di generazione in generazione, in epoca più tarda furono scolpite su tavole di bronzo custodite nel Bouleuterion. Le leggi olimpiche erano integrate da una serie di disposizioni giuridicamente subordinate, che prendevano il nome di regolamenti. Nel tempo le norme originarie furono emendate per adattarle ai cambiamenti che progressivamente venivano apportati al programma. In conclusione si può affermare che il potere discrezionale degli ellanodici era assoluto.
Il secondo organismo, che sovraintendeva ai Giochi come massimo corpo dirigenziale, era il Gran Consiglio (boulè), costituito solamente nel 4° sec. a.C. I suoi membri, tutti sacerdoti e notabili, erano eletti per un quadriennio, risiedevano a Olimpia ed entravano in funzione dieci mesi prima dell'inizio delle gare. Il loro mandato scadeva al termine del periodo olimpico, ma era consentita la rielezione. Il Gran Consiglio custodiva le regole delle competizioni e aveva anche competenze amministrative: decideva sull'erezione delle statue e sulla imposizione dei tributi. Rappresentava anche una specie di giuria di appello contro le decisioni dei giudici: in caso di ricorso contro un provvedimento degli ellanodici, se accolto, il risultato della gara restava immutato, ma la boulè provvedeva a sostituire o a punire il giudice responsabile dell'errata decisione.
Gli atleti e le rappresentative che violavano le norme e i regolamenti olimpici subivano sanzioni di diversa entità, a seconda della gravità delle infrazioni. Le punizioni si distinguevano in tre categorie: le prime avevano come conseguenza l'espulsione dai Giochi, le seconde prevedevano sanzioni pecuniarie, le terze consistevano in pene corporali. Le sanzioni più gravi, che comportavano l'esclusione dai Giochi, furono applicate agli spartani, espulsi nel 420 a.C. dalla XC Olimpiade, per aver violato la tregua olimpica. Scrive Tucidide nella Guerra del Peloponneso: "i Giochi, durante i quali vinse per la prima volta nel pancrazio Androsthenes di Arcadia, furono vietati ai lacedemoni, poiché si erano rifiutati di pagare la multa che gli elei avevano loro inflitto in virtù dei regolamenti olimpici. Gli spartani furono, infatti, accusati di aver invaso Firco e Lepreo dopo la proclamazione della tregua sacra e, pertanto, furono condannati a pagare una multa di due mine per ogni soldato invasore. I lacedemoni si rifiutarono di obbedire sostenendo, per mezzo di ambasciatori, che la condanna era ingiusta, poiché, secondo loro, la tregua non era stata ancora dichiarata al momento dell'invio della spedizione. Comunque, sostenevano di aver agito in buona fede. Gli elei mantennero, però, ferma la loro decisione ed esclusero, dai sacrifici e dai Giochi, i lacedemoni". È interessante notare che Sparta non osò ricorrere alla forza, ma si limitò a un'azione diplomatica per cercare di ribaltare la decisione degli ellanodici. Fallito il tentativo, sopportò senza ribellarsi l'umiliazione di venire esclusa dai Giochi.
Veniva espulso dalle gare anche l'atleta che causava la morte dell'avversario nelle gare di pugilato o di pancrazio, violando i regolamenti. Le sanzioni pecuniarie erano imposte come pena specifica o come pena sostitutiva di una punizione di altra natura. Con il denaro versato da coloro che avevano commesso infrazioni venivano realizzati gli Zànes, piccole statue di bronzo raffiguranti Zeus, che venivano poste lungo la via d'accesso allo stadio come ammonimento per i competitori che si recavano sui campi di gara. Sulla loro base veniva inciso il nome dell'atleta punito e del suo paese d'origine, con iscrizioni in distici elegiaci. Una delle scritte ammoniva: "non è col denaro, ma con le gambe veloci e il corpo robusto che si conquista la vittoria olimpica". Nel caso in cui gli atleti non si trovassero nelle condizioni di pagare la multa, l'onere ricadeva sulle rispettive città di origine. Fa testo, a questo proposito, quanto narra Pausania sulla penalità inflitta all'atleta ateniese Kallippos, che fu il primo competitore sicuramente punito per avere "…comperato dai suoi avversari l'alloro del pentathlon". Gli ateniesi rimasero esclusi per ben tre edizioni dai Giochi, finché non pagarono la pesante ammenda per l'infrazione del loro concittadino.
L'esecuzione delle sanzioni corporali era affidata agli alùtai, spesso raffigurati sui vasi panatenaici come uomini armati di lunghi bastoni. Costituivano un vero e proprio corpo di polizia, che, oltre ad assicurare l'ordine pubblico, si occupava delle punizioni fisiche di atleti che infrangevano le regole olimpiche. A quei tempi, venivano puniti con la fustigazione o altre forme di pena corporale solo gli schiavi, per cui questo tipo di sanzione risultava particolarmente mortificante. Su molte pitture vascolari, anche gli allenatori vengono raffigurati con la verga in mano, sicché si è ipotizzato che gli istruttori potessero avvalersi del bastone per punire gli atleti indisciplinati, ma questa tesi è senza riscontri.
Le decisioni degli ellanodici sui casi controversi dovevano essere prese nello spazio di una sola giornata, in analogia a quanto era previsto ad Atene per i procedimenti giudiziari, che dovevano assolutamente concludersi nello stesso giorno in cui venivano iniziati.
Nel mondo greco anche le donne svolgevano attività atletica, con una partecipazione più significativa di quanto le stesse fonti lascino intravedere. Per convalidare questa tesi gli studiosi fanno riferimento ai miti, indicativi di tradizioni popolari consolidate, e a testimonianze letterarie.
Molti miti greci hanno come protagoniste donne impegnate in prove atletiche, prima fra tutte la velocissima Atlanta, o collettività femminili atleticamente dotate come le Menadi, le Nereidi, le guerriere Amazzoni. Fra le fonti letterarie si può ricordare Plutarco che nella Vita di Licurgo fa riferimento alle iniziative del legislatore per favorire l'addestramento fisico delle donne: "Licurgo sollecitò le giovani a esercitare il corpo con la corsa, la lotta, il lancio del disco e del giavellotto". La citazione relativa alla lotta femminile è confermata da Senofonte, che parla di competizioni di lotta che vedevano protagoniste le donne "alla stessa stregua degli uomini". Un ulteriore riferimento letterario è di Filostrato che cita agoni di corsa alla presenza di pubblico riservati alle ragazze.
Nell'insieme queste testimonianze confortano la tesi che, in determinate circostanze, le giovani donne greche praticasssero l'agonistica. Ovviamente doveva trattarsi di un'attività assai limitata, poiché la partecipazione alle competizioni atletiche era comunque privilegio soprattutto degli uomini. Sintomatica era la discriminazione in atto a Olimpia ove alle donne, per lungo tempo, fu impedito non solo di partecipare, ma anche di assistere ai Giochi. Quelle che infrangevano questa regola venivano severamente punite. L'esclusione dalle gare restò in vigore per quattro secoli. Solamente nel 396 a.C. (XCVI Olimpiade) per la prima volta compare tra i vincitori una donna, la spartana Kyniska, che si aggiudicò la vittoria nella corsa delle quadrighe, non in qualità di auriga ma in quanto proprietaria di cavalli. L'infrazione delle rigorose regole olimpiche può essere spiegata con lo strapotere conquistato all'epoca dagli spartani. Pausania narra che Kyniska, nuovamente vincitrice quattro anni dopo, per ricordare le sue vittorie offrì un prezioso dono votivo: due quadrighe di bronzo che vennero collocate nel tempio di Zeus. In onore di Kyniska fu eretta una statua nell'Altis. La seconda donna vincitrice a Olimpia come proprietaria di cavalli fu la macedone Belistiche, una delle cortigiane del re Tolomeo II Filadelfo che, pur essendo di origine plebea, grazie ai favori del re, partecipò a due edizioni dei Giochi: vinse nel 268 a.C. (CXXVIII Olimpiade) la corsa delle quadrighe e nel 264 a.C. quella delle bighe, introdotta per la prima volta. Si deve attendere circa un secolo per vedere una terza vincitrice. Avvenne nel 153 d.C. durante la CCXXXIII Olimpiade e ad affermarsi fu Kasia Mnasithea di Elide nella corsa delle quadrighe tirate da puledri. Da allora, sino alla fine dei Giochi, nessun'altra atleta compare nella lista degli olimpionici.
Sembra accertato che anche le donne avessero a Olimpia i loro agoni, ma non si è in grado di stabilire l'epoca esatta in cui furono introdotti. Le gare femminili che si svolgevano a Olimpia erano denominate Giochi Erei in quanto dedicate a Era, dea protettrice del matrimonio che presiedeva a tutte le attività femminili. Ne fornisce una descrizione molto particolareggiata Pausania: "Ogni quattro anni le Sedici Donne tessono un peplo per Era e poi organizzano dei Giochi chiamati Erei. Questi consistono in una gara di corsa fra ragazze, che non sono tutte della medesima età, ma le più giovani corrono per prime e dopo queste corrono quelle meno giovani e per ultime quelle che sono più anziane. Corrono in questo modo: i capelli sono sciolti, il chitone arriva un po' sopra il ginocchio, la spalla destra è scoperta fin sotto il seno. Per lo svolgimento della competizione anche a costoro è riservato uno stadio, ma per loro la lunghezza della corsa viene ridotta di circa un sesto. Alle vincitrici vengono date corone di ulivo e una parte della vacca sacrificata a Era ed è loro consentito di avere statue con immagini dopo avervi apposto il proprio nome. Le aiutanti delle sedici sacerdotesse, che sovrintendono all'organizzazione dei Giochi, sono a loro volta donne sposate. L'agone delle ragazze viene ricondotto ad epoca antica". La direzione delle feste era dunque affidata a 16 sacerdotesse che avevano anche il compito di tessere e conservare, in un apposito edificio nella città di Elide, un peplo, che simboleggiava il manto nuziale, da offrire a Era. Questo consesso onorifico, altamente elitario, era composto in origine da sacerdotesse, scelte una per ciascuno dei 16 villaggi dell'Elide tra le donne anziane più stimate per dignità e reputazione. Le sacerdotesse svolgevano anche la funzione di giudici e al momento di assumere questo incarico si purificavano, come gli ellanodici, con il sangue di un animale sacrificato e con l'acqua della sacra fonte Pieria. Il Collegio delle 16 sacerdotesse sarebbe però stato creato con finalità diverse da quelle di sovraintendere ai Giochi Erei: il compito originario sarebbe stato svolgere una funzione pacificatrice tra elei e pisati. Per quanto riguarda gli aspetti organizzativi delle gare, si deve far sempre riferimento agli scritti di Pausania. I Giochi si sarebbero svolti con cadenza quadriennale. Le fanciulle, suddivise in tre categorie in base all'età, gareggiavano nella corsa su una distanza inferiore a quella dello stàdion. La comprensibile, leggera diminuzione del percorso rispetto alla gara maschile, non altera il parallelismo, certamente non casuale, fra i Giochi Erei e quelli Olimpici.
di Mario Pescante
Per circa mezzo secolo, e cioè dalla prima edizione (776 a.C.) alla tredicesima (728 a.C.), i Giochi Olimpici ebbero in programma una sola prova: la corsa veloce, che prese il nome di stàdion. Questo dato è storicamente confermato dalla generalità delle fonti. Molto preciso, al riguardo, è il riferimento di Filostrato il quale scrive: "le prove dei giochi olimpici non comparvero contemporaneamente, ma l'una dopo l'altra; fino alla XIII Olimpiade, infatti, le competizioni si limitarono alla corsa veloce; colsero l'alloro tre elei, sette messeni, un corinzio, un dimeo, un cleoneo; chi in una olimpiade, chi in un'altra, ma nessuno in due". L'atleta che aprì la lista degli olimpionici, Koroibos di Elide, non sembra avere origini aristocratiche, come si riscontra invece nei vincitori delle successive edizioni. Egli è definito in alcuni scritti come màgeiros, ovverosia macellaio o, forse, cuoco.
Filostrato narra che la corsa dello stadio originava da una consuetudine religiosa. Era infatti antica usanza a Olimpia che, in occasione di feste dedicate a Zeus, alcuni atleti, partendo da una distanza di 600 piedi dall'altare del dio, gareggiassero per conquistare il privilegio di accendere il fuoco dell'ara sacrificale; la tradizione della fiaccola e dell'accensione del tripode è rispettata, seppur con diverso significato, anche nelle Olimpiadi moderne e costituisce uno dei momenti più suggestivi del cerimoniale olimpico. Nello stàdion dunque gli atleti scattavano al via verso il traguardo collocato a una distanza di 600 piedi. Poiché nell'antichità né il piede né i suoi multipli erano fissi ma variavano, di conseguenza la distanza era diversa da luogo a luogo. Le ricerche archeologiche hanno, infatti, rivelato che la corsa a Olimpia era lunga 192,27 m, a Delfi e ad Atene 177,50 m, a Pergamo 210 m, a Epidauro 181,30 m. La tesi prevalente è la distanza coperta corrispondesse semplicemente alla lunghezza dello stadio dove si svolgevano i giochi e proprio per questa particolarità la gara avrebbe preso la denominazione di stàdion.
I dettagli sui particolari tecnici della gara ci sono pervenuti grazie a numerosi reperti archeologici, costituiti da sculture, mosaici e soprattutto pitture sulle anfore panatenaiche. Generalmente gli atleti sono raffigurati al momento dello scatto, schierati sulla balbìs, la pedana che costituiva la linea di partenza ed era attraversata orizzontalmente da due scanalature parallele, distanti un piede. È molto probabile che queste cavità avessero la duplice funzione di assicurare il regolare allineamento dei corridori e di agevolarne la spinta al momento dello scatto. Gli atleti, infatti, si predisponevano alla partenza sistemando un piede davanti all'altro nelle scanalature, posizione rappresentata in una statuetta bronzea del 3° sec. a.C., custodita nel museo dell'Università di Tubinga nella quale il corridore è raffigurato con il corpo leggermente flesso in avanti, appoggiato sulla gamba sinistra, con il ginocchio piegato, il braccio destro teso indietro, il sinistro proteso in avanti, le mani con il palmo rivolto in basso. Attraverso le raffigurazioni pittoriche e i testi letterari è stato anche possibile ricostruire il sistema utilizzato a Olimpia per dare il via. In origine gli atleti si predisponevano sulla linea di avvio con un allineamento precario che, spesso, provocava 'false partenze', punite, secondo taluni autori, con la fustigazione. A partire dal 5° sec. a.C. gli atleti erano separati l'uno dall'altro da paletti conficcati in appositi fori ancora oggi visibili sulla balbìs di Olimpia e più tardi da pilastri; venivano quindi allineati lungo la lastra che delimitava il settore di partenza. A questo punto, come si legge in un antico canto, gli araldi invitavano gli atleti a tenersi "pronti con un piede vicino all'altro", formula corrispondente al moderno avviso dello starter: "pronti, ai vostri posti…". Più incerta è l'interpretazione del modo con il quale i corridori prendevano contemporaneamente il via. I dipinti sui vasi non forniscono elementi e bisogna rifarsi alle fonti scritte da cui si deduce che i concorrenti erano allineati dietro una corda o una sbarra di legno. Aristofane, per es., accenna a una sbarra di legno disposta di fronte agli atleti, il cui abbattimento dava il segnale della partenza. Lo scatto avveniva non appena era lanciato dagli araldi il grido apìte (via) e, contemporaneamente, veniva fatta cadere la fune o il paletto. Qualche autore, tratto in inganno da alcuni dipinti con trombettieri accanto ai corridori, ha formulato l'ipotesi che la partenza potesse essere data anche con la tromba, ma la maggior parte degli studiosi, citando l'Elettra di Sofocle, sostiene che lo squillo era adottato solo per le gare ippiche, ove lo scalpitare degli animali, unito al frastuono di migliaia di spettatori, poteva essere superato solo da un forte segnale acustico.
Notizie sulla suddivisione dei concorrenti in turni eliminatori ci sono state tramandate dagli scritti di Luciano di Samosata, che visitò quattro volte Olimpia in occasione dei Giochi. Nella sua opera Anacarsi, egli fa riferimento a un'urna d'argento contenente dadi contrassegnati da lettere dell'alfabeto, corrispondenti ai nomi dei competitori. Da questa urna si estraevano a sorte i nominativi degli atleti che venivano suddivisi nelle varie batterie (tàxeis). Sembra che ogni turno eliminatorio fosse formato da quattro atleti, ma non ci sono elementi certi per convalidare questa tesi. Scrive genericamente Pausania: "correvano insieme solo pochi atleti per volta, poi i vincitori di ciascun gruppo gareggiavano tra loro". Malgrado questo riferimento letterario, non c'è ragione per sostenere l'ipotesi che le batterie fossero composte da pochi corridori. È vero che sui vasi panatenaici che raffiguravano le corse di velocità compaiono al massimo tre o quattro atleti, ma è lecito ritenere che un numero così ristretto dipenda da vincoli di rappresentazione. Sulla linea di partenza di Olimpia vi era spazio per allineare almeno 20 concorrenti. Non vi è certezza che la pista fosse delimitata da corsie; sembrerebbero escluderlo gli scritti di Luciano quando parlano di corridori che si ostacolano a vicenda e che tagliano la strada all'avversario.
Filostrato così descrive l'andatura dei corridori: "muovono le gambe in un movimento alternato con le braccia per la velocità, quasi sollevati dal terreno dal movimento delle mani". Ma è soprattutto l'archeologia che fornisce immagini significative. Le raffigurazioni che appaiono sui vasi appartenenti al periodo arcaico (6° sec. a.C.) non differiscono molto da quelle dei secoli successivi, per cui le caratteristiche stilistiche degli atleti sembrano ben definite. Il busto è moderatamente inclinato, la spinta dei piedi parte dal metatarso, il tallone è leggermente sollevato, così come è richiesto dalla tecnica moderna. L'avanzamento delle gambe è corretto. L'unico atteggiamento che non appare conforme alla tecnica odierna è il movimento delle braccia: i corridori fanno un buon uso degli arti superiori ma, specie nei dipinti del periodo più antico, le braccia si muovono nella stessa direzione delle gambe corrispondenti. Probabilmente gli artisti, nel raffigurare i concorrenti di profilo, cercavano di evitare sovrapposizioni e quindi si esprimevano in una maniera che non coincideva con la tecnica di corsa effettivamente adottata dagli atleti. D'altra parte in alcuni vasi di epoca meno remota (3° sec. a.C.), il movimento delle braccia è riprodotto in maniera corretta.
Le caratteristiche fisiche degli stadiodròmoi, così come vengono rappresentate nelle pitture vascolari, variano considerevolmente da epoca a epoca. Sui vasi del 6° e 5° sec. a.C. prevalgono figure di atleti brachitipo, esageratamente muscolosi, di bassa statura, tarchiati; al contrario, nei dipinti risalenti al 4° e 3° sec. a.C. prevale l'atleta longilineo, con fisico asciutto e gambe lunghe. Vi furono popoli particolarmente dotati per le corse veloci; i corridori di Sparta, per es., seppero conquistare, tra la quindicesima edizione (720 a.C.) e la cinquantesima (580 a.C.), 21 vittorie su 36 gare disputate. Nella LI Olimpiade (576 a.C.) gli atleti di Crotone si aggiudicarono i primi sette posti nella finale. Si sa poco sui sistemi di allenamento adottati dagli antichi velocisti; è certo, però, che la preparazione era molto accurata se si considera che all'interno del ginnasio di Olimpia vi era una pista con diverse pedane di partenza per addestrarsi allo scatto.
In occasione della XIV Olimpiade, nel 724 a.C., fu aggiunta al programma dei Giochi una seconda gara: il dìaulos, che si correva su una distanza di 1200 piedi (circa 400 m), doppia rispetto a quella dello stàdion e che divenne anch'essa molto popolare. Narra Filostrato: "Gli elei celebravano un giorno i loro tradizionali sacrifici. Pur trovandosi le vittime già sull'altare, non c'era ancora il fuoco. Gli efebi incaricati di portarlo distavano uno stadio dall'altare. Innanzi a questo si pose un sacerdote a far da giudice con una piccola fiaccola e il vincitore, dopo aver portato il fuoco necessario al sacrificio, fu acclamato olimpionico. Dopo che gli elei avevano sacrificato, si voleva che sacrificassero anche gli inviati delle varie città greche presenti. Allo scopo di dar rilievo al loro arrivo, i corrieri correvano allontanandosi dall'altare per circa uno stadio, come a invitare ad alta voce il popolo greco e poi di nuovo percorrevano in senso inverso, in direzione dell'altare, la medesima distanza, come ad annunziare che giungeva tutta la Grecia a partecipare lietamente alla festa. Questo è quanto si tramanda sulle origini della doppia corsa".
In base a molte raffigurazioni si sono potuti stabilire, con una buona approssimazione, i dettagli tecnici di questa gara. Gli atleti si apprestavano al via in una posizione di partenza identica a quella della prova veloce e quindi percorrevano il primo stadio sino a raggiungere, al termine del rettilineo, un palo o un tronco di colonna; lo doppiavano a sinistra e tornavano indietro sino alla linea di partenza, ove era fissato il traguardo. In epoca più tarda, per evitare che gli atleti si danneggiassero, ciascun concorrente aveva la possibilità di invertire la corsa girando attorno a un proprio palo. Anche nel dìaulos si disputavano diversi turni eliminatori, con un numero ristretto di atleti, estratti a sorte per ciascuna batteria. Per quanto riguarda lo stile dei corridori di questa gara, che oggi potremmo definire di velocità prolungata, in un frammento rinvenuto ad Atene, ove compare l'iscrizione "io sono un corridore di dìaulos", la tecnica di corsa è rappresentata in maniera efficace: i movimenti degli arti sono a metà tra quelli del velocista e del corridore delle corse di resistenza, la falcata è ampia e le gambe sono leggermente piegate all'altezza delle ginocchia. Le braccia assecondano l'andatura, ma non sono mosse energicamente come nelle corse veloci.
Con la XV Olimpiade, nel 720 a.C., fu introdotta a Olimpia una terza prova, il dòlichos, corsa di resistenza su una distanza variabile da 7 a 24 stadi (1500-5000 m). Notizie sulla modalità di svolgimento di questa gara compaiono in numerose fonti letterarie. Gli atleti partivano tutti insieme e, dopo aver percorso il primo stadio, giravano attorno a un palo centrale posto alle due estremità del rettilineo e così via fino a tagliare, al termine della competizione, il traguardo che era posto in corrispondenza della stessa linea di partenza. Secondo Filostrato questa specialità ebbe origine dopo l'istituzione dei dromokèrykes, corrieri incaricati di portare messaggi a distanza durante le battaglie. Tra i molti di cui sono state tramandate le imprese il più celebre è Fidippide, l'hemerodròmos inviato dagli strateghi di Atene a Sparta per chiedere aiuto nella guerra contro i persiani, che coprì in due giorni una distanza di oltre 200 km; la sua seconda e più celebre impresa, compiuta in occasione della battaglia di Maratona (490 a.C.), gli fu fatale ed egli morì subito dopo, stremato dalla fatica per la lunga corsa compiuta fino ad Atene per annunciare la notizia della vittoria su Dario. Da qui trae origine la moderna gara di maratona che si corre sulla stessa distanza che separa le due località citate (42,120 km) e che costituisce oggi la prova atletica più significativa del programma olimpico. Un corridore di dòlichos del quale si è occupata la letteratura fu Ageus, che si aggiudicò la corona nella CXIII Olimpiade (328 a.C.). Si racconta che l'atleta, al termine della gara disputata a Olimpia, riprese la corsa fino ad Argo per annunciare il suo trionfo, percorrendo circa 100 km in una sola giornata. Pausania riferisce di un altro corridore, Ladas, nativo di Argo, che vinse "percorrendo l'intera distanza con la stessa, costante andatura del primo stadion". Alla memoria di Ladas che morì dopo la vittoria, forse stremato dopo aver tagliato il traguardo oppure sulla strada del ritorno a casa, fu dedicato un ginnasio e Mirone scolpì una statua, ammiratissima dagli antichi.
Riguardo allo stile dei corridori Filostrato fornisce una realistica descrizione degli atleti in azione: "Essi compiono movimenti rapidi solo in vista del traguardo, mentre nel resto della competizione procedono più lentamente muovendo ritmicamente le braccia e portando le mani in avanti". Raffigurazioni plastiche dello stile dei corridori ci vengono offerte anche da sculture, affreschi, mosaici, monete e soprattutto vasi. L'immagine più significativa è in un'anfora panatenaica conservata nel British Museum di Londra, dove sono rappresentati tre corridori in atteggiamento di corsa, con il corpo leggermente inclinato, la falcata ampia, il piede appoggiato in maniera corretta, non adagiato completamente sulla pianta, la testa eretta. Nel rettilineo finale l'atleta muove le braccia con maggiore intensità, "a guisa di ali", scrive Filostrato.
Altri autori si sono soffermati sugli allenamenti ai quali dovevano sottoporsi i corridori di dòlichos. Aristotele è prodigo di consigli e suggerisce di rafforzare la muscolatura delle gambe correndo sulla sabbia. Epitteto non azzarda pareri tecnici, ma si limita a osservare che la preparazione per le corse di resistenza è diversa da quelle per le prove veloci, in quanto a dieta e massaggi. Filostrato scrive che il corridore di dòlichos, durante gli allenamenti, anziché percorrere lunghe distanze, deve correre otto o dieci volte lo stàdion, a brevi intervalli. Questo tipo di allenamento, con la denominazione di interval training, è alla base della moderna preparazione dei mezzofondisti.
La lotta (pàle) come pratica atletica aveva tradizioni antiche ed era molto diffusa e popolare in tutta la Grecia, come attesta la frequenza con la quale raffigurazioni di lottatori compaiono sulle anfore panatenaiche. La disciplina era ritenuta un esercizio indispensabile non solo per il potenziamento fisico, ma anche per la formazione del carattere dei giovani. Grandissima importanza era data all'abilità: non era sufficiente rovesciare l'avversario, bisognava farlo correttamente, nel pieno rispetto delle regole, avvalendosi soprattutto delle doti di astuzia. Alcuni storici, tra cui Senofonte, affermano che la lotta è allo stesso tempo scienza e arte, poiché la vittoria di un lottatore rappresenta il trionfo dell'intelligenza sulla forza bruta e quindi della civiltà sulla barbarie.
Come competizione disciplinata da severe regole, la lotta fece la sua apparizione nei Giochi della XVIII Olimpiade (708 a.C.). Nelle prime edizioni i lottatori disputavano i loro incontri in mezzo allo stadio, in una fossa denominata skàmma. In epoca più tarda gli incontri si svolsero all'interno del ginnasio. Al termine pàle si ricollegherebbe l'etimologia di palestra (palàistra). Nei primi tempi gli atleti indossavano una cintura (perìzoma) che compare in numerosi vasi dipinti a figure nere ma cessa di essere rappresentata nelle raffigurazioni successive al 6° secolo a.C. Filostrato, nel suo trattato Sull'arte della ginnastica, si sofferma sui preliminari che precedono i combattimenti, descrivendo gli atleti intenti a frizionarsi il corpo con olio e a ricoprirlo con un sottile strato di polvere o sabbia, in modo da renderlo viscido. Filostrato elenca quattro tipi di polvere: la polvere di fango, utile a ostacolare le prese dell'avversario, quella bituminosa per riscaldare i muscoli, quella di terra nera per nutrire la pelle, quella di argilla per aiutare la traspirazione. Al termine dell'incontro, l'atleta rimuoveva l'impasto d'olio e di polvere con apposite palette, ricurve e incavate, chiamate strigili. Di questi arnesi, già in uso presso l'antica civiltà cretese, ci sono pervenuti numerosi esemplari in bronzo, ferro, legno duro, avorio e argento. Raffigura un atleta che si deterge dall'impasto protettivo utilizzando lo strigile una delle statue più famose dell'antichità, l'Apoxyòmenos di Lisippo, che conosciamo attraverso la copia conservata nei Musei Vaticani, portata a Roma in epoca imperiale ed esposta nelle Terme di Agrippa presso il Pantheon.
Non esistevano categorie in base al peso degli atleti, ma solo distinzioni in relazione all'età, quasi per dimostrare che l'abilità, l'intelligenza e soprattutto l'addestramento potevano prevalere sulla mole dei lottatori. Gli incontri si svolgevano suddividendo gli atleti in gruppi per sorteggio. Nel caso in cui dopo l'estrazione fosse rimasto un atleta dispari e cioè senza accoppiamento, questi passava al secondo turno senza combattere; tale vantaggio, in caso di vittoria finale, veniva riportato nelle iscrizioni degli elei. Talvolta accadeva che qualche lottatore, per la sua bravura, non trovasse avversari. In tal caso era dichiarato acònitos, vincitore senza combattere, alla lettera 'senza essersi sporcato con la sabbia'. Una vittoria del genere fu conseguita da Milone.
Le regole del combattimento, molto rigorose, sono attribuite a un atleta siciliano di nome Orikadmos. Erano ammesse tutte le prese sulla parte superiore del corpo, mentre non erano consentite quelle alle gambe. Si poteva praticare lo sgambetto, erano vietati i pugni, i morsi, l'accecamento, i colpi a mano aperta, le testate. Se due lottatori finivano fuori del recinto, i giudici sospendevano il combattimento e riportavano gli atleti sul terreno di gara. Non vi erano limiti di tempo, né intervalli durante gli incontri. Questa regola, unita alla riluttanza dei lottatori a rischiare colpi d'attacco che potevano sbilanciarli (rendendoli, così, più vulnerabili alla reazione degli avversari), aveva fatto sviluppare una raffinata tecnica di difesa passiva che mirava a sfiancare l'avversario. Di conseguenza un incontro di lotta poteva durare anche una giornata. La vittoria era assegnata a chi riusciva ad atterrare l'avversario per tre volte, facendogli toccare terra con la parte superiore del corpo, cioè dal ginocchio in su.
Molte delle prese e schivate applicate dagli atleti greci rappresentano ancora oggi i 'fondamentali' di questa disciplina, tuttavia due punti distinguono nettamente la lotta degli antichi da quella moderna. In quest'ultima, l'atleta è considerato 'schienato' quando entrambe le spalle toccano terra contemporaneamente e inoltre una 'schienata' può essere diretta o conseguenza del combattimento sul terreno. Per i greci, invece, per considerare battuto il lottatore era sufficiente che toccasse la sabbia della skàmma con una spalla o un fianco. Quanto alle schermaglie iniziali, affidate ai giochi di mano, gli antichi autori tramandano le imprese del siracusano Leontisco, famoso per la sua abilità nel fratturare le falangi degli avversari e, per questo motivo, soprannominato 'spezzadita'. Particolarmente efficace doveva essere la 'presa al corpo' se nel repertorio delle doti attribuite a tale Aristodamos, vincitore nella XCVIII Olimpiade, figurava la corporatura gigantesca che gli consentiva di sfuggire ai tentativi degli avversari di cingerlo alla vita.
Una serie di interessanti nozioni sulla lotta antica sono contenute nei Papiri di Ossirinco, ove compare un vero e proprio manuale di addestramento: "tu sollevandoti di lato attacca verso il basso e concludi la presa. Tu libero voltati, attacca, sposta un piede dal corpo e porta una presa da sotto con la mano. Tu attacca e sollevandoti sposta il braccio sinistro, presenta il dorso di lato e fa una presa di testa con il braccio destro. Tu fagli la cintura. E tu, afferralo dal di sotto. Ora fatti avanti e stringilo. Adesso a te, prendilo dal di sotto con il braccio destro e fagli una cintura dove ti ha afferrato dal di sotto; avanza la gamba sinistra contro il fianco suo. Tu allontanalo con la mano sinistra. Tu cambia posto e stringilo. Tu, rivoltati e afferralo per i testicoli. Tu, metti avanti il piede. Afferralo a mezza vita e fa pressione in avanti e curvalo indietro. Porta avanti il corpo e raddrizzati, [gettati] su di lui e rispondi...".
Esistevano numerosi manuali per l'addestramento e un frammento di un testo del genere, ritrovato in un papiro del 2° sec. d.C., contiene suggerimenti agli istruttori per insegnare i fondamentali della disciplina. Spesso, anche la bravura degli allenatori fu elogiata e celebrata. Il più famoso istruttore fu sicuramente il maestro di Alcimedonte, tale Melesia (460 a.C.), che con i suoi lottatori conseguì una trentina di vittorie nei Giochi panellenici.
Il lottatore più celebrato fu il già citato Milone di Crotone, che discendeva da una famiglia aristocratica e vinse il torneo di lotta della LX Olimpiade (540 a.C.) nella categoria giovani, poi affermandosi in altre cinque gare olimpiche, in sei pitiche, in dieci istmiche e in nove nemee. Rimase imbattuto lungo un arco trentennale di attività agonistica, subendo una sola sconfitta, in occasione dei Giochi della LXVII Olimpiade (512 a.C.), a opera di Timasitheos, anche lui nativo di Crotone.
Nel 708 a.C., in occasione della diciottesima edizione dei Giochi, comparve, per la prima volta, una prova multipla, il pèntathlon, che combinava cinque diverse discipline. La gara premiava gli atleti più completi e cioè quelli in possesso di doti polivalenti quali la velocità, l'agilità, la forza, la resistenza e il coraggio. I concorrenti si misuravano in tre prove definite 'leggere': la corsa, il salto in lungo, il lancio del giavellotto, e in due dette 'pesanti': il lancio del disco e la lotta. Delle cinque prove indicate, tre (il salto, il lancio del disco e del giavellotto) non venivano mai praticate separatamente, ma si svolgevano unicamente nel contesto del pentathlon, costituendone la caratteristica tipica. Per questo motivo, nella maggior parte delle pitture vasali che illustrano scene della competizione, compaiono raffigurate esclusivamente queste tre prove, con una particolare predilezione per il salto in lungo che, spesso, nell'arte figurativa, simboleggia l'intera disciplina.
Il pentathlon fu introdotto ai Giochi nell'epoca di massima potenza di Sparta e un atleta spartano di nome Lampis fu il primo ad aggiudicarsi la vittoria. Concorrenti spartani compaiono nella lista dei vincitori in tre Olimpiadi consecutive (XXVI, XXVII e XXVIII).
L'ordine in cui si succedevano le prove e il sistema di assegnazione della vittoria hanno dato luogo a dispute interpretative, tanto approfondite quanto inconcludenti. Gli scritti degli autori che hanno trattato l'argomento, Simonide, Eustazio, Pindaro, Sofocle, Platone e Artemidoro risultano incerti e contraddittori. L'unico dato acquisito viene da Senofonte il quale, nel descrivere lo scontro tra pisati ed elei che nel 364 a.C. provocò l'occupazione di Olimpia durante lo svolgimento della CIV Olimpiade, scrive: "le gare del pentathlon si erano già svolte nel dròmos e i lottatori gareggiavano in prossimità dell'altare", da cui si deduce che gli incontri di lotta si effettuavano in un apposito spazio esterno alla pista e che erano ancora in corso quando le prime quattro prove si erano già concluse. La prova di lotta, probabilmente poiché era la più faticosa, veniva dunque fatta svolgere al termine delle altre.
Per quanto riguarda i contenuti tecnici delle singole gare, non c'è molto da dire sulla corsa, che si disputava sulla stessa distanza dello stàdion e con le stesse regole. Invece il salto in lungo, disciplina più recente delle altre e con origini esclusivamente agonistiche, presentava caratteristiche peculiari, di cui la principale era costituita dagli haltères, speciali attrezzi che gli atleti impugnavano durante l'esercizio. Si trattava di manubri di pietra o di metallo, del peso variabile da 1 a 4 kg, sagomati per adattarli bene alle mani, che dovevano servire ad agevolare il movimento delle braccia durante la rincorsa e a prolungare la traiettoria del salto al momento dello stacco. Sono descritti da Pausania: "hanno la forma di un semicerchio, più ovale che tondo, da potervi infilare le dita per tenerlo, come nella maniglia dello scudo il braccio". Per Filostrato sono "gli attrezzi propri del pentathlon e servono per il salto. Sono guida sicura delle mani e facilitano il balzo a terra". Aristotele, nei suoi Problemata, sostiene che il pentathleta si avvantaggia nella gara di salto con l'utilizzazione degli haltères. Non si è in grado di stabilire l'epoca esatta in cui furono introdotti, ma qualche informazione può essere ricavata dalle pitture vascolari e dai ritrovamenti archeologici. L'esemplare più antico è stato rinvenuto a Eleusi ed è databile al 7° sec. a.C.: si tratta di un semplice pezzo di piombo, del peso di circa 2 kg, con un'incisione in onore del vincitore Epeneto. Sempre al 7° secolo risalgono alcune pitture di anfore che raffigurano una grande varietà di manubri, alcuni di pietra, altri di metallo, lavorati rozzamente per ottenere una forma sagomata e con un incavo per facilitarne la presa. Haltéres del 6° sec. a.C., più leggeri e maneggevoli rispetto ai precedenti, di peso inferiore al chilo, ingrossati nella parte anteriore e assottigliati in quella posteriore, sono custoditi al British Museum in ottimo stato di conservazione. In esemplari del 5° sec. a.C. provenienti da Corinto e a Olimpia la fattezza cambia di poco, il materiale è sempre la pietra o il metallo, la forma è semicircolare, con le estremità arrotondate. Per quanto riguarda le modalità di effettuazione della prova, ci si può riferire alle numerose raffigurazioni che compaiono sulle anfore panatenaiche. Gli atleti, stringendo saldamente gli haltères, compivano una breve rincorsa su una pista in terra battuta partendo con le braccia aderenti ai fianchi. Al termine della corsa procedevano allo stacco da una soglia, detta batèr, posta su una piccola pedana rialzata. Durante la traiettoria le braccia venivano proiettate in avanti, mantenendole il più possibile parallele, poi un attimo prima di ricadere venivano riportate indietro. La chiusura avveniva a piedi uniti nella skàmma riempita di sabbia, il cui fondo veniva accuratamente livellato in modo da lasciare visibili le impronte dei saltatori. Il salto veniva misurato partendo dalla pedana di battuta sino al punto di caduta dell'atleta più vicino alla linea di stacco, esattamente come avviene nelle gare di oggi. Un'immagine di questo tipo appare in un vaso conservato nel British Museum ove, sotto la figura di un saltatore nella skàmma, sono disegnate linee orizzontali interpretate come i segni di precedenti prove. Il salto veniva misurato con un'asticella, il kanòn, che spesso appare raffigurata in mano agli ellanodici. Secondo Filostrato, ogni saltatore aveva a disposizione tre prove.
Il lancio del disco, nei tempi eroici, era considerato una gara a sé stante. Le numerose raffigurazioni su rilievi marmorei, pitture vascolari e statue che ci sono pervenute e le molteplici citazioni letterarie testimoniano che questa disciplina era molto popolare tra i greci che la consideravano l'esercizio per eccellenza di forza e di agilità. La tecnica è descritta da Filostrato: "l'atleta, dopo aver cosparso l'attrezzo con sabbia per aumentare la presa, si portava su una pedana, piccola e sufficiente solo per un uomo, delimitata davanti e ai lati, ma aperta posteriormente, cosicché il lanciatore aveva la possibilità di prendere l'avvio per darsi lo slancio". Un'iscrizione rinvenuta presso lo stadio di Rodi informa che ogni atleta poteva effettuare cinque lanci. Successivamente i giudici, in base alle migliori misure segnate sul terreno, stilavano la graduatoria. È accertato che il lancio era misurato partendo dalla linea frontale della balbìs, sino al punto in cui il disco cadeva. L'atleta non poteva superare i settori laterali di lancio sotto pena di squalifica. Il punto di caduta dell'attrezzo veniva contrassegnato con un piolo e in diversi vasi panatenaici sono raffigurati discoboli nell'atto di collocare o togliere tale contrassegno. Gli scavi archeologici effettuati a Olimpia hanno portato alla luce numerosi dischi. In origine l'attrezzo era di pietra. Reperti del 5° sec. a.C. mostrano dischi di ferro, bronzo o di rame, piatti e rigonfi nel mezzo. Le dimensioni erano variabili, con diametro da 20 a 35 cm. Per quanto riguarda il peso gli esemplari pervenutici appaiono danneggiati e quindi possono fornire solo dati approssimativi. Alcuni non superano il chilo, altri pesano 2-3 kg, uno bronzeo, risalente al 3° sec. a.C., è di circa 5 kg ma le sue dimensioni e la dedica agli dei del pentathleta Asclepiade di Corinto che vi è incisa fanno ritenere che si tratti di un dono votivo. Le nostre conoscenze sulla tecnica di lancio si basano anche su testimonianze dell'arte figurativa che ci sono pervenute in gran numero. La più celebre è il Discobolo di Mirone, opera del 5° sec. a.C. di cui è andato smarrito l'originale in bronzo, ma esistono varie copie in marmo (da ricordare quella Lancellotti, conservata presso il Museo Nazionale Romano). Essa esprime in modo mirabile l'equilibrio dinamico sotteso al movimento dell'atleta che sta per lanciare il disco, tanto che questa immagine è considerata uno dei simboli più armoniosi di gesto atletico.
Il giavellotto, prima di essere un attrezzo da competizione, era un'arma di uso corrente per la guerra e la caccia. I riferimenti letterari di epoca classica non consentono di acquisire una sufficiente documentazione per illustrare i dettagli tecnici della gara. Soccorrono, in parte, le numerose pitture che compaiono nei vasi panatenaici. L'attrezzo era costituito da un'asta di legno appuntita, chiamata acòntion, all'incirca dell'altezza di un uomo e dello spessore di un dito, protetta alla estremità da una capsula di metallo. L'atleta nel lancio utilizzava un'impugnatura costituita da un laccio di cuoio, l'amentum, lungo 30-45 cm, che veniva girato più volte attorno all'asta. L'atleta vi inseriva l'indice e il medio della mano e lo utilizzava per conferire all'attrezzo una rotazione intorno al proprio asse, assicurandone così la stabilità lungo la traiettoria e aumentando nello stesso tempo la spinta data dal braccio. La tecnica del giavellottista è raffigurata chiaramente nelle pitture vascolari e, in particolare, in due anfore panatenaiche raffiguranti il pentathlon, conservate l'una presso il British Museum di Londra e l'altra a Leida. Il lanciatore effettuava una rincorsa tenendo il giavellotto sopra la spalla, all'altezza della testa, quindi portava il braccio indietro e verso il basso; infine, esercitando la massima azione delle dita sul laccio, proiettava il braccio verso l'alto, scagliando l'attrezzo. Il lancio doveva essere eseguito al di qua di una linea di pedana, segnalata da quanto si vede su un calice conservato al Museo di Berlino da una colonna, posta di fronte o di lato al giavellottista. Pindaro, nella prima ode pitica, fornisce notizie anche sul campo di gara e precisa che l'attrezzo doveva cadere all'interno di un settore delimitato da linee laterali, regola in vigore anche oggi. Secondo Filostrato il lanciatore, per eccellere, doveva avere particolari caratteristiche fisiche: "le gambe più lunghe del normale e i fianchi agili e snelli per potersi piegare meglio all'indietro al momento del lancio". La presenza di diversi giavellotti nelle pitture vasali fa supporre che ogni atleta avesse, come per il disco, più di una prova a disposizione.
Esaurite le prime quattro prove del pentathlon, l'ultima competizione era la lotta, che si svolgeva con le stesse modalità previste nell'analoga prova individuale. Al termine della quinta competizione, si compilava la classifica finale.
Il pentathlon fu ritenuto 'specchio e misura' dell'atleta perfetto e i vincitori erano considerati il prototipo del campione, celebrato anche da Aristotele nella Retorica: "chi sa slanciarsi velocemente in avanti con i piedi e ha resistenza è un buon corridore. Chi ha la forza di schiacciare un avversario e di resistere al suo impeto è un lottatore; chi sa tenere lontano con i propri colpi gli avversari è un pugilatore. Chi sa fare l'una e l'altra cosa è campione nel pancrazio. Ma chi eccelle in tutte queste prove è un pentathleta".
Nella XXIII Olimpiade (688 a.C.) fu introdotta un'altra prova che contese alla lotta il favore popolare: il pugilato. Agli inizi i contendenti si affrontavano a mani nude; ben presto, però, si passò all'uso di particolari protezioni che presero il nome di imàntes. Contrariamente ai guantoni usati dai moderni pugili, che tendono a ridurre i danni all'avversario, gli imàntes erano strutturati in modo da rendere la massima offesa ai contendenti. Il combattimento risultava, pertanto, violento e talora persino mortale.
La storia del pugilato può essere ripartita in tre grandi periodi, connessi appunto alla tipologia dei guanti utilizzati. Il primo, per il quale la fonte principale è costituita dai poemi omerici e dalle rappresentazioni del 6° e 5° sec. a.C. dei vasi panatenaici, è caratterizzato dall'uso di fasce morbide (imàntes malacòteroi), descritte con precisione da Filostrato: "Al pugilato ci si preparava in questo modo. Quattro delle cinque dita della mano s'introducevano in una specie di guanto e ne sporgevano in modo da risultare unite come in un pugno: venivano tenute ben strette da una striscia di cuoio, che in funzione di sostegno scendeva lungo l'avambraccio. Ora tutto è cambiato. Si conciano le pelli di grossi buoi e se ne fanno guantoni da pugilato prominenti e penetranti. Vengono esclusi dagli stadi i guanti fatti di pelle di cinghiale o di porco, considerando dolorose e inguaribili le ferite da essi prodotte". Nella forma più semplice, ma già evoluta rispetto alle prime fasce, il rivestimento consisteva in lunghe e sottili strisce di cuoio grezzo, unte con l'olio per renderle più morbide, che si avvolgevano attorno alle mani. Su alcuni vasi panatenaici, come un calice a figure rosse conservato presso il British Museum, gli atleti portano in mano le strisce raccolte in fasce. In un secondo periodo, verso il 4° sec. a.C., i lacci furono resi micidiali con l'aggiunta di fasce di cuoio duro attorno alle nocche delle dita: questi speciali rivestimenti, chiamati sfairài, coprivano le prime falangi della mano e si avvolgevano lungo il braccio, tenuti insieme da pesanti e duri nastri di cuoio, stretti ai polsi. Gli sfairài restarono in uso sino al periodo romano, ma poiché indossarli era piuttosto complicato vennero poi sostituiti dagli imàntes òxeis, formati da un guanto imbottito, che ricopriva anche l'avambraccio con un doppio strato di pelliccia a scopo protettivo. Una spessa imbottitura tratteneva sulle nocche un anello di cuoio duro con bordi compatti e taglienti. Sembra però da escludere, in base ai ritrovamenti archeologi, che il mondo greco completasse gli imàntes con quelle borchie metalliche che furono adottate nei caesti romani rendendoli uno strumento letale. Gli imàntes òxeis, che subendo leggere modifiche furono usati dai pugili romani almeno sino al 2° sec. d.C., sono visibili nel famoso Pugilatore in riposo, bronzo ellenistico del 1° sec. a.C., una cui copia è conservata a Roma nel Museo delle Terme.
L'incontro di pugilato, come quello di lotta, non conosceva intervalli e non aveva limiti di tempo prestabiliti. Si andava avanti sino a quando uno dei due contendenti veniva abbattuto o alzava il braccio in segno di resa. Presso gli antichi greci, infatti, il pugilato era considerato soprattutto 'arte della difesa' ed era praticato con tattiche più attendistiche che di attacco. Ciò fa pensare che gli incontri si svolgessero con ritmi piuttosto lenti. Filostrato scrive che il pugilato consisteva soprattutto nel portare i colpi contro il viso dell'avversario e quindi un segno distintivo molto apprezzato della bravura di un pugile consisteva nell'avere un volto con poche cicatrici, che era prova dell'abilità nello schivare attacchi.
Il pugilato offre un esempio singolare della grande forza di espansione dei Giochi Olimpici. Il primo pugile che appare nella lista degli olimpionici è Onomastos di Smirne, città dell'Asia Minore. A meno di un secolo dalla fondazione dei Giochi, dunque, un pugile asiatico proveniente da una colonia interruppe la lunga sequenza di vittorie delle pòleis della madrepatria. Si sa poco del regolamento tecnico del pugilato, che lo stesso Onomastos aveva per primo compilato. Da Plutarco si apprende che non era ammesso lottare, né serrare strettamente l'avversario, mentre era consentito portare i colpi con entrambe le mani e continuare a bersagliare l'avversario una volta che fosse stato atterrato. Nonostante il silenzio delle fonti, si deve ritenere che fossero previste norme per limitare la violenza degli scontri. Vengono citati, infatti, vari casi di pugili sottoposti a una pesante multa e privati della vittoria per aver causato volontariamente la morte dell'avversario violando le regole.
Come nella lotta e nel pancrazio, non esistevano categorie in base al peso e solo a partire dalla XLI Olimpiade (616 a.C.) fu riconosciuta una distinzione, in rapporto all'età, tra ragazzi e adulti. Gli incontri si svolgevano con il sistema dei gironi eliminatori ai quali si veniva ammessi per sorteggio. Numerosi scrittori si soffermano sugli esercizi utili a rafforzare il fisico: tra questi spesso è segnalata l'utilità di addestrarsi scavando con un piccone la terra dura, ragione per la quale tale attrezzo fu adottato come emblema dei pugilatori. Nella specialità contava molto, oltre alla forza fisica, l'abilità. Filostrato indica nell'agilità e nell'intelligenza le principali qualità per una buona tecnica. Per questo motivo il pugilato fu una delle discipline olimpiche che i greci prima, e i romani poi, predilessero elevandone a simbolo lo stesso Apollo, immagine deificata della bellezza e dell'armonia del corpo.
Gli agoni ippici furono introdotti nel programma della XXV Olimpiade, nel 680 a.C. La prima gara, ospitata in un impianto costruito appositamente, l'ippodromo, consistette nel téthrippon, corsa di carri con quattro cavalli attaccati. La competizione si svolgeva su 12 giri della pista, i carri dovevano girare per 12 volte intorno a un tronco di colonna interrato, denominato mèta, che sovente compare raffigurato su monete o vasi come una stele dorica o ionica.
Del primitivo ippodromo di Olimpia, così come di altri ippodromi della Grecia antica, è scomparsa ogni traccia, anche perché si trattava di semplici spazi aperti e non attrezzati, affiancati da terrapieni dove si sistemavano gli spettatori. Pertanto per avere un'idea dell'impianto di Olimpia bisogna rifarsi alle notizie forniteci da Pausania, secondo il quale l'ippodromo sorgeva tra lo stadio e il fiume Alfeo, a nord confinava con la pista delle corse, a est con le pendici del colle Kronion, a sud un lungo argine lo proteggeva dalle inondazioni dell'Alfeo; nella parte occidentale era collocato l'ingresso per i giudici, denominato portico di Agnaptos. Secondo l'autore, l'ippodromo olimpico si distingueva da quelli delle altre città greche per due caratteristiche: l'altare, denominato tarassìppos, situato nei pressi della mèta, e il complicato cancello di partenza.
Il tarassìppos ("terrore dei cavalli") aveva questo nome poiché si credeva suscitasse un panico improvviso negli animali quando vi passavano vicino. In effetti la zona contigua alla mèta era quella ove avvenivano più frequentemente incidenti tra i carri che si ammassavano per avvantaggiarsi al momento di invertire la direzione di corsa. L'auriga doveva piegarsi a sinistra per assecondare il movimento del carro e per tenere d'occhio la ruota e, contemporaneamente, doveva mollare le briglie del cavallo esterno di destra, spronandolo con la frusta.
Nelle prime edizioni dei Giochi i carri, numerosi non essendo previsti turni eliminatori, prendevano il via schierati su un'unica linea di partenza, che secondo quanto riferisce Tucidide era di 400 piedi (circa 1200 m). Ovviamente il cocchio che si trovava sulla perpendicolare della mèta era avvantaggiato dal fatto di dover percorrere una distanza minore rispetto agli altri, cosicché gli aurighi cercavano di guadagnare con ogni mezzo, tra incidenti e contestazioni, la posizione più favorevole per portarsi in testa al momento del via. Nel 5° sec. a.C. per risolvere il problema fu introdotto un complicato marchingegno che consisteva in una barriera mobile, triangolare, disegnata come la prua di una nave. Lungo i due lati, che si raccordavano ai bordi della pista, vi era un certo numero di stalli disposti a coppie, dove prendevano posto i carri, bloccati da una fune. La base si congiungeva con il portico di Agnaptos. Al segnale del via, la corda davanti al paio di carri più arretrati veniva fatta cadere; quando la prima coppia giungeva all'altezza dello stallo successivo, venivano liberati i cocchi che vi erano trattenuti e così via per tutti gli altri stalli, sino alla partenza dell'ultima coppia di concorrenti. Con tale sistema coloro che non si trovavano sulla perpendicolare della mèta e che perciò dovevano percorrere una distanza maggiore per raggiungerla, avevano il vantaggio della velocità di abbrivio nel momento in cui aveva inizio effettivamente la corsa. Questo cancello, benché considerato una delle meraviglie di Olimpia, non fu adottato in nessun altro ippodromo della Grecia. Il segnale di partenza veniva dato in modo suggestivo. All'estremità della pista, su un altare era posto un delfino di bronzo, su un altro era collocata una grande aquila meccanica con le ali spiegate. Quando le trombe degli araldi squillavano, un giudice faceva cadere il delfino e innalzava l'aquila di bronzo che, battendo le ali, dava il via. Il traguardo invece era contrassegnato da una linea tracciata con calce o creta.
Nella corsa delle quadrighe solo i due cavalli al centro venivano aggiogati alla barra del carro, mentre gli altri erano legati ai primi mediante una fune che li lasciava più liberi. L'abilità del cavallo esterno era determinante poiché aveva il compito di guidare gli altri al momento di doppiare la mèta; per questa ragione l'animale era sottoposto a un addestramento specifico. Quanto ai carri, erano a due ruote, molto leggeri e aperti nella parte posteriore; apparivano ricchi di guarnizioni, talora erano laminati in oro. Nelle rappresentazioni pittoriche l'auriga compare in piedi, con la mano destra che impugna le redini e la sinistra che alza la frusta o un pungolo. Una delle più antiche raffigurazioni di un carro da corsa è visibile su un vaso dell'8° sec. a.C., conservato nel British Museum; questo tipo di cocchio è raffigurato, con le stesse caratteristiche, sino al 4° secolo. Le più belle e preziose immagini di carri compaiono sulle monete siciliane.
Il programma delle prove ippiche fu sottoposto nel tempo a varie modifiche, con l'inclusione e la soppressione di diverse specialità. A partire dal 648 a.C. iniziarono le competizioni riservate ai cavalli montati (kèles), sulla lunghezza di 6 giri dell'ippodromo, gare che in pratica potrebbero essere considerate un'anticipazione delle nostre corse al galoppo; i cavalieri montavano senza staffe e senza sella. Nel 500 a.C. fu inserita nel programma la corsa dei carri tirati da muli, forse per l'influenza esercitata dai coloni siciliani, essendo la Sicilia rinomata per l'allevamento di questi animali; la gara non incontrò il favore degli elei, che la soppressero nel 452 a.C., poiché secondo Pausania un'antica maledizione proibiva agli abitanti dell'Elide di allevare i muli. Nel 496 fu la volta della corsa con giumente (kàlpe); la prova prevedeva che dopo un certo numero di giri dell'ippodromo percorsi al trotto, i concorrenti dovessero smontare dall'animale e percorrere di corsa l'ultimo giro; fu disputata poche volte, essendo stata soppressa a partire dalla LXXXIV Olimpiade (444 a.C.). Nel 408 a.C. comparve un'altra specialità, quella delle bighe, con due cavalli attaccati al carro. Infine, nel 3° sec. a.C., le competizioni equestri si moltiplicarono e si cominciò a gareggiare con quadrighe e bighe tirate da puledri e, successivamente, con puledri montati da cavalieri. Quest'ultima prova non fu mai molto popolare e venne tolta dal programma dopo poche edizioni.
Un'originalità delle corse ippiche era costituita dal fatto che la corona d'alloro spettante al vincitore non era consegnata all'auriga o al cavaliere, dei quali non si conosceva nemmeno il nome, ma al proprietario del cavallo. I conducenti ricevevano come riconoscimento solo una benda di lana, con la quale si cingevano la fronte.
Il pancrazio, introdotto alla XXXIII Olimpiade nel 648 a.C., rappresentò senza dubbio la competizione più dura e brutale non solo del programma dei Giochi Olimpici, ma di tutta la storia degli antichi confronti atletici. Le stesse origini della disciplina spiegano i suoi contenuti agonistici e tecnici: la prova nacque dalle continue infrazioni che si verificavano durante le gare di lotta, i cui regolamenti vietavano pugni, testate e altri colpi che potessero ledere gravemente l'integrità fisica dei contendenti. Con il tempo le irregolarità e le scorrettezze erano divenute così frequenti che si pensò di consentirle, dando vita al pancrazio, un combattimento a oltranza che consisteva in una combinazione tra la lotta e il pugilato, senza esclusione di colpi. Era consentito fratturare le ossa, torcere gli arti sino a slogarli, colpire con calci, testate, pugni, calpestare in qualsiasi modo l'avversario. Era vietato soltanto mordere e introdurre le dita negli occhi dell'avversario. Secondo alcuni storici, da questa tecnica, nella quale ci si poteva aiutare con ogni mezzo, derivava il nome del pancrazio (pan-kràtion, "tutte le forze"). Per quanto riguarda la tattica di colpire l'avversario con i calci, vi è uno scritto significativo di Galeno il quale, nella sua impietosa satira contro l'agonismo, sostiene che la scimmia, essendo più brava a scalciare, sicuramente batterebbe gli uomini in questo tipo di combattimento.
A differenza della lotta, in cui si trattava di sbilanciare il rivale sino a farlo cadere a terra, la vittoria si conseguiva solo con la completa resa dell'avversario, che si dichiarava battuto, levando l'indice teso verso l'alto. L'incontro prevedeva anche il proseguimento del combattimento a terra. Come per la lotta e il pugilato, anche per il pancrazio non vi erano limiti di tempo alla durata degli incontri. Pausania narra che un atleta di Atene, di nome Kallias, conquistò la vittoria nella LXXVII Olimpiade (472 a.C.), dopo uno scontro durato un'intera giornata e terminato a notte inoltrata.
La descrizione più completa del pancrazio proviene da Filostrato: "i pancratisti praticano un rischioso genere di lotta. Devono ricorrere a cadute all'indietro che non sono sicure per il lottatore e a prese con le quali la vittoria può essere ottenuta cadendo. Devono essere abili nei vari sistemi di strangolamento. Solo morsi e graffi sono vietati. Gli spartani ammettono financo questi ultimi, ma gli ellanodici e le norme vigenti nei giochi di Olimpia li escludono, sebbene sia consentito lo strangolamento". Immagini significative di questa disciplina sono offerte dalle pitture delle anfore panatenaiche, ma l'opera d'arte più eloquente e più celebre è sicuramente il gruppo dei Pancratisti conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze. In molte pitture vascolari compaiono atleti che afferrano un piede dell'avversario per fargli perdere l'equilibrio.
Fra tutte le discipline olimpiche, il pancrazio, che esprimeva una violenza così brutale, è stata l'unica ad avere caratteristiche estranee agli ideali religiosi e alle tradizioni sacrali collegate all'agonismo dell'antica Grecia. A causa della crudeltà dei combattimenti, ai giovani fu consentito di disputare questa gara solo in poche edizioni; in seguito la prova fu cancellata dal programma e riservata unicamente agli adulti.
Con la LXV Olimpiade (520 a.C.) si ebbe un'importante innovazione: l'inserimento dell'oplitodromìa, la corsa con le armi, che si disputava sulla distanza di 2 o, forse, 4 stadi e si svolgeva al termine delle altre competizioni, chiudendo il programma delle gare, quasi a dimostrare che si trattava di una prova a sé stante rispetto alle altre. Questa faticosissima disciplina doveva essere conosciuta già molto prima del 520 a.C. e si può supporre che sia stata introdotta tardi nei Giochi Olimpici per il fatto che queste feste rimasero a lungo riservate a classi privilegiate di atleti.
La corsa degli opliti, elemento base della falange greca, rispondeva pienamente al precetto dell'atleta soldato. L'efficacia preparatoria della corsa armata viene esaltata da Erodoto nel suo racconto sulla battaglia di Maratona (490 a.C.), ove descrive i persiani sbigottiti di fronte ai soldati ateniesi i quali, evidentemente ben addestrati, li avevano affrontati, correndo armati di scudo e lancia, con un'agilità mai vista sui campi di battaglia. Sulle origini della gara si soffermano anche Pausania, Plutarco, Eliodoro. In particolare Filostrato scrive: "la corsa degli opliti a Olimpia, come tramandano gli elei, fu introdotta per questo motivo: gli elei erano in guerra con la città di Dime […] e proprio nel giorno dei Giochi Olimpici un oplita giunse di corsa dal campo di battaglia allo stadio per portare l'annunzio della vittoria [...] . Io credo, però, che l'origine della corsa con le armi sia un'altra; ritengo infatti che sia stata istituita per motivi di carattere bellico ed essa compare al termine delle competizioni in quanto lo scudo simboleggia la guerra e, con la fine della tregua sacra, v'è bisogno di addestrarsi con le armi".
La gara, nonostante non raggiungesse il prestigio delle altre, fu molto popolare e divenne soggetto prediletto di molti artisti, scrittori o pittori. Dalle loro opere si rilevano molti dettagli tecnici: gli atleti dovevano percorrere la distanza in assetto di guerra, indossando un elmo di metallo e gli schinieri alle gambe, e imbracciando un pesante scudo di bronzo, talora ricoperto di cuoio e una lancia. Si apprende da Pausania che a Olimpia erano a disposizione degli oplitodromi 25 scudi di bronzo di identiche dimensioni, in maniera che i corridori potessero gareggiare con armi di eguale peso e ingombro. Dal numero degli scudi citati si può immaginare che prendesse parte alla gara un gran numero di concorrenti, ma non si ha notizia di batterie eliminatorie. La durezza della competizione è testimoniata dal fatto che non fu mai permesso ai più giovani di praticarla e che, nel corso di successive Olimpiadi, si decise di alleggerire la bardatura. Le pitture delle anfore panatenaiche testimoniano, infatti, che l'uso dei gambali e delle lance scomparve intorno al 450 a.C.; da allora fu concesso agli atleti di indossare solo elmo e scudo. Non va dimenticato, tra l'altro, che la gara si svolgeva in un periodo di caldo torrido.
Testimonianze letterarie a parte, poche altre discipline agonistiche hanno ottenuto dall'arte figurativa greca le stesse attenzioni riservate all'oplitodromìa. È di particolare interesse una statuetta conservata nel Museo di Tubinga: il corridore è raffigurato al momento della partenza, teso allo scatto, con il piede destro poco più indietro del sinistro, quasi a toccarlo; le ginocchia sono leggermente piegate, il busto è inclinato e il braccio destro è proteso in avanti, per consentire all'atleta di mantenere l'equilibrio, reso precario dalla pesantezza delle armi indossate. Su un'anfora panatenaica esposta nel Museo del Louvre, un oplitodromo è raffigurato in un atteggiamento di gara quasi identico a quello descritto precedentemente. Su un altro reperto, sempre conservato al Louvre, il cosiddetto vaso di Eufronio a figure rosse, sono rappresentati alcuni preliminari della partenza: un atleta si accinge a indossare le armi, altri compiono esercizi di riscaldamento; accanto a loro spicca la figura di un ellanodico che indossa un manto color porpora. Su un calice conservato a Berlino viene data la descrizione più completa della corsa con le armi: vi compaiono tre atleti che rappresentano tre diverse fasi della competizione; sulla destra è dipinto un corridore che si accinge alla partenza nella classica posizione di attesa già rilevata nella statuetta di Tubinga; a sinistra è raffigurato un secondo atleta nell'atto di voltarsi per controllare gli avversari, prima di girare attorno al palo per l'inversione di corsa; il terzo corridore che guida la gara occupa la posizione centrale del dipinto. Infine, su un vaso panatenaico a figure rosse e conservato nel British Museum, troviamo raffigurata la fase finale della corsa: il vincitore, un atleta barbuto, taglia il traguardo, rivolge uno sguardo trionfante verso gli avversari e si toglie l'elmetto con un gesto liberatorio, mentre uno degli atleti sconfitti scaglia lontano lo scudo, con stizza. Lo stile di corsa degli oplitodromi, come è rappresentato nei dipinti, è abbastanza simile a quello dei velocisti ma, in questo caso, gli artisti rispettano sempre la simmetria del movimento braccio-gamba; infatti, il braccio sinistro si muove in opposizione con la gamba destra e viceversa. Un'altra differenza riguarda il piede di appoggio che compare sempre adagiato completamente sulla pianta; evidentemente questa posizione era adottata per permettere agli atleti, appesantiti dalla bardatura, un migliore appoggio a terra. Le pitture vascolari forniscono anche elementi sulle caratteristiche fisiche degli oplitodromi, generalmente rappresentati con un fisico assai dotato e armonioso; la lunghezza del tronco è proporzionata a quella delle gambe. Filostrato riteneva che questa caratteristica fosse essenziale per praticare con successo la disciplina.
In questa specialità, disputata durante la LXXIV Olimpiade (484 a.C.), colse la vittoria il primo atleta di origine africana, Mnaseas di Cirene. Quattro anni dopo un altro concorrente, Astylos di Crotone, ottenne un record ineguagliato dimostrando straordinarie capacità di corridore: si aggiudicò tre vittorie, nella oplitodromia, nello stadio e nel diaulo.
In origine nei giochi panellenici gli atleti erano distinti per età in due sole categorie: giovani e adulti. Rispettando questo criterio, a Olimpia, a partire dalla XXXVII Olimpiade (632 a.C.), furono organizzate competizioni riservate ai giovani con un programma che prevedeva unicamente gare di corsa e di lotta. Nell'edizione successiva e solo in tale occasione, fu inserito il pentathlon, poi soppresso in quanto ritenuto specialità troppo faticosa per i ragazzi. Nella XLI Olimpiade (616 a.C.) i giovani furono ammessi a gareggiare, in una categoria a loro riservata, anche nel pugilato. Il programma delle prove per i giovani fu completato con l'inserimento del pancrazio, in occasione della CXLV Olimpiade (200 a.C.); questo però fu in seguito cancellato dai Giochi, come già detto, per la pericolosità dei combattimenti che recavano danni irreversibili ai contendenti. Non fu, invece, mai consentito ai giovani di gareggiare nella estenuante corsa con le armi.
Gli ellanodici non applicarono la discriminante dell'età con criteri rigidi. Sebbene la regola generale stabilisse che il giovane fosse da considerare tale sino al compimento dei 18 anni, la discrezionalità dei giudici era totale. A loro giudizio l'atleta, indipendentemente dall'età, poteva essere escluso dalle competizioni se non era considerato sufficientemente robusto per sostenere la fatica delle gare, oppure poteva essere ammesso direttamente alla categoria degli adulti, nel caso avesse una costituzione fisica idonea.
Il mondo greco attribuì un grandissimo valore alle vittorie conseguite dai giovani, ritenendole, simbolicamente, un benaugurante auspicio per il futuro delle genti e delle pòleis alle quali essi appartenevano.
di Mario Pescante
I Giochi Olimpici scomparvero nel 393 d.C., dopo 293 edizioni e dopo 1169 anni dalla loro istituzione. La loro fine fu decretata da Teodosio I, imperatore romano d'Oriente e d'Occidente, su invito di Ambrogio, vescovo di Milano. Prima di esaminare e approfondire gli eventi politici e religiosi che portarono all'intervento dell'imperatore, sarà utile soffermarsi su un fatto storicamente incontestabile: l'inizio del declino dei Giochi non coincise con vistosi eventi esteriori ma fu avvertito gradualmente e molto lentamente. Esso va collegato ai vari avvenimenti che caratterizzarono la storia ellenica per un millennio ma, soprattutto, alle tante deviazioni che progressivamente snaturarono lo spirito e i valori dell'agonistica, nell'ambito del più generale e definitivo tramonto delle tradizioni classiche greche.
I primi segni premonitori di questo processo sono avvertibili già nel 6° sec. a.C., due secoli dopo la prima edizione dei Giochi. Ma ancora prima di questa data si erano levate voci, se non di critica, quanto meno di parziale dissenso nei confronti del ruolo attribuito all'agonismo nel contesto civile e sociale della pòlis. Ciò accadeva già nel 7° secolo a Sparta, dove il culto della prestanza fisica era molto forte ma dove ancora più sentita era la necessità di indirizzare le qualità fisiche dei cittadini a beneficio della comunità e non all'esaltazione o al vantaggio individuali. Sin dall'inizio dei Giochi, dunque, non mancarono le critiche, anche se non erano rivolte contro lo spirito di competizione né erano legate a sintomi di malessere dell'agonistica. L'atletismo non era avversato in quanto tale, ma per la sua collocazione esagerata nella scala dei valori sociali. Intellettuali e scuole filosofiche non potevano accettare il fatto che i grandi campioni fossero onorati come semidei successori di Ercole e vantassero titoli come mònos kaì pròtos ("unico e primo") o come pròtos anthròpon ("primo tra gli uomini"). La vittoria negli antichi giochi arrecava al trionfatore non solo grande fama, ma, con il trascorrere del tempo, anche vantaggi materiali e privilegi. Ad Atene gli olimpionici, oltre a ricevere premi in denaro, erano esentati dalle tasse ed erano mantenuti a spese della pòlis. A Sparta avevano il diritto di sedere accanto al re nelle cerimonie pubbliche, in loro onore si erigevano statue e si procuravano loro sistemazioni profittevoli, carriere e cariche pubbliche. A Messene ai vincitori dei giochi veniva assicurato lo stesso trattamento riservato ai cittadini che avevano acquisito particolari benemerenze. Tra i riconoscimenti più tangibili vi era la dichiarazione di aneisphòroi ("esentati dalle tasse"). Il passo dai successi nello stadio a quelli nell'agorà era divenuto troppo agevole e pertanto era naturale che destasse invidia e animosità.
Con il tempo le censure non si limitarono ad avere come obiettivo l'esasperata esaltazione dei campioni, ma furono indirizzate indiscriminatamente contro gli atleti e la stessa attività agonistica. Il contrasto conobbe posizioni sempre più radicali, fino a raggiungere accenti di vera e propria aperta invettiva. Questo atteggiamento è riscontrabile in moltissime opere letterarie del 5° sec. a.C. Per es. in un frammento della commedia andata perduta Autolycos di Euripide compare un giudizio molto severo: "Di tutti gli innumerevoli mali che affliggono la Grecia, nessuno certo è peggiore della razza degli atleti. [...] Essi non sono capaci di sopportare la miseria, né di comportarsi bene quando la sorte è loro favorevole e, non avendo esercitato il carattere alla costanza, cadono nell'avvilimento in caso di cambiamento di fortuna. Da giovani si aggirano in vesti pregiate e si credono l'ornamento della città, ma quando sopraggiunge la vecchiaia in tutta la sua asprezza sono messi da parte come mantelli laceri". Con Socrate il distacco tra ideale agonistico e qualità intellettuali prende contorni ancor più distinti ed evidenti: il filosofo, che pure si occupa della educazione dei giovani dal punto di vista sia intellettuale sia fisico, accusa l'atletismo di curare troppo la specializzazione, arrecando danni irreversibili allo sviluppo armonico del corpo. Alla stessa epoca risalgono le critiche contro l'agonismo dei sofisti che ritenendo fondamentali i valori intellettuali quali la dialettica e la retorica, intese come arti della persuasione indispensabili per affermare la supremazia politica, giudicano le attività del corpo, ivi comprese quelle collegate all'agonistica, subordinate all'educazione intellettuale. Sentimenti ostili e spregiativi sono espressi anche in Platone che pure considera gli esercizi fisici una componente fondamentale per l'educazione dei giovani e la ginnastica una "scienza non inferiore alla filosofia". Nel Timeo, infatti, elogia la cultura fisica come elemento indispensabile per lo sviluppo armonioso della personalità umana, ma, allo stesso tempo, si scaglia contro l'agonismo esasperato che deve essere bandito poiché porta gli atleti "al culto della brutalità, indebolendone sia il fisico sia l'intelletto". Nella polemica si inserisce anche Aristotele, il quale a proposito dei danni prodotti dalla precoce specializzazione atletica annota che un giovane, se vince a Olimpia gareggiando nella categoria ragazzi, raramente ripete i successi da adulto. Viene spontaneo, al riguardo, rilevare che ancora oggi dopo 25 secoli si discute sui danni del precoce avvio all'agonismo di molti adolescenti, che ottengono in giovane età risultati che da adulti non riescono a confermare.
Allorché il decadimento degli ideali dell'olimpismo si fece più visibile, le accuse ebbero come obiettivo la venalità degli atleti e la loro sete di denaro. Con il passare del tempo, i campioni avevano preteso riconoscimenti sempre più tangibili, non bastando le simboliche corone di ulivo e di alloro a soddisfarne la vanità. Di conseguenza il valore intrinseco dei premi divenne sempre più significativo. D'altra parte non c'era da sorprendersi per quelle pretese, dal momento che perfino leggi di Stato stanziavano somme cospicue a favore degli atleti che si affermavano nei giochi panellenici. Abbiamo già ricordato come il legislatore ateniese Solone, grande e convinto sostenitore del valore formativo dell'atletica e della sua importanza dal punto di vista politico e sociale, stabilisse un premio in denaro di 500 dracme per i vincitori delle Olimpiche e di 100 dracme per le Istmiche (alla fine del 5°sec. a.C. la paga di un oplita o di un artigiano ateniese era di una dracma al giorno). Nel 1° sec. a.C. Cicerone ebbe a dire che un generale romano riceveva, per i suoi trionfi, onori e ricompense minori rispetto a quelle di un vincitore di Olimpia.
Eccessi e sete di denaro furono le premesse dei primi casi di corruzione, tentati o consumati. L'oratore ateniese Lisia, in occasione della XCVIII Olimpiade (388 a.C.), pronunciò la famosa orazione Olympiakòs contro la degenerazione dell'agonismo e in difesa della purezza degli ideali olimpici. Ma il malcostume dilagante non colpì solo i concorrenti, fece vittime anche tra gli ellanodici: durante la XCVI Olimpiade (396 a.C.) Leon d'Ambracia, battuto da Eupolemos di Elide nella corsa veloce, accusò il vincitore di averlo volontariamente danneggiato; uno dei tre giudici accolse il reclamo, gli altri due lo respinsero; Leon non accettò il verdetto e accusò di corruzione gli ellanodici che gli avevano dato torto; il Gran Consiglio diede ragione all'atleta e punì con l'espulsione i giudici colpevoli. Secondo la tradizione delle regole olimpiche, il verdetto della gara non fu revocato e il nome di Eupolemos continuò a comparire in tutte le liste degli olimpionici. Ciò fa pensare che per la 'giustizia sportiva' dell'epoca il risultato finale della competizione avesse un carattere quasi sacrale e pertanto fosse, in ogni caso, definitivo e irrevocabile, una volta accertato sul campo di gara. Un altro scandalo riguardante un giudice fu denunciato in occasione della CII Olimpiade (372 a.C.), quando un ellanodico di nome Troilos, nonostante la sua qualifica, iscrisse propri cavalli alle prove ippiche, aggiudicandosi due allori. Scrive Pausania che il risultato finale della gara fu evidentemente condizionato dal fatto che Troilos appartenesse al corpo dei giudici. Il suo comportamento fu severamente censurato dal Gran Consiglio ed egli fu scacciato da Olimpia per indegnità, ma la vittoria restò confermata. In conseguenza del deplorevole episodio, da quel momento fu impedito agli ellanodici, con apposite norme, di prendere parte alle competizioni.
La conquista romana, che produsse il disgregamento definitivo delle pòleis, ebbe anche notevoli e decisive ripercussioni sul destino olimpico. Sebbene per quanto riguarda i giochi i romani non imposero la legge del vincitore ma accettarono le regole, rispettarono i riti, onorarono gli dei della città sacra, con il passare del tempo la loro decisiva influenza sul definitivo decadimento dei costumi della società ellenica incise anche sui valori dell'atletismo.
Un rischio grave fu corso dalle Olimpiadi quando Silla nell'80 a.C. decise di farle disputare a Roma: tutti gli atleti furono invitati nell'Urbe, cosicché a Olimpia si svolse una sola gara riservata ai ragazzi. Forse Silla mirava a un trasferimento in via definitiva, ma morì e il suo proposito non fu mai messo in atto.
A prescindere da questo singolo episodio, ciò che più influenzò negativamente il destino dei giochi fu la loro trasformazione in manifestazioni che non avevano più nulla in comune con le originarie feste di Olimpia. I romani non amavano l'agonismo greco, l'agòn era estraneo alla loro cultura, né deve trarre in inganno il fatto che Roma ospitasse gare vere e proprie, denominate ludi maximi. Infatti, i protagonisti di queste competizioni erano schiavi o comunque reclutati dai ceti più modesti, nelle campagne e soprattutto nelle colonie; gareggiavano per divertire spettatori che, abbrutiti dalle guerre, preferivano spettacoli eccitanti, quali le competizioni tra professionisti, se non addirittura le lotte tra gladiatori. Su questa falsariga anche in Grecia si affermò un nuovo tipo di atleti per i quali non contava certo che fosse decantata la loro origine divina, ma di cui le caratteristiche erano piuttosto la sete di denaro, la corruttibilità, la tracotanza. Nacque cioè la professione di atleta, in cui l'abilità agonistica diventò fonte di guadagno. Prendere parte alle gare non era più una scelta, era un modo per trovare un'occupazione. Prosperò una particolare categoria di competitori, i cosiddetti periodonìcai, ossia coloro che avevano ottenuto l'alloro nei quattro Giochi panellenici, Olimpici, Pitici, Istmici e Nemei. Gli organizzatori facevano a gara nel contenderseli, offrendo loro ingenti somme di denaro per ingaggiarli. Fu creata un'apposita curia per proteggere gli interessi della categoria (una specie di sindacato ante litteram) e si costituirono varie corporazioni di atleti professionisti.
Nel momento in cui le doti naturali e gli allenamenti non specializzati non furono più sufficienti ad assicurare il successo, acquistò grande importanza il ruolo degli allenatori a tempo pieno. Con il loro apporto l'addestramento divenne scientifico, programmato, finalizzato ed essi furono ben retribuiti, a volte anche a spese dell'erario. Notevole influenza ebbero dal 2° sec. d.C. gli scritti di Galeno, dopo Ippocrate il medico più insigne dell'antichità, a cui va attribuito il merito di avere messo l'accento sull'importanza della ginnastica non solo per il benessere fisico ma anche per la formazione del carattere dei giovani. Sostituendo agli esercizi elementari dei secoli precedenti, così aderenti al modo di vivere e alle abitudini semplici del popolo greco, un sistema scientifico di preparazione fisica, Galeno indicò minuziosamente gli esercizi da suggerire ai giovani fra i 14 e i 21 anni, distinguendo tra quelli destinati a rafforzare gli arti superiori e quelli utili per il tronco e gli arti inferiori, e classificandoli in tre differenti categorie. Alla prima appartenevano gli esercizi atti a tonificare i muscoli, senza effettuare movimenti violenti o a strappo; fra gli esempi consigliati figuravano lo zappare, il salire su una fune o il trasportare pesi. Una seconda categoria era rappresentata dagli esercizi 'rapidi' che favorivano l'agilità, come una serie di movimenti delle braccia e delle gambe, il gioco della palla, la corsa, il camminare in punta di piedi, muovendo in maniera coordinata le braccia, il saltellare in avanti e indietro. Infine una terza serie di esercizi, definiti 'violenti', consisteva nella ripetizione, in rapida successione e senza pause, dei movimenti indicati nella seconda categoria. Galeno diede anche indicazioni sui massaggi da effettuare prima e dopo gli allenamenti e sulla durata degli esercizi, e raccomandò di avvalersi di istruttori specializzati, i gymnàstes, i quali avevano il dovere di prepararsi scientificamente. La dottrina galenica ebbe una grandissima influenza anche nei secoli seguenti, tanto da venir adottata integralmente nel Rinascimento. Si deve notare, però, che nel proporre la sua ginnastica come l'unica forma di attività fisica capace di produrre innegabili benefici, Galeno biasimava gli eccessi dell'agonismo specializzato che, praticato senza il controllo medico, procurava danni irreversibili alla salute. Secondo Galeno, inoltre, l'attività degli atleti, diventata sempre più artificiosa, oltre che nuocere alla salute, li rendeva inadatti alla vita di tutti i giorni.
Le posizioni critiche verso l'agonismo compresero altresì disquisizioni sul regime alimentare. Alle origini dell'agonistica la dieta degli atleti era per lo più vegetariana, così come lo era quella della gente comune che si nutriva dei prodotti dei campi, ma già nel 2° sec. a.C., le abitudini alimentari si erano modificate, prevedendo pasti più sostanziosi e variati. Questa modifica alle vecchie abitudini alimentari fu consigliata dallo specialista Pitagora, omonimo del filosofo di Samo, che suggeriva di aggiungere all'abituale dieta di formaggio e fichi, cibo prediletto dagli atleti, abbondanti porzioni di carne. Con il passare del tempo, divenne sempre più diffusa un'alimentazione basata su abbondanti libagioni per aumentare la mole corporea, in particolare nelle discipline da combattimento. Le prove sulle disarmonie fisiche che simili regimi procuravano agli atleti professionisti risultano evidenti dalle testimonianze archeologiche. Significativa è la statua conservata al Museo di Napoli conosciuta come l'Ercole Farnese, copia da un originale di Lisippo, che raffigura un atleta dalle forme sproporzionate e massicce, estranee all'ideale classico del 5° secolo. Un'altra immagine emblematica è quella del Pugilatore in riposo, esposta al Museo delle Terme di Roma.
Gli atleti non furono l'unico obiettivo dei critici dell'agonismo. Non mancarono accuse nei confronti del pubblico, colpevole di esaltarsi con dissennata e incontrollata passione per le imprese dei campioni. A questo riguardo appare significativo il commento di Dione Crisostomo che, nella sua orazione Agli alessandrini, dedica molta più attenzione al comportamento degli spettatori che agli atleti, con argomenti e riflessioni che mantengono ancora oggi una straordinaria e stupefacente attualità. Analogamente il dialogo Anacarsi dello storico Luciano di Samosata (2° sec. d.C.), che presenta un vivace ritratto del mondo agonistico greco, si sofferma sulle perplessità che il principe degli Sciti espresse a Solone sulla esagerata attenzione rivolta dai greci verso i loro giochi e in particolare sulla loro passione sfrenata per le corse dei carri.
Le unanimi condanne di Luciano, di Filostrato e di Galeno sono sintomatiche dell'atteggiamento degli intellettuali dell'epoca che, stigmatizzando il predominio dello spettacolo sull'originaria atmosfera quasi sacra dei giochi, invocavano un ritorno all'antico. Ma il professionismo, la corruzione, gli eventi militari e politici, uniti all'affievolimento o alla scomparsa delle credenze pagane, avevano ormai eroso l'essenza stessa dei Giochi Olimpici snaturandola prima, spegnendola poi.
Secondo un giudizio diffuso, l'evento che più di altri ebbe una influenza determinante sulla fine dei Giochi dell'antica Grecia fu l'avvento della religione cristiana e il suo rapido diffondersi in tutto l'Impero Romano. Nel 4° secolo il cristianesimo, sopravvissuto a un lunghissimo periodo di persecuzioni a cui pose fine nel 313 l'Editto di Milano promulgato da Costantino il Grande, trionfò e si avviò a diventare religione di Stato. In un clima di fervore religioso, moralisti e scrittori cristiani, che palesavano la loro avversione per tutte le celebrazioni ispirate o in qualche modo collegate alle feste e ai riti pagani, manifestarono lo stesso atteggiamento di ripulsa anche nei confronti dell'agonismo. Sono numerosi gli scritti dei Padri della Chiesa che esortano i cristiani a resistere alle infatuazioni dei ludi agonali. In particolare in sant'Agostino la deprecazione degli spettacoli atletici assume accenti sferzanti.
In realtà non tutte le voci del mondo cristiano furono di condanna inappellabile verso l'agonismo. Altri Padri della Chiesa anzi cercarono di rendere più comprensibile il loro insegnamento facendo ricorso a metafore tratte dall'ambito dell'atletica. Eusebio, vescovo di Cesarea, autore della Storia ecclesiastica e che compilò tra l'altro una lista dei vincitori olimpici sino alla CCL Olimpiade, riprendendo un'immagine di san Paolo definiva atleti "i buoni cristiani timorosi di Dio". Metodio, vescovo in Licia, sosteneva l'utilità dell'esercizio fisico per la formazione e l'educazione della gioventù. Vi è, dunque, più di una testimonianza che consente di respingere la tesi radicale di coloro che indicano esclusivamente nel cristianesimo la causa della soppressione dei Giochi, quale conseguenza dell'avversione contro l'agonismo e l'esercizio fisico, in nome della cultura dello spirito. In realtà non ci fu una esplicita condanna dell'atletismo fine a sé stesso, ma una dura censura del modo in cui era organizzato e praticato e delle sue forme, ritenute prive di contenuti ideali.
La data ufficiale di cessazione dei Giochi Olimpici è fissata concordemente nel 393 d.C., in coincidenza con la CCXCIII Olimpiade. La sentenza di condanna fu decretata dall'imperatore Teodosio I con l'Editto di Costantinopoli, ma non si trattò di una pronuncia diretta e specifica per i Giochi di Olimpia, la cui scomparsa fu, in realtà, un avvenimento marginale e complementare rispetto al decreto imperiale.
Il precedente dell'Editto di Costantinopoli furono i violenti tumulti scoppiati nel 390 d.C. durante alcune gare circensi a Tessalonica (l'odierna Salonicco). Per ordine di Teodosio la ribellione fu repressa nel sangue e migliaia di civili furono trucidati. Ambrogio, all'epoca potente vescovo di Milano e che esercitava una fortissima influenza sull'imperatore, condannò apertamente la decisione di Teodosio, indicandolo come colpevole di un grave misfatto, che solo un atto pubblico di espiazione avrebbe potuto mitigare. Teodosio nell'imminenza del Natale dell'anno 390 fece atto di sottomissione alla Chiesa e da quel momento si eresse a paladino della religione cristiana, dando inizio a una persecuzione implacabile contro ariani e pagani. Il decreto che imponeva l'ordine di chiusura dei templi e il divieto di osservare culti e riti pagani fu inviato dapprima al prefetto urbano Albino, poi a quello dell'Egitto e infine diramato da Costantinopoli in tutto l'Impero, l'8 novembre 392. In conseguenza di questo provvedimento venivano vietati i giochi atletici che alimentavano ancora pericolose sopravvivenze di quella paganità che il cristianesimo combatteva. Fu così che Olimpia venne indirettamente raggiunta dal proclama dell'Imperatore. L'anno seguente la CCXCIII edizione dei Giochi non fu celebrata.
Per il periodo precedente al decreto di Teodosio non si hanno notizie sui vincitori dei Giochi Olimpici. L'araldo di Sinope Valerius Eclectus, vincitore di quattro agoni dal 245 al 261, sembra quasi assumersi il compito di proclamare, con i suoi ultimi virtuosismi, la fine delle feste olimpiche. Man mano che ci si approssima alla stagione finale dei Giochi le notizie sulle gare disputate e sui nomi dei vincitori si fanno sempre più labili e confuse. Non ci sono tracce dei Giochi che, a regola di calendario, avrebbero dovuto effettuarsi nel 265 e nel 273. Si arriva così all'anno 277 (CCLXIV Olimpiade) e tale Aurelius Sarapammon, egiziano di Ossirinco, compare tra i vincitori, ma non si individua in quale gara. Da allora Olimpia, per circa un secolo, sembra diventare un deserto, terra di nessuno. Le liste aggiornate degli olimpionici non sono in grado di registrare un solo nome di atleta sino al 369 d.C. (CCLXXXVII Olimpiade). In questa edizione, l'armeno Varazdate, unico barbaro che abbia vinto un titolo olimpico, coglie la vittoria nel pugilato. Dalla CCLXXXVIII sino alla CCXCIII (393 d.C.) l'Olimpiade sprofonda nuovamente nel buio e non si ha traccia né dei nomi dei vincitori né delle gare disputate. L'eclisse dei Giochi era ormai questione di giorni.
di Mario Pescante
I primi tentativi per recuperare le vestigia di Olimpia risalgono all'inizio del Settecento. L'antesignano delle ricerche fu il veneziano Angelo Maria Querini, arcivescovo di Corfù, ispiratore di varie iniziative culturali, che iniziò una serie di scavi in Elide per riportare alla luce i resti di Olimpia. Ma il Peloponneso, che i Veneziani avevano conquistato alla fine del Seicento, era stato da poco restituito ai turchi e, di conseguenza, l'iniziativa di Querini non ebbe seguito. Anche Johann Joaquim Winckelmann fu attratto dal fascino di Olimpia. All'inizio del 1768, due anni dopo che l'inglese Richard Chandler aveva identificato la località, annunciò di voler "riportare alla luce lo stadio olimpico con cento operai" e chiese un permesso speciale alle autorità turche; fu ucciso qualche mese dopo e nessuno proseguì la sua impresa.
Nel 1824 Lord J. Spencer Stanhope pubblicò una mappa completa e dettagliata della zona archeologica di Olimpia. I primi ritrovamenti sicuri del tempio di Zeus furono merito, nel 1829, della Expédition scientifique de Morée, operante al seguito delle truppe francesi alleate dei greci nella guerra di liberazione contro i turchi: in sole sei settimane di lavoro, l'architetto Abel Blouet e i suoi collaboratori liberarono l'area del tempio, individuando tutti i principali elementi di fondazione e recuperando, tra l'altro, i frammenti delle metope che ora sono esposti nel Museo del Louvre di Parigi. Dopo poco, il governo greco, temendo di non poter mantenere il controllo sui ritrovamenti, impedì ulteriori ricerche.
I veri e propri scavi furono svolti tra il 1875 e il 1881 sotto la guida dei tedeschi Ernst Curtius e Friedrich Adler. Nel 1852 Curtius, docente di storia greca all'Università di Berlino, tenne una conferenza sui Giochi Olimpici alla presenza del sovrano prussiano Federico Guglielmo IV e di suo fratello, il futuro kaiser Guglielmo I, del quale Curtius era stato per qualche tempo istitutore, ipotizzando una missione archeologica per riportare alla luce i resti di Olimpia e sollecitando un accordo diplomatico in tal senso tra Prussia e Grecia. L'iniziativa non ebbe seguito a causa della guerra di Crimea. Ventidue anni dopo, salito al trono della nuova Germania unificata Guglielmo I, Curtius con l'appoggio del principe ereditario Federico ottenne la firma del sospirato accordo. Il governo greco si riservò la proprietà su tutte le scoperte, riconoscendo ai ricercatori il diritto di pubblicare, per primi, libri e informazioni sugli scavi, di ricavare calchi e di prelevare qualche reperto di minor valore. Del gruppo di esperti diretti da Curtius e Adler facevano parte rinomati architetti e studiosi tedeschi, tra i quali Wilhelm Dörpfeld, considerato un precursore dell'archeologia scientifica. Furono riportati alla luce un insieme imponente di templi ed edifici, l'antico stadio, tracce dell'ippodromo, il ginnasio, oltre 13.000 oggetti di bronzo, circa 500 iscrizioni, migliaia di monete, terrecotte, monili e 130 grandi sculture. Tra il 1876 e il 1881 le scoperte furono illustrate attraverso la pubblicazione dei resoconti delle varie campagne di scavo, cui fecero seguito i cinque volumi di testo e quattro di tavole di Olympia. Die Ergebnisse der von dem deutschen Reich veranstalteten Ausgrabung (1890-1898), dove erano descritti, in modo coordinato, tutti i reperti e le informazioni che da quei ritrovamenti si potevano dedurre. Analogamente a quanto era avvenuto per Troia, riportata alla luce da Schliemann, la riscoperta di Olimpia ripropose all'opinione pubblica il fascino immortale degli antichi miti olimpici. Dopo oltre quindici secoli Olimpia tornava così a rivivere.
Le origini della città sacra di Olimpia, come quella dei suoi Giochi, si perdono lontano nel tempo, confondendosi nella leggenda e nel mito. La tracce di vita più remote comparse nella regione vengono fatte risalire dagli storici all'elladico medio (metà del 2° millennio a.C.) e più precisamente all'epoca delle migrazioni di popoli settentrionali che, provenienti dal golfo di Corinto, si riversarono nella penisola del Peloponneso. Queste popolazioni, appartenenti alla mitica razza pelasgica, nella loro marcia verso sud occuparono anche la piana ove venne fondata Olimpia, che per la sua posizione geografica costituiva un'importante via di comunicazione tra le regioni settentrionali e quelle meridionali del Peloponneso. Alla vasta pianura, infatti, si accedeva agevolmente sia da terra, percorrendo le strade costiere che partivano da Corinto, sia dal mare, attraverso l'ininterrotta curva di coste sabbiose che offriva facili approdi a marinai e mercanti, sia risalendo l'Alfeo, a volte navigabile. Ai primi insediamenti pelasgici i greci facevano risalire l'origine dei culti olimpici e delle più antiche divinità elleniche quali Gea, madre di tutti gli esseri viventi, e Kronos, figlio di Gea e di Urano e padre di Zeus. Sulle pendici del monte Kronion, che dal dio Kronos prendeva il nome, nacquero i primi altari ove venivano offerti i rituali sacrifici. Altre are, formate da semplici pietre sovrapposte, furono in seguito erette per celebrare Rea, madre di Zeus ed Era, sposa del re dell'Olimpo. All'epoca degli achei la collina di Kronion venne consacrata a Zeus olimpio, donde il luogo del culto del padre degli dei sarà, in seguito, chiamato Olimpia.
La crescita religiosa, politica e culturale del Peloponneso si data agli inizi del 12° secolo a.C. con l'invasione dei dori, popolo proveniente dalla regione danubiana, giunto in parte attraverso l'Illiria e l'Epiro e in parte attraverso la Macedonia e la Tessaglia, che si riversò lungo tutta la penisola, occupando anche la zona nord-ovest del Peloponneso, denominata Elide. La maggior parte degli abitanti della regione non viveva in città, ma in villaggi non fortificati. Le principali risorse erano costituite dai prodotti dell'agricoltura e degli allevamenti di cavalli che venivano scambiati con i mercanti cretesi e fenici che risalivano l'Alfeo. In questa terra gli invasori si fusero in un unico ceppo con i precedenti abitanti, prendendo l'appellativo di elei dal nome del territorio occupato. Per tutta l'antichità l'Elide rimase una regione agraria, con scarsa urbanizzazione. Soltanto nel 472 a.C. fu creata la pòlis di Elide, attraverso l'unione spontanea di più villaggi e di diverse tribù. Per questo motivo gli studiosi si sono chiesti come questa regione abbia potuto conquistare il privilegio di ospitare i giochi più importanti dell'antica Grecia. Almeno in parte la risposta sta proprio nell'irrilevanza politica e militare dell'Elide: i giochi erano organizzati dappertutto dalle autorità locali e quanto più modesta era quell'autorità, tanto minore era il pericolo che il prestigio di una grande festa ne rendesse eccessiva l'influenza e il potere politico.
Olimpia occupava una pianura non molto vasta sulla riva destra del fiume Alfeo, a cui ancora oggi i monti dell'Elide e dell'Arcadia che si profilano all'orizzonte, i vigneti, gli olivi, i cipressi, la vegetazione lussureggiante di pioppi e persino palme donano un suggestivo carattere. La collina del Kronion, alle cui pendici giaceva la città sacra, era ricoperta da un bosco di querce, pini e ulivi selvatici, chiamato in greco àlsos, da cui derivò la forma dialettale che diede il nome all'Altis, il recinto sacro dove si svolgevano riti e gare, costituito in origine da un quadrilatero irregolare di 200x157 m circondato da un muro.
Olimpia non ebbe mai le caratteristiche di una città-stato, rimase solo un luogo di culto, un insieme di templi, di edifici e di impianti dedicati alla pratica agonistica, senza che vi fosse una popolazione residente. Il santuario fin da epoca remota, pur essendo politicamente dipendente dalla pòlis dominante della regione e cioè dalle città di Elide in un primo tempo e di Pisa in un secondo, visse una sua vita autonoma, quale centro religioso fra i più venerati e illustri del mondo antico.
Dal 776 al 724 a.C., e cioè per le prime quattordici edizioni, come si è visto, il programma delle Olimpiche prevedeva solo la disputa della gara di corsa veloce, lo stàdion. L'unica struttura esistente destinata alle competizioni era dunque lo stadio. L'ippodromo, le palestre, le foresterie per i concorrenti e per gli ospiti illustri fecero la loro comparsa man mano che il programma delle gare andò arricchendosi.
Del primo stadio si conoscono alcuni elementi grazie alle ricerche archeologiche e alle testimonianze letterarie. Era ubicato nei pressi degli antichi templi dell'Heraion e del Pelopion, mentre l'estremità era in corrispondenza dell'Altis. Si trattava di un edificio di estrema essenzialità, con il campo di gara costituito da una fossa rettangolare livellata e spianata, a fondo sabbioso, scavata nel terreno lungo i fianchi della collina del Kronion. Misurava 213,75 m di lunghezza e 28,60 m di larghezza su un lato, 29,60 m sul lato opposto; su tre lati era contornato da una scarpata erbosa che, secondo calcoli approssimativi, poteva ospitare dalle 20.000 alle 30.000 persone. All'interno dello stadio correva un canale che, a intervalli regolari, si apriva in vasche e portava l'acqua necessaria agli atleti e agli spettatori. In un angolo del campo si trovava il recinto destinato agli ellanodici; sono stati anche rinvenuti i ruderi di un altare ove si ipotizza che officiasse la sacerdotessa della dea Demetra. Un secondo stadio fu costruito, più a nord del primo, in occasione della LVI Olimpiade (556 a.C.). Di proporzioni più ridotte del precedente, era orientato verso il centro dell'Altis. Anche in questo caso si trattava di una costruzione molto semplice, con la linea di partenza per le corse segnata da una pedana di pietra che poteva accogliere sino a venti concorrenti. Intorno alla metà del 4° sec. a.C. l'impianto risultò insufficiente rispetto alle accresciute esigenze del programma olimpico e per far fronte alle crescenti necessità di spazio e di visibilità si costruì, nel 338 a.C., il terzo e definitivo stadio di Olimpia, più spostato verso oriente, in una zona più bassa della precedente. Anch'esso aveva forma rettangolare, di 220 x 30 m circa, ed era fiancheggiato su tre lati da terrapieni che ospitavano fino a 40.000 spettatori. Un portale, sito nell'angolo nord-ovest, lo metteva in comunicazione l'Altis, attraverso una cripta. La linea di partenza per le corse era indicata per tutta la larghezza della pista da una lastra di pietra larga circa mezzo metro, sulla quale, longitudinalmente, a intervalli di 1,20 m, erano sistemati i pali per separare i concorrenti e delimitare le corsie. A differenza degli stadi di altre città greche, quello di Olimpia aveva la fascia di pietra su entrambi i lati, caratteristica dovuta al fatto che nei Giochi Olimpici si correvano distanze superiori allo stàdion. Per non spostare la tribuna degli ellanodici, collocata all'altezza del traguardo, nelle gare di dìaulos e il dòlichos il via veniva dato sulla fascia di pietra opposta alla linea di partenza dello stàdion e la linea di partenza veniva pertanto a coincidere con quella d'arrivo della corsa veloce. Lo stadio, nel quale si svolgevano tutte le gare previste dal programma olimpico a eccezione di quelle equestri, conservò intatta la sua struttura originaria sino alla conquista romana.
Nel 680 a.C. per la XXV Olimpiade venne inaugurato l'ippodromo. La costruzione, che sorgeva tra lo stadio e l'Alfeo, era costituita da un grande spazio aperto, pianeggiante, a forma di ferro di cavallo, a fondo sabbioso, delimitato a nord da una bassa collina e a sud da un terrapieno artificiale, destinati entrambi ad accogliere migliaia di spettatori. Nella parte occidentale presso il portico di Agnaptos, che prendeva nome dal suo costruttore, era collocato l'ingresso dei concorrenti e degli ellanodici; le rimesse dei carri e le stalle per i cavalli furono sistemate, più tardi, in appositi locali in muratura. La pista per le corse era suddivisa in due settori, separati da una corda e più tardi da una palizzata. Ai due estremi erano collocate le mete, attorno alle quali dovevano girare i cavalli per invertire la direzione di corsa: una era posta nei pressi della linea di partenza ed era costituita dall'imponente statua in bronzo di Ippodamia; l'altra era collocata sulla linea di arrivo della gara dello stàdion ed era costituita originariamente da un tronco di colonna di marmo, sostituito, in seguito, da un altare a forma cilindrica. Un nuovo ippodromo fu edificato nel 5° sec. a.C., su progetto dell'architetto Kleoitas, l'inventore del cancello di partenza per le corse con i carri. La costruzione, più grande e complessa della prima, con una pista lunga sei stadi (1153 m), era strutturata a forma di triangolo isoscele.
Tra il 3° e il 2° sec. a.C. vennero realizzate ulteriori strutture ausiliari, quali la palestra e il ginnasio. La palestra era costituita da un quadriportico di stile dorico, con una corte centrale di circa 40 m di lato, sulla quale si aprivano stanze, bagni e sale per allenamenti. Il ginnasio, utilizzato prevalentemente per gli allenamenti, fu edificato da Tolomeo Filadelfo; era il più monumentale degli edifici di Olimpia, comprendendo un vasto spazio, circondato da portici, lungo oltre 200 m e largo 100. Sui lati, in celle parallele ai portici, erano situati gli alloggi per gli atleti.
L'insieme degli edifici, dei templi e delle opere d'arte che arricchirono Olimpia, come il complesso degli impianti destinati alle competizioni, risale a un periodo molto successivo all'inizio dei Giochi. L'unico tempio esistente all'epoca della prima edizione dei Giochi era l'Heraion, dedicato a Hera, sorella e poi sposa di Zeus, regina degli dei. L'edificio, considerato il più antico tra quelli dorici conosciuti, era situato sulle pendici meridionali del Kronion e occupava la maggior parte del limite nordoccidentale dell'Altis. Conobbe varie fasi. La costruzione primitiva, risalente al 9°-8° sec. a.C., innalzata su approssimative fondamenta di pietra, cadde in rovina e fu sostituita da una seconda più vasta, con travature e colonne in legno, una delle quali esisteva ancora ai tempi di Pausania. Il secondo Heraion fu distrutto da un incendio, cosicché, intorno alla metà del 7° sec a.C., fu ricostruito un nuovo edificio con un tetto coperto da grandi tegole rosse e sostenuto da colonne di pietra. L'Heraion, ove era depositato il disco di Ifito, custodiva preziosi tesori, tra cui il tavolo intarsiato d'oro e d'avorio, opera della scuola di Fidia, ornato di bassorilievi rappresentanti dei ed eroi, sul quale erano deposte le corone d'ulivo destinate ai vincitori. Tutte le numerose statue bronzee, crisoelefantine o di marmo pregiato che ornavano l'Heraion sono andate perdute, a eccezione dell'Hermes con Dioniso fanciullo, capolavoro in marmo pario eseguito da Prassitele fra il 330 e il 320 a.C. Nella cripta del tempio era custodita l'arca di Kypselos, una cassa in cedro al cui interno venivano conservati, originariamente, i registri con i nomi di tutti i vincitori dei Giochi.
Dopo l'Heraion, il tempio più antico fu il Pelopion, santuario dedicato dagli achei di Pisa a Pelope, che rappresentò il nucleo iniziale del successivo tempio di Zeus. Sorgeva al centro dell'Altis ed era cinto da una muraglia in pietra che racchiudeva un tumulo di terra alto circa 2 m e largo dai 25 ai 40 m. L'ingresso verso occidente era delimitato da due propilei dorici. Al centro era collocato l'altare dell'eroe, con la sua statua, circondato da una fossa in cui venivano immolati gli arieti.
Tra il 7° e il 5° sec. a.C. dodici città greche, per celebrare le vittorie dei propri atleti, eressero i thesauròi, piccoli templi dorici a forma di cella rettangolare, allineati sopra una terrazza lievemente più alta del terreno dell'Altis, a ridosso del Kronion, e destinati a custodire le offerte votive delle città che li avevano edificati. I sacerdoti di Olimpia vi custodivano inoltre i doni di maggior valore che non potevano rimanere all'aperto. Il primo dei thesauròi fu eretto dagli abitanti di Gela verso la fine del 7° sec. e rimase il più grande. Sulla scorta dei dati forniti da Pausania, sono state identificate le città a cui si riferiscono dieci dei dodici thesauròi olimpici. Otto sono colonie: Siracusa, Gela, Epidamnos, Bisanzio, Sibari, Cirene, Metaponto, Selinunte. Solo due città, Megara e Sicione, facevano parte della madrepatria.
Intorno al 6° sec. a.C. fu innalzato il Prytaneion, un edificio quadrangolare di 33 m per lato appartenente all'amministrazione pubblica del santuario. Nella parte settentrionale si trovava una grande sala (hestiatòrion), dove venivano offerti dagli elei i banchetti in onore dei vincitori e degli ospiti illustri. Sull'altare del Prytaneion, dedicato a Hestia, dea del focolare, ardeva giorno e notte il sacro fuoco di Olimpia alimentato dai sacerdoti in un catino bronzeo. Si fa comunemente risalire a questa tradizione l'adozione del tripode che simbolizza, con la sua fiamma, i Giochi Olimpici dell'era moderna.
Nel 668 a.C. fu iniziata la costruzione del Bouleuterion, sede del Gran Consiglio degli elei. In questo edificio i giudici e gli atleti prestavano il giuramento prima dell'inizio delle gare; vi si custodivano inoltre i regolamenti delle gare e l'elenco dei vincitori dei Giochi, originariamente conservati nell'Heraion.
Nel 5° sec. a.C., quando Olimpia raggiunse il massimo splendore, fu eretto il tempio di Zeus, iniziato nel 468 a.C. e completato nel 457, allorché gli spartani sconfissero ateniesi e argivi a Tanagra. La costruzione, attribuita all'architetto Libone di Elide, era realizzata in calcare marino e conchiglifero; dominava tutto il recinto dell'Altis e costituiva una delle espressioni più sublimi dell'architettura dorica peloponnesiaca. Era uno dei templi più grandi della Grecia: misurava 64 m in lunghezza, 27 in larghezza e raggiungeva un'altezza di 22 m. Sui lati si allineavano tredici colonne. Se ne conservano le sculture dei due frontoni e di dodici metope, opera di un ignoto autore denominato dagli antichi scrittori Maestro di Olimpia e considerate uno dei più importanti complessi scultorei dell'età classica a noi giunti, paragonabile ai fregi del Partenone. La scena del frontone anteriore rievoca la sfida tra Pelope ed Enomao raffigurati nel momento in cui si apprestano a salire sui carri; in mezzo a loro compare Zeus, con lo sguardo rivolto verso Pelope, predestinato alla vittoria, mentre negli angoli sono l'Alfeo e il Cladeo, nelle fattezze di giovani vigorosi. Il gruppo statuario sul frontone posteriore rappresenta il combattimento dei Centauri e dei Lapiti, con al centro Apollo che a Olimpia era venerato quale custode delle regole dei Giochi e del corretto comportamento dei giudici e degli atleti. In fondo alla navata centrale del tempio era collocato lo Zeus crisoelefantino di Fidia, il monumento più celebre di Olimpia. Pausania ne fornisce una particolareggiata descrizione: il dio era raffigurato seduto su un trono di marmo ed ebano, tempestato di pietre preziose, intarsiato con figurazioni mitologiche in oro e ricco di pitture e sculture, con lo schienale, di poco più alto della testa del nume, culminante in statuette sbalzate nell'avorio; Zeus aveva il capo cinto da una corona di foglie d'ulivo, simbolo del trionfo olimpico, nella mano destra aveva la statuetta della vittoria (nìke) e, nella sinistra, uno scettro prezioso sormontato da un'aquila; d'oro erano anche i calzari e il mantello. Lungo tutte le superfici marmoree del monumento correvano una serie di bassorilievi che raffiguravano i miti più suggestivi e popolari del mondo greco: dai figli di Niobe trafitti da Apollo e Artemide alla battaglia di Teseo contro le Amazzoni. Lo sgabello sul quale Zeus poggiava i piedi era affiancato da leoni d'oro. La sorte della statua di Zeus è avvolta nel mistero. Alcune fonti letterarie riferiscono che essa fu preda dei goti, quando invasero il Peloponneso nel 395 d.C. Altri raccontano che l'imperatore Teodosio II decise di trasferirla a Bisanzio e che durante il viaggio sarebbe andata persa; secondo un altro resoconto, sarebbe stata distrutta dalle fiamme durante l'incendio di Costantinopoli del 476 d.C.
Per realizzare il suo capolavoro Fidia fece costruire un laboratorio, a occidente dell'Altis, con le stesse dimensioni e con le stesse condizioni di luce esistenti nel tempio di Zeus. Questo edificio dopo la distruzione di Olimpia divenne una chiesa cristiana.
Intorno al 350 a.C. furono innalzati i portici con 44 colonne doriche, che circondavano il Metroon, tempio dorico consacrato a Rea ed eretto nel luogo dove sorgeva l'antico altare della dea. In età romana imperiale, il Metroon fu trasformato in tempio di Augusto e ospitò nella cella anche le statue degli imperatori romani deificati, Tito e Claudio.
Alla stessa epoca appartiene il Leonidaion, dove erano ospitati gli ellanodici e le autorità che venivano ad assistere ai Giochi. L'edificio, circondato da 138 colonne ioniche, prendeva il nome dal suo costruttore, l'architetto Leonidas di Nasso, che lo volle dedicare a Zeus.
Nel 338 a.C. Filippo II di Macedonia, per celebrare la vittoria nella battaglia di Cheronea, fece erigere il Philippeion, edicola costruita su una base circolare di circa 15 m di diametro, contornata da 18 colonne ioniche. Per realizzare l'edificio, che fu portato a termine da Alessandro Magno a celebrazione della dinastia macedone, fu necessario spostare i confini occidentali dell'Altis. Nella cella, su un piedistallo di marmo a forma d'arco, si ergevano le statue del re macedone e dei componenti la sua famiglia; al centro era raffigurato Filippo, alla destra il padre Aminta e a sinistra il figlio Alessandro.
Nella seconda metà del 4° sec. a.C. nella parte occidentale dell'Altis fu edificato il Theokoleon ove risiedevano i sacerdoti (theokòloi) che sovraintendevano alle cerimonie religiose, ai templi e ai sacrifici.
Durante l'età romana Olimpia subì poche trasformazioni a eccezione di una grande costruzione semicircolare, denominata esedra. Si trattava di una fontana monumentale alta 12 m, donata da Erode Attico console in Roma nel 143 d.C. sotto Antonino Pio, considerato l'uomo più ricco di tutta l'antichità classica. Sorgeva di fianco all'Heraion e si appoggiava come una grande nicchia al Kronion, sormontata dalle statue dello stesso Erode, della sua famiglia e degli imperatori Antonino Pio e Marco Aurelio. L'acqua che la riforniva, prelevata a oltre un chilometro di distanza e trasportata attraverso un apposito condotto, assicurava il rifornimento idrico di Olimpia alimentando la rete di fontane e di canali della città sacra. L'arco e la villa di Nerone e i bagni romani, risalenti al 1° sec. a.C., furono gli ultimi edifici importanti di Olimpia.
Tutta l'area sacra era decorata da una quantità di statue, erette in onore degli olimpionici, opera dei più celebri scultori dell'epoca, fra i quali Fidia, Policleto, Mirone, Prassitele. Oltre che per il valore artistico queste sculture si contraddistinguevano per quello storico, consegnando alla posterità il nome e l'immagine del vincitore e togliendo all'impresa atletica le caratteristiche di un evento effimero e transitorio. Eccezionalmente a Olimpia fu anche consentita l'erezione di una statua in onore di un allenatore: il maestro di lotta di Kratinos di Egira, che vinse la prova per ragazzi durante la CXXVII Olimpiade (272 a.C.). Ma il gruppo scultoreo più ammirato era quello di sei atleti di Elide, vincitori di varie gare nella LXXXIV Olimpiade e immortalati in un unico monumento, poiché facevano parte della stessa famiglia. Secondo Pausania le statue erette a spese delle città natali dei vincitori, nel periodo di maggiore splendore dei Giochi, erano circa 2000. Molte furono poi trasferite a Roma per ornare le ville degli imperatori e dei consoli. A Olimpia furono eretti anche monumenti singolari, come quello della cavalla Aura che, disarcionato il cavaliere Pheidolas di Corinto, era giunta ugualmente al traguardo concludendo vittoriosa la gara (LXVII Olimpiade).
Alle statue degli atleti si affiancavano gli Zànes (dal dorico Zav, "Zeus"), piccoli simulacri in bronzo del padre degli dei, realizzate con il denaro versato dagli atleti multati per aver infranto le regole olimpiche.
Nel 395 d.C. Olimpia fu devastata da Alarico che, a capo dei visigoti, dopo aver raggiunto il Peloponneso, invase l'Elide e saccheggiò la città sacra. Nel 425 Teodosio II per l'Impero d'Oriente e Onorio per quello di Occidente decretarono l'abbattimento di tutti i luoghi dove si celebravano manifestazioni ispirate ai culti pagani. Praticamente tutti gli edifici, i templi, i monumenti, i tesori, le statue furono distrutti o asportati, cosicché in breve tempo gran parte dell'enorme patrimonio artistico della città sacra andò disperso. Nel 522 e nel 555 d.C. lo stadio e l'ippodromo, che erano stati risparmiati al tempo di Teodosio II, furono ridotti in rovina da due terremoti. Le inondazioni dei torrenti Alfeo e Cladeo e le frane del Kronion spazzarono, in seguito, quanto era rimasto del santuario abbandonato, trasformando la zona in una palude.
di Gianfranco Colasante
Il primo elenco conosciuto degli olimpionici antichi fu compilato, intorno al 400 a.C., dal sofista Ippia di Elide e venne successivamente integrato da altri pensatori e cronisti dell'antichità, tra i quali figura anche Aristotele (384-322 a.C.). La fonte più autorevole è costituita dagli scritti di Pausania che nella seconda metà del 2° sec. d.C. stese una monumentale Periegesi della Grecia in dieci libri, riportando fra le molte notizie di carattere storico e religioso anche quelle sugli antichi Giochi.
L'attenzione che moderni ricercatori e archeologi hanno dedicato all'argomento negli ultimi due secoli ha consentito di integrare ulteriormente le liste antiche, anche se il loro completamento resterà sempre un'utopia. Va anche tenuto presente che le fonti relative ai secoli prima di Cristo, molto articolate e ricche di informazioni, contrastano con il poco che è stato tramandato sui Giochi in epoca cristiana.
Il primo elenco ragionato e in chiave moderna degli olimpionici antichi venne redatto a Vienna, nel 1836, dall'austriaco Johann Heinrich Krause (Olympia, 1838) che due anni più tardi rielaborò i suoi studi in un'opera più vasta, pubblicata a Lipsia (Die Gymnastik und Agonistik der Hellenen, 1840-41). Contributi decisivi alla ricostruzione delle liste dei vincitori furono in seguito forniti dai frammenti di epigrafi riportati alla luce dagli scavi eseguiti a Olimpia, tra il 1875 e il 1881, dai tedeschi Ernst Curtius, che li promosse e diresse (Griechische Geschichte, 1857-67; Olympia, 1892-97), e Friedrich Adler (1827-1908), il quale curò il primo allestimento del Museo archeologico di Olimpia. Alla riscoperta degli antichi Giochi e dei primi olimpionici dedicò ampia trattazione anche un altro archeologo tedesco, Adolf Bötticher (Olympia: das Fest und seine Stätte, 1883).
Tutta questa messe di informazioni venne rielaborata in forma organica dall'ungherese Ferenc Mezö nell'esauriente History of the Olympic Games ‒ con allegato un elenco degli olimpionici ‒ che gli valse il premio di letteratura alle Olimpiadi di Amsterdam 1928. L'elenco più recente e accurato è quello pubblicato nel 1992 negli Stati Uniti dall'austriaco Erich Kamper, il maggiore studioso delle Olimpiadi moderne, e dall'americano Bill Mallon, in appendice al volume The golden book of Olympic Games (1992).
Per quanto riguarda l'Italia, l'elenco degli olimpionici antichi è stato pubblicato per l'ultima volta in italiano da Lando Ferretti, a completamento del suo Olimpiadi (1959). Lo studio più completo e organico resta però quello di Luigi Moretti che, in vista dei Giochi Olimpici di Roma, preparò per la seduta del 15 dicembre 1956 dell'Accademia dei Lincei una memoria dal titolo Olimpionikài: i vincitori degli antichi agoni olimpici (1957). Originali contributi sull'argomento si trovano infine nell'inedita raccolta antologica Gli sport olimpici nell'antichità, redatta nel 2002 da Amos Matteucci.
Stadio (stàdion; 776 a.C.-269 d.C.): gara centrale delle diverse edizioni dei Giochi Olimpici, si correva su una misura lineare corrispondente a 600 passi greci (192,27 m), per la quale ci si era ispirati, secondo il mito, alle orme lasciate dal piede di Ercole. Spesso è la sola per la quale è stato tramandato il nome del vincitore. Si hanno i risultati di 255 edizioni.
Diaulo (dìaulos; 724 a.C.-137 d.C.): si correva su una istanza doppia dello stadio (384,54 m) ed era meno popolare della corsa più breve, forse per la difficoltà di invertire la direzione. Si conosce il risultato di 45 edizioni.
Dolico (dòlichos; 720 a.C.-85 d.C.): si disputava su distanza variabile, da poco più di 1000 a meno di 5000 m.
Lotta (708 a.C.-213 d.C.): è probabilmente la disciplina agonistica più antica dopo la corsa, ed era una delle più seguite a Olimpia. La sua fama ai Giochi è legata ai nomi dei grandi lottatori dell'antichità: gli spartani Hipposthenes e Hetoimokles (padre e figlio) e il crotoniate Milone.
Pentathlon (708 a.C.-241 d.C.): gara multipla di tradizione molto antica, è sopravvissuta, in varie forme, anche ai giorni nostri. Non vi è alcuna certezza sul criterio con il quale veniva assegnata la vittoria. Si ritiene in genere che la prima prova servisse a selezionare cinque concorrenti e che in quelle successive fosse via via eliminato l'ultimo fino a che i due concorrenti rimasti si affrontavano nell'ultima prova, la lotta.
Pugilato (688 a.C.-369 d.C): era una forma di combattimento piuttosto brutale, per il quale i contendenti si fasciavano i pugni chiusi con corregge di cuoio, più tardi rinforzate con l'inserimento di borchie metalliche, a costituire le protezioni dette 'cesti'. Fu un pugile, l'armeno Varazdate, l'ultimo vincitore di Olimpia in ordine cronologico.
Quadriga (téthrippon; 680 a.C.-241 d.C.): costituiva la gara più spettacolare e che suscitava maggiore entusiasmo. I carri tirati da quattro cavalli si affrontavano su 12 giri dell'ippodromo, pari a circa 14.000 m. In questa prova si cimentavano spesso anche re e principi.
Pancrazio (pankràtion; 648 a.C.-221 d.C.): specialità molto popolare, è quella su cui con maggior frequenza riferiscono le fonti antiche. Il combattimento univa elementi di lotta e di pugilato, senza esclusione di colpi; i contendenti, a differenza del pugilato, si affrontavano a mani nude.
Corsa con i cavalli (kèles; 648 a.C.-193 d.C.): i cavalli, montati 'a pelo', senza l'ausilio di sella e staffe, dovevano percorrere 6 giri dell'ippodromo, pari a circa 6800 m.
Stadio dei ragazzi (632 a.C.-133 d.C.): è una delle specialità per le quali è stato tramandato il maggior numero di nomi di vincitori. Nell'antica Grecia si veniva considerati ragazzi (adolescenti) dopo i 12 e fino ai 18 anni.
Lotta dei ragazzi (632 a.C.-97 d.C.): molti grandi lottatori dell'antichità, come il celebre Milone di Crotone, si cimentarono ai Giochi sin da giovani. Conosciamo il nome di 41 vincitori.
Pentathlon dei ragazzi (628 a.C.): fu disputato una sola volta perché ritenuto troppo faticoso.
Pugilato dei ragazzi (616 a.C.-89 d.C.): assomigliava alla versione per adulti ma probabilmente comportava minore brutalità. Di norma in questa categoria venivano ammessi ragazzi dai 13 ai 18 anni.
Corsa con armatura (oplitodròmos; 520 a.C.-185 d.C.): era una competizione di sapore guerresco nel quale era richiesta più prestanza fisica che destrezza atletica. Sono noti i risultati di 31 edizioni. L'introduzione della gara fece sì che per la prima volta nel recinto sacro venissero ammesse le armi, fino ad allora severamente bandite.
Carri tirati da 2 muli (apène; 500-456 a.C.): secondo i dati in nostro possesso, la gara venne disputata solo quattro volte.
Corsa con giumente (kàlpe; 496 a.C.): si conosce il risultato di una sola gara. Dopo un certo numero di giri dell'ippodromo, i concorrenti dovevano smontare dall'animale e percorrere di corsa l'ultimo giro.
Carri tirati da 2 cavalli (synòris; 408 a.C.-67 d.C.): la gara si svolgeva su 8 giri dell'ippodromo per circa 9000 m. Sono noti i risultati di 11 edizioni.
Gara per suonatori di tromba (396 a.C.-217 d.C.): se ne conoscono 30 edizioni, 10 delle quali attribuite a Herodoros di Megara e a Marcus Aurelius Silvanus di Ermopili.
Gara per araldi (396 a.C.-261 d.C.): fu disputata 13 volte, una delle quali vinta da Nerone.
Quadriga tirata da puledri (296 a.C.-153 d.C.): sono note sei edizioni. La gara si disputava su otto giri dell'ippodromo, pari a circa 9000 m.
Bighe tirate da due puledri (264 a.C-1 d.C.): la gara si articolava in tre giri dell'ippodromo, pari a circa 3500 m. Risulta essere stata disputata quattro volte.
Corsa con i puledri (256-72 a.C.): se ne hanno notizie certe solo per tre edizioni.
Pancrazio dei ragazzi (200 a.C.-117 d.C.): sono noti solo i nomi di sette vincitori.
Corsa dei carri tirati da 10 cavalli/gara composizione di tragedie/gara per citaredi (67 d.C.): di tutte queste competizioni, si conosce una sola edizione, vinta da Nerone.