FORTEBRACCI, Oddo
Figlio di Andrea detto Braccio di Montone, nacque a Città di Castello il 15 febbr. 1410 da una relazione extraconiugale. Con breve di Giovanni XXIII del 28 ag. 1414, insieme con il padre e lo zio Giovanni, fu nominato conte di Montone, luogo di origine della famiglia dov'era situato il castello occupato da Braccio il 27 luglio 1413. Nei documenti ufficiali è altresì indicato come conte di Rocca Contrada (ora Arcevia), possesso del padre nella Marca. Nel marzo 1418 furono celebrati i suoi sponsalia de futuro con Elisabetta di Niccolò Trinci, signore di Foligno, a seguito dei quali Trevi passò dalla soggezione di Braccio a quella dei Trinci. Nello stesso anno, insieme con il padre, ricevette la cittadinanza di Firenze. Nell'agosto 1423 il F., che aveva seguito il padre nella spedizione contro L'Aquila, tornò in Umbria: il 23 agosto Braccio gli delegò formalmente il governo di Perugia, probabilmente confidando sull'assistenza assidua di Bindaccio Ricasoli.
Il 24 marzo 1424, per la pestilenza che cominciava a diffondersi a Perugia, si trasferì a Foligno e quindi a Spello. Nell'aprile la notizia del passaggio di Iacopo Caldora da Braccio alla regina di Napoli Giovanna II d'Angiò Durazzo e il nuovo ardire degli antibracceschi gli imposero il riassetto delle fortezze umbre: il 7 maggio spedì 50 perugini a Città di Castello che si era sollevata e che l'11 gli inviò in ostaggio 14 suoi cittadini. Negli stessi giorni fuorusciti di Perugia, Spello e Spoleto tentarono la conquista di Cesi, lasciando 10 morti e 30 prigionieri: il F. punì i capi con grande determinazione e premiò i suoi fedeli, come i della Penna - ai quali donò la Rocca di Strozzacapone - sottratta a un Andrea di Berarduccio dichiarato ribelle.
Notizie contraddittorie sulla morte di Braccio (che era stato ferito e catturato nella battaglia presso L'Aquila) si diffusero a Perugia il 4 giugno, con un giorno di anticipo sul reale decesso. Il 6 giugno il F. si precipitò da Spello a Perugia dove il luogotenente di Città di Castello gli mostrò lettere che attestavano con certezza la morte del padre. Immediatamente il F. convocò nel suo palazzo un consiglio che deliberò di affidargli la reggenza di Perugia, fino al momento in cui il fratellastro Carlo (erede legittimo) non fosse stato in grado di assumerne la signoria. Il 9 giugno giunse in città un Baglioni, catturato dai Pontifici presso L'Aquila e rilasciato senza riscatto da Martino V, perché inducesse i nobili a deliberare il ritorno di Perugia al dominio diretto della S. Sede: il papa si dichiarava disponibile a mantenere il bando ai raspanti (popolani) allontanati da Braccio, a concedere al Comune privilegi singolari e a sospendere le operazioni militari già avviate.
Nei giorni successivi lo "Stato di Braccio" cominciò a disfarsi miseramente: il 16 si diffuse la notizia della sollevazione e del ritorno alla Chiesa di Jesi, il 18 fu la volta di Montalboddo (ora Ostra), il 21 di Todi e San Gemini; il 25 Castel della Pieve comunicò di voler restare legata al Comune di Perugia, ma non sottoposta al rappresentante braccesco; il Montemelini nominato da Braccio signore di Cingoli si dichiarò costretto ad accordarsi con la Sede apostolica.
Il 18 si presentò in città Malatesta Baglioni che ribadì le proposte del papa davanti a un consiglio convocato allo scopo; il 21 partirono ambasciatori per Roma al fine di mandare avanti la trattativa. Il 1° luglio il F., sentendosi abbandonato e temendo forse per la stessa vita, convocò nel suo palazzo, insieme con molti gentiluomini, i Priori entrati in carica proprio quel giorno: rimise loro il governo di Perugia e il 14 partì per Montone. L'accordo col papa venne sottoscritto a Roma il 29 luglio e il 31 fu divulgato a Perugia; il 4 agosto Bindaccio Ricasoli, rimasto nel palazzo del F. per tutelarne gli interessi, partì alla volta di Montone; il 6 il commissario del papa prese possesso di Perugia; qualche giorno dopo gli stemmi bracceschi sparsi per la città furono scalpellati o abrasi. Nei primi giorni di settembre il F., che conservava il controllo di numerosi castelli, radunò ad Assisi gli sbandati dell'esercito paterno in quanto già dal mese di agosto aveva stipulato una condotta con Firenze, impegnata nella lotta contro Filippo Maria Visconti duca di Milano. Il 3 ottobre lasciò la città con 400 lance diretto, attraverso la valle del Tevere, ad Arezzo e quindi a Firenze. All'inizio di gennaio 1425 l'esercito del F. lasciò Firenze, nonostante la rigidezza dell'inverno, per combattere le genti di Guidantonio Manfredi, signore di Faenza, alleato col Visconti contro Firenze.
La campagna, certo imprevista per la stagione, non mancò di successi durante i primi giorni: Niccolò Piccinino a più riprese riuscì a spingersi fino alle porte di Faenza. Ma il 1° febbr. 1425 la situazione precipitò per le truppe del F., che, confidando nella fedeltà di un castellano alle dipendenze di Firenze posto a vigilare un ponte che serrava l'ingresso della valle del Lamone, dopo aver superato lo sbarramento, si inoltrarono proprio in quella valle e vennero assaliti da ogni lato.
Il F. cadde sul campo; il Piccinino, fatto prigioniero e liberato qualche tempo dopo, non si sottrasse all'accusa di aver concordato l'agguato per restare capo e solo riferimento di quello che era stato l'esercito di Braccio. Il corpo del F., portato nel maggio successivo a Perugia e quindi a Montone dove fu tumulato, ricevette ovunque solenni onoranze.
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