OCEANO (lat. Oceanus; gr. 'Ωκεανός; fr. océan; ted. Ozean, ingl. ocean)
Il concetto di oceano. - Oceano è il termine usato per indicare le più vaste distese acquee del globo, le quali, come oggi sappiamo, costituiscono in realtà una massa continua e circumflua.
Il vocabolo fu largamente usato dai Greci, e si trova già nei poemi omerici, ma quivi il concetto di oceano è ancora avvolto nelle nebbie del mito (v. Oceano e Oceanidi). Il "padre oceano" è immaginato come una corrente vasta e profonda, che circonda la Terra, formando anzi quasi un legame fra la Terra e il Cielo, ed è l'origine non solo dei diversi mari, ma anche dei fiumi, anzi di tutte le acque.
Questo concetto non è particolare dei Greci, ma si trova già nell'Egitto e nella Babilonia: in quest'ultima, anzi, l'oceano primigenio (apsū) è posto in stretta connessione, nel mito, con l'origine del Cielo e della Terra, e un riflesso di tale concetto si ritrova nel racconto biblico della creazione e del diluvio. Anche presso altri popoli dell'Oriente (India, Cina) e presso alcuni popoli primitivi si riscontra l'idea di un grande mare che circonda la terra abitata.
I primi filosofi ionici tradussero, per così dire, in realtà concreta questa concezione, in quanto nel sec. VI a. C., riconosciuto ormai tutto il bacino del Mediterraneo e allacciati rapporti con tutti i popoli che ad esso si affacciavano, si venne a conoscenza - per le informazioni dei naviganti e dei viaggiatori - che, allontanandosi dal Mediterraneo in qualsiasi direzione, si arrivava alle sponde di un oceano esterno. Anassimandro immagina già la Terra abitata di forma discoide e circondata tutt'intorno dall'oceano; e questa dottrina rimane poi come un patrimonio acquisito della scuola ionica, per quanto esperienza sicura dell'esistenza di questa corona oceanica si avesse soltanto per la parte occidentale (oltre le Colonne di Ercole) e la meridionale (Mare Eritreo), mentre l'esistenza dell'oceano a nord e a est era soltanto congetturata in base a notizie alquanto vaghe.
Dopo che per opera della scuola pitagorica si diffuse la dottrina della sfericità della Terra, la questione intorno all'estensione e configurazione dell'oceano, o Mare Esterno, in relazione alla configurazione della terra emersa, rimase sempre una delle più importanti della geografia antica. La dottrina che restò prevalente nell'antichità concepiva l'abitabile conosciuta come un'unica massa circondata tutt'intorno dall'oceano continuo e circumfluo; tale appariva questo nella carta di Eratostene (v.), che ritiene l'Atlantico e il Mare Eritreo (Oceano Indiano) comunicanti a sud dell'Africa, e il Caspio un seno dell'Oceano settentrionale; tale lo concepiva anche Posidonio. Ma nell'età alessandrina compare un'altra dottrina divulgata da Cratete di Mallo (v.) e poi accolta da taluno nel mondo romano, la quale ammette l'esistenza di quattro ecumene disposte simmetricamente, due nell'emisfero nord e due in quello sud, separate da due corone oceaniche continue e comunicanti che corrono attorno all'intero lobo, l'una lungo l'equatore, l'altra da polo a polo (terra quadrifida). Una terza opinione, pure assai antica (sembra fosse già accolta da Erodoto), è quella che si trova poi esposta da Tolomeo e accreditata nella posterità dalla sua grande autorità: essa asserisce l'oceano discontinuo, ossia suddiviso in tanti bacini chiusi fra le terre emerse. Tale appariva certamente, come è noto, nella sua carta, l'Oceano meridionale o Indiano, tale era probabilmente concepito anche l'Atlantico.
Il concetto e la conoscenza dell'oceano non fanno progressi nell'alto Medioevo; nei mappamondi medievali, siano essi più o meno rozzi, l'oceann appare, come nelle antiche carte greche, quale una corona circondante la Terra. I geografi arabi, che conobbero l'opera di Tolomeo e la sua carta, ammetteiano tuttavia in genere l'Atlantico comunicante con l'Indiano a sud dell'Africa e avevano larga conoscenza dell'oceano che bagna le coste meridionali dell'Asia. D'altro lato sull'Oceano settentrionale si cominciano (a partire dai secoli VIII e IX) ad avere notizie soprattutto per le navigazioni dei Vichinghi; ma nel complesso l'aperto oceano, concepito come un ostacolo presso che invalicabile, rimane - nonostante le numerose leggende di navigazione alla ricerca di isole nascoste nel suo seno - fuori, per dir così, della realtà conosciuta.
Soltanto dopo la metà del sec. XIII viaggiatori italiani, in prima linea Marco Polo, recano in Occidente copia di notizie positive sull'oceano meridionale e orientale, che si accrescono e si concretano nei due secoli successivi (Nicolò de' Conti, ecc.). Frattanto si allargano, per opera soprattutto dei Portoghesi, le conoscenze sull'oceano che lambisce le coste occidentali dell'Africa e alla fine del sec. XV la navigazione di Vasco da Gama reca la prova definitiva della connessione fra l'Oceano Atlantico e l'Indiano, distruggendo l'antica concezione tolemaica. Pochi anni prima, la meravigliosa navigazione tli Cristoforo Colombo raggiungeva quella che può dirsi l'"altra sponda" dell'Atlantico - ossia dell'oceano per eccellenza - traversandolo per la prima volta in tutta la sua ampiezza, su due rotte diverse nell'andata e nel ritorno; rotte il cui andamento dimostra che il grande navigatore si era già procurato in precedenza un corredo di conoscenze sul regime dei venti e su alcuni altri fatti meteorologici e idrografici riguardanti l'aperto oceano (v. colombo). È noto che Colombo credette che l'"altra sponda" dell'oceano da lui toccata fosse costituita dal continente asiatico o da isole ad esso pertinenti, come il Cipangu (Giappone); ma le navigazioni dei suoi numerosi successori indicarono ben presto come più verosimile l'ipotesi che la sponda occidentale dell'Atlantico fosse invece formata da un "mondo nuovo". In ogni modo i contorni di questa sponda occidentale (e perciò la configurazione dell'oceano) si vengono rapidamente delineando nelle carte del primo Cinquecento, pur restando per qualche tempo incerto, se in seno alla massa delle nuove terre allungantisi da nord a sud esistesse un qualche stretto o canale che desse adito ai mari dell'Asia orientale, ritenuti, in base alle idee prevalenti sull'estensione del globo, a non grande distanza di là da quel mondo nuovo. Ma l'Oceano Pacifico, visto nel 1515 dal Balboa di su le alture del Darien, è travalicato nel 1520 da Magellano in una navigazione che ne rivela tutto l'inattesa estensione, dallo stretto che ha conservato il suo nome fino alle Marianne, alle Filippine e agli altri arcipelaghi che preannunciano l'Asia. E tale oceano appare già delineato in tutta la sua estensione in carte del 1530 circa (Diego Ribero, 1529; Oronzio Fineo, 1531), pur non apparendo naturalmente l'Australia e rimanendo incerto, ancora per qualche lustro, se il nuovo mondo non si saldasse con l'Asia chiudendo perciò a nord il Pacifico. Dopo il 1560 la separazione dall'Asia è generalmente ammessa; il Pacifico o Mare del Sud risulta ormai enormemente più vasto dell'Atlantico, onde giustamente si diffonde il nome di Grande Oceano (v. pacifico, oceano); tutto il globo terraqueo si rivela molto più vasto di quanto prima non si opinasse.
Un grosso problema rimane tuttavia insoluto: quello circa l'estensione degli oceani verso sud. Su questo argomento le opinioni variano secondo che si ammette, o no, l'esistenza di un continente australe; ipotesi già accennata da geografi arabi e che parve confermata, dopo il viaggio di Magellano, dalla scoperta della Terra del Fuoco, e ancor più da quella, di pochi anni posteriore, dell'Australia. Enorme appare questa Terra Australis incognita in molti dei più autorevoli mappamondi della seconda metà del sec. XVI, come in quello dell'Ortelio (1570) e in quello del Mercator del 1587 (v. la riproduzione annessa alla voce cartografia). Nel suo percorso, congetturalmente delineato, essa viene a costituire la sponda meridionale così dell'Atlantico come dell'Indiano e del Pacifico. I tre oceani maggiori risultano ormai ben individuati: la continuità di tutte le masse acquee del globo appare assodata.
La scoperta del vastissimo Oceano Pacifico, da un lato, quella del Continente nuovo (e con essa la presunta scoperta della Terra australe), dall'altro, sconvolsero tutte le opinioni fin allora prevalenti sul rapporto quantitativo fra le terre e i mari. Per tutto il Medioevo si propendeva ad ammettere una grande preponderanza delle terre emerse, in base a concetti risalenti all'evo classico (Aristotele, Tolomeo, ecc.) variamente elaborati. Nel sec. XVI i primi tentativi di misurare, su un globo, l'area occupata dalle terre e quella coperta dal mare (Alessandro Piccolomini, 1557), conducono al risultato che la superficie acquea superi, sebben di poco, quella emersa; risultato che, attraverso molti dibattiti, apre la via alla dottrina, che poco più tardi si diffonde e prende consistenza, dell'equilibrio in area fra terre emerse ed acque. Tale dottrina rimane più tardi confermata dalla grande autorità di Bernardo Varenio, nella cui Geographia generalis (1650) è anche consacrato definitivamente il principio dell'unità e continuità dell'oceano ("Oceanus... continuo tractu universam tellurem partesque eius ambit").
Le navigazioni del sec. XVII e del XVIII accertano sempre meglio l'enorme estensione del Pacifico, onde il nome di "Grande Oceano" appare vieppiù giustificato e acquista sempre maggior diffusione; riconosciuta l'insularità dell'Australia, i confini dell'ipotetico Continente australe si restringono sempre di più (onde un nuovo tentativo di computo dell'estensione delle acque sul nostro globo, fatto nel 1742, dava già per esse il 74%, escluse le zone polari sconosciute); alla fine del sec. XVIII poi, in seguito alle navigazioni di J. Cook, l'idea di una grande terra australe estesa oltre i limiti del Circolo polare viene definitivamente abbandonata, anzi, l'esistenza di quella terra viene addirittura da taluni messa in dubbio. Da allora il principio dell'assoluta prevalenza della massa acquea sul globo, che ancora nel sec. XVIII aveva trovato oppositori, è definitivamente acquisito, perché il rapporto quantitativo fra terre emerse e mari può ormai calcolarsi per più di 9/10 del globo; soltanto per le calotte polari possono sussistere ancora dei dubbî, la cui soluzione sarà compito del sec. XIX e dell'attuale.
Partizione e nomenclatura degli oceani. - Il problema della suddivisione degli spazî oceanici si presenta soltanto dopo che, con le navigazioni del sec. XVI, ne vengono riconosciuti i contorni generali: come s'è già accennato, le migliori carte della seconda metà del Cinquecento, mettono in vista, ben distinti, i tre maggiori oceani e nel secolo seguente il Varenio, il primo che abbia sistematicamente preso in esame il problema, accenna a questa tripartizione fondamentale (oceano Atlantico, Pacifico, Indiano); tuttavia egli, per una sorta di parallelismo coi quattro continenti da lui ammessi, preferisce distinguere quattro oceani, l'Atlantico, che fa riscontro al Vetus Orbis, il Pacifico o Mar del Sud, che fa riscontro al Novus orbis, l'Iperboreo e l'Australe (del quale ultimo sarebbe una dipendenza l'Oceano Indiano), facenti riscontro rispettivamente all'Orbis Arcticus e alla Terra Australis. Ma, mentre il Varenio riconosce che la questione della partizione e nomenclatura degli oceani non è di carattere essenziale nella scienza, gli studiosi posteriori, per tutto il secolo XVII e il XVIII, si dedicano invece volentieri ad escogitare complicati sistemi di suddivisione e denominazione delle masse oceaniche. Ci limiteremo qui a ricordare il sistema più noto, proposto intorno alla metà del Settecento da Ph. Buache, il quale distingue, accanto ai tre maggiori oceani, Atlantico, Indiano e Grande Oceano, due mari glaciali, l'Artico e l'Antartico, situati peraltro, non intorno, ma in seno alle masse terrestri, che, secondo una dottrina risalente al Cinquecento, si supponevano estendersi nelle calotte polari; i tre maggiori oceani suddivisi poi in gran numero di bacini separati fra loro da ipotetiche catene di montagne sottomarine. Per reazione contro questo sistema, nel 1800, Ch.-P. de Fleurieu si atteneva alla semplice distinzione dei tre grandi oceani (ridotti anzi veramente a due, perché l'Indiano era considerato come appendice del Pacifico) e dei due mari polari, limitati entro i circoli polari; ma questa partizione non incontrava dapprima molto favore di fronte ad altre più complicate, come quella proposta dell'autorevole C. Malte-Brun. Sennonché una commissione nominata nel 1845 dalla Società geografica di Londra, sotto la presidenza di R. Murchison, si attenne allo schema del Fleurieu e, proponendosi di adottare uno schema semplice e pratico, finiva per accogliere quello appunto del Fleurieu, lievemente modificato. Si distinsero pertanto cinque oceani, denominati Oceano Atlantico, Oceano Pacifico o Grande Oceano, Oceano Indiano, Oceano Glaciale Artico e Oceano Glaciale Antartico. Quest'ultimo veniva circoscritto entro il rispettivo circolo polare e così pure l'Artico nei tratti ove mancava altro limite; come confini convenzionali fra i tre maggiori oceani, là dove, nell'emisfero meridionale, essi si fondono in un'unica corona, si adottavano i meridiani passanti per le punte estreme dei tre continenti australi (C. Horn, C. delle Aguglie e C. Sud).
Questa partizione, raccomandata anche dalla grande autorità del geografo tedesco A. Petermann, entrò largamente nell'uso e finì col prevalere, per circa mezzo secolo, nonostante che le delimitazioni proposte venissero da molti combattute come convenzionali e artificiose. Accanto agli oceani, venivano poi a porsi quelli che si chiamarono genericamente mari secondarî, e anche questi ultimi si cercò di delimitare e classificare, distinguendosi di solito i mari mediterranei e i mari adiacenti o marginali, cui taluno aggiunse i mari interinsulari (v. mare). Il geografo tedesco A. Supan preferiva invece di distinguere nella massa oceanica, i mari circumcontinentali, nei quali l'influenza delle masse continentali sui fenomeni meteorologici e idrografici non si avverte che in debole misura, e i mari intracontinentali, nei quali tale influenza è sempre notevole o talora predominante. Frattanto, col progresso dell'esplorazione delle calotte polari, si veniva riconoscendo, allo schiudersi del secolo XX, che la zona antartica è per la massima parte occupata da un continente, onde il concetto di un oceano Antartico veniva a sfumare, mentre al cosiddetto Oceano Artico veniva sempre meglio riconosciuto il carattere di un mediterraneo, legato per il suo regime con l'Atlantico.
Allora una conferenza idrografica, riunita a Londra nel 1919, deliberò di affidare un nuovo esame della questione al Bureau hydrographique di Monaco, e questo fece conoscere nel 1923 le sue proposte. Esse riguardano sia la delimitazione fra oceani e mari secondarî e la nomenclatura di questi ultimi, sia la partizione dei tre oceani principali, i cui limiti polari si suggeriva di portare, anziché ai circoli polari, a 60° lat. N. e S. in base alla considerazione, di carattere e valore esclusivamente pratico, che oltre quella latitudine non esiste più una navigazione marittima regolare, salvo in alcuni mari marginali. Ma ora questa proposta veniva a ridar vita a un Oceano Australe, nome da attribuirsi a quella corona continua, che a sud del C. Horn (56° lat. S.) fa in realtà il giro di tutto il globo; esso risponde perciò al concetto di oceano circumcontinentale nel senso del Supan, mentre gli altri tre maggiori oceani sono intracontinentali. L'autonomia di questo Oceano Australe fu sostenuta da C. Vallaux (1928), che anzi ne riporterebbe i limiti assai più a nord, al 35° lat. Il Vallaux ha anche poi proposto una nuova suddivisione dei mari secondarî, in mari ghiacciati (Mare Artico e mari marginali antartici), mari delle ghirlande insulari, mari mediterranei veri e proprî e mari di piccola profondità (entro i limiti della piattaforma continentale). Oggi ci troviamo dunque, in sostanza, di fronte a due sistemi di partizione, i quali sono riassunti nei prospetti seguenti:
Come si vede, divergenze notevoli esistono fra i due schemi anche riguardo ai dati areometrici di taluni mari secondarî (es. Golfo del S. Lorenzo), il che deriva soprattutto da differenti criterî di delimitazione, che qui sarebbe impossibile di discutere. Quanto alla differenza fondamentale, che consiste nella distinzione dell'Oceano Australe e nella sua delimitazione (35° lat. S.), essa è stata combattuta soprattutto perché rompe l'individualità dei tre maggiori oceani, manifesta, ad es., in fenomeni che riguardano la circolazione profonda delle acque. Nell'Enciclopedia Italiana lo schema adottato è, in sostanza, quello tripartito dal Kossinna.
L'esplorazione scientifica dell'oceano. - L'esplorazione scientifica degli oceani, che comprende lo studio delle condizioni batimetriche, della costituzione del fondo sottomarino, delle proprietà fisiche e chimiche delle acque, dei loro movimenti, dei fenomeni meteorologici, infine quello delle manifestazioni della vita, si è iniziata, si può dire, solo nel secolo XIX, anzi, in modo sistematico, soltanto da una sessantina di anni. Per quanto riguarda le profondità marine, fino al principio del secolo XIX nessuno strumento si possedeva, atto a scandagliare grandi profondità, e perciò le conoscenze positive sull'argomento erano limitate ai mari bassi costieri. Concetti molto diffusi, come quello, risalente all'antichità, che le massime profondità marine corrispondessero alle massime altezze dei monti, si basavano su argomenti puramente speculativi, del tutto errati. L'idea, formulata per la prima volta in modo preciso da A. Kircher (Mundus subterraneus, 1662), che il fondo del mare sia conformato come la superficie emersa, che vi si trovino monti e vallate, fiumi e ponti subacquei, ecc., che in particolare le maggiori catene subaeree dei diversi continenti si prolunghino fino a congiungersi fra loro attraverso i fondi oceanici formando quella che egli chiama ossatura globi, è pure frutto soltanto di speculazioni fantastiche; tuttavia essa fu accolta in seguito anche da studiosi di molta autorità, come L. F. Marsili, W. Dampier e Ph. Buache, il quale ultimo fondò, come si è detto, una sua suddivisione dei bacini oceanici sul percorso delle supposte catene subacquee. E al Buache risale anche un primo tentativo (1737) di carta generale delle isobate per l'area oceanica fra l'Africa e l'America (linee isobate sono tracciate, sebbene raramente, anche in carte precedenti, ma solo per aree costiere di mare basso per le quali le misure di profondità si facevano con comuni scandagli a fune; e le quote batimetriche si trovano già in carte marine del sec. XVI), ma l'andamento delle curve è del tutto fantastico. Le prime misure batimetriche un po' esatte, eseguite in alto mare, furono quelle fatte da J. Ross, durante il suo viaggio artico del 1817-18 con uno strumento costruito a bordo: esse raggiunsero per la prima volta la quota di 2700 m. e trassero alla luce organismi viventi a quelle profondità che si credevano assolutamente disabitate; sì che questo tentativo ebbe il valore di una vera e propria rivelazione. Fra il 1850 e il 1854 l'americano J. M. Brooke inventò il primo tipo scientifico di scandaglio e i successivi perfezionamenti giunsero presto a creare tipi capaci di raccogliere anche saggi di fondo, di calare in profondità termometri e altri strumenti (v. scandaglio).
È noto che dopo il 1860 le misurazioni batimetriche si moltiplicarono anche per scopi pratici (posa di cavi telegrafici sottomarini, ecc.); da quando s'iniziarono poi vere e proprie campagne oceanografiche, queste ebbero sempre come parte essenziale del programma l'esecuzione di misure batimetriche; ma finché si usarono scandagli a fune tali misure, se effettuate per grandi profondità, erano operazioni lunghe e complicate richiedenti apparecchi appositi. Una vera e propria rivoluzione si è avuta perciò con l'introduzione degli scandagli acustici, che permettono di eseguire in poche ore decine di misure di profondità abissali, e perciò migliaia di misure in una sola campagna; onde si è aperta la via a un'opera di vera e propria ricognizione topografica dei fondi sottomarini. L'impiego degli scandagli a fune è peraltro sempre necessario quando si vogliano raccogliere campioni di fondo, onde lo studio della costituzione del fondo procede, e procederà ancora in avvenire, molto più lentamente.
Quanto alla raccolta di notizie sulle condizioni meteorologiche (venti prevalenti, ecc.) e idrografiche (correnti, ecc.) degli spazî oceanici, essa comincia sin da quando, nel sec. XV, quelli si aprirono alla navigazione d'alto mare, e procedé rapidamente su basi empiriche; ma i primi tentativi di coordinamento e di discussione critica dei dati raccolti si hanno soltanto nel sec. XIX. Classica è rimasta a questo riguardo la Geografia fisica del Mare di M. F. Maury (1855), al quale si debbono anche una revisione critica di tutti i dati di profondità per l'Atlantico (1855) e una prima carta batimetrica di questo oceano (1869).
Le spedizioni oceanografiche, fatte con navi apposite e con programmi rigorosamente scientifici, cominciano anch'esse verso questa epoca; le più importanti, riguardanti i tre principali oceani, l'Artico e i mari antartici, sono menzionate alle rispettive voci. Ma si ebbero anche spedizioni estese a tutti o a gran parte degli spazi oceanici. La prima è quella della nave inglese Challenger (1872-76) in tutti e tre i maggiori oceani, la quale fece veramente epoca per l'enorme quantità di materiale raccolto; si può dire in effetti che essa abbia gettato le basi scientifiche della scienza oceanografica (v. challenger). Notevoli anche quella della nave tedesca Gazelle negli oceani Indiano e Pacifico (1874-76), e, tra le successive, quelle della italiana Vettor Pisani (viaggio di circumnavigazione; 1882-85), della inglese Britannia (Oceano Atlantico e Indiano; 1800-1801), delle navi tedesche Valdivia (Oc. Atlantico e Indiano; 1898-99), Gauss (Atlantico e Indiano; 1901-03), Planet (in tutti e tre gli oceani, 1906-14), e soprattutto le sei grandiose campagne della nave nordamericana Carnegie, particolarmente attrezzata per ogni sorta di ricerche oceanografiche (1909-21; una settima campagna, iniziata nel 1928 con programma ancora più vasto, fu tragicamente interrotta l'anno dopo per l'esplosione della nave nel porto di Apia; v. pacifico).
Col moltiplicarsi delle indagini sistematiche sulla fisica e la chimica delle acque marine e soprattutto con l'inizio di metodiche ricerche biologiche, il programma delle campagne oceanografiche si è enormemente allargato. Tutti gli stati civili hanno oggi dato vita a commissioni, comitati o ad altre istituzioni (laboratorî, osservatorî) per lo studio del mare e dei suoi problemi. Vi sono poi istituzioni internazionali, come l'Institut océanographique, fondato a Parigi nel 1910 dal principe Alberto I di Monaco, appassionato cultore di studî oceanografici; il Musée océanographique, a Monaco; il Conseil permanent pour l'exploration de la Mer, a Copenaghen, ecc.
La batimetria e la topografia sottomarina. - I risultati generali delle misure batimetriche e di conseguenza i lineamenti essenziali del fondo sottomarino sono messi in vista, per tutti gli oceani, da una carta batimetrica internazionale, alla scala di 1 : 10 milioni, eseguita, secondo il progetto di J. Thoulet approvato da una Commissione internazionale, a cura del principe Alberto I di Monaco. Una prima edizione di essa fu pubblicata nel 1905, una seconda fra il 1912 e il 1930, ma in base ai dati raccolti fino al 1915; essa non tiene conto- perciò dei risultati, importantissimi, dei recenti scandagli acustici eseguiti specialmente nell'Atlantico meridionale, in alcune aree dell'Oceano Pacifico, nei mari dell'Insulindia, ecc. Per la batimetria e la morfologia sottomarina dei tre oceani maggiori, come pure dell'Artico, ecc., si rimanda pertanto alle singole voci. Alcuni dei lineamenti più generali sono invece messi in vista dal planisfero annesso a questo articolo. Un fatto fondamentale che comunemente si ritiene acquisito è che la topografia sottomarina abbia caratteri essenzialmente e profondamente diversi da quella subaerea, perché, mancando appunto l'azione plasmatrice e cesellatrice degli agenti atmosferici (acque correnti, ghiacci, vento), essa si presenta molto più uniforme e monotona: mancherebbero ad esempio sia i rilievi a forme aspre, accidentate, sia le valli profonde e incassate e in genere le pendenze molto forti. Ma finché si disponeva soltanto degli scarsi sondaggi eseguiti con scandagli a fune era lecito dubitare che l'accennata uniformità fosse puramente apparente: si pensi, infatti, che fino al 1915 le misure batimetriche di profondità superiori a 2000 m. non erano più di 7000, cioè in media meno di una ogni 40.000 kmq. (l'area totale degli spazî oceanici posti al disotto di 2000 m. si ragguaglia a non meno di 300 milioni di kmq.). E per vero oggi i risultati delle prime grandi campagne di sondaggi acustici, come quella del Meteor nell'Atlantico centro-meridionale, ci permettono d'intravvedere una topografia sottomarina molto più accentuata: si moltiplicano le gibbosità isolate, talora a forti pendenze, e soprattutto appaiono meglio individuati alcuni avvallamenti o fosse in genere allungate ai margini dei continenti e talora assai incassate, a forma di ombelico, rese accidentate da buche profonde e con margini rialzati all'estremità. I numerosi sondaggi acustici al largo della California hanno del pari rivelato, a profondità comprese fra 1500 e 2000 m., un rilievo ricco di forme quanto quello delle terre emerse; e recentissime misurazioni nella parte nord-occidentale dell'Oceano Indiano hanno pure messo in vista una topografia del fondo di gran lunga più accidentata di quanto prima non si supponesse. È difficile oggi dire se questi casi di topografia più accidentata rappresentino una eccezione, e soprattutto quali azioni debbano chiamarsi in causa per spiegare queste forme, che potrebbero essere sia il risultato di energie strutturali agenti sul fondo sottomarino, sia eredità di forme un tempo modellate da agenti subaerei, allorché le parti in questione del fondo sottomarino erano emerse. La risposta a questi e ad altri importanti quesiti sarà data dalle indagini future.
Definitivamente e da gran tempo assodato, può invece considerarsi il fatto che le maggiori profondità non si trovano affatto nelle parti centrali degli oceani, ma anzi presso i margini dei continenti o di isole e arcipelaghi: in particolare queste aree più profonde assumono di solito la forma di fosse (quelle cui più sopra si accennava), che accompagnano rilievi montagnosi prossimi al mare: si tratta dunque di aree della crosta terrestre profondamente dislocate e corrugate da perturbazioni che hanno dato luogo a creste nella porzione subaerea, a solchi profondi nelle parti sommerse. Le massime profondità sinora scandagliate si aggirano intorno ai 10.500 m. e furono misurate in una delle suaccennate fosse a oriente delle Filippine, la sola che abbia rivelato profondità superiori a 10.000 m. Alcuni dati sulla distribuzione delle profondità dei maggiori oceani sono raccolte nella tabella seguente (calcoli di E. Kossinna, 1922):
Le ultime cifre fra parentesi indicano i volumi e le profondità medie, compresi i mari secondarî.
Le cifre percentuali riportate nelle varie colonne rivelano una ripartizione delle aree corrispondenti alle singole zone di profondità assolutamente diversa da quella che è, nelle terre emerse, la ripartizione delle aree corrispondenti alle diverse zone altimetriche. Ciò è messo in vista dalla così detta curva ipsografica, che si costruisce col sussidio di un sistema di assi ortogonali, riportando sull'asse delle ordinate le altezze e le profondità e su quello delle ascisse i valori delle aree delle masse continentali e oceaniche corrispondenti alle rispettive altezze e profondità. Questa curva manifesta, per quanto riguarda la porzione sotto il livello marino, che qui soltanto c'interessa, due punti salienti, uno verso i 200 m. di profondità e l'altro intorno ai 6000. È possibile tuttavia che il moltiplicarsi degli scandagli in aree profonde conduca a modificare notevolmente i dati relativi alla ripartizione areometrica delle zone di grande profondità e perciò anche l'andamento della curva ipsografica per la sezione corrispondente (al disotto di 3-4000 m.); mentre l'esistenza del punto saliente, intorno a 200 m., si può considerare come accertato trattandosi di una zona per la quale le misure che si posseggono sono abbondantissime. È perciò da tempo acquisito il concetto di una piattaforma continentale (il cui limite è appunto indicato all'incirca dall'isobata di 200 m.), cioè di una sorta d'imbasamento sul quale riposano le terre emerse e che è in certa guisa un'appendice di queste, riproducendo anche nelle forme (valli sommerse, rilievi) la topografia subaerea; tale piattaforma fu di fatto spesso, nelle ultime vicende cui fu soggetta la crosta terrestre, ora scoperta, ora coperta da acque. Questa piattaforma scende verso le grandi profondità oceaniche con un pendio assai accentuato (scarpa continentale), fra 200 e 1300 m. circa, che la curva ipsografica mette bene in vista. L'insieme della piattaforma e della scarpa forma lo zoccolo continentale. Per designare le più importanti accidentalità della topografia dei fondi sottomarini esiste oggi una terminologia i cui equivalenti nelle varie lingue furono stabiliti per accordo internazionale. La nomenclatura italiana è stata determinata da apposita commissione per iniziativa di G. Ricchieri; essa distingue, nelle forme suboceaniche vere e proprie, quelle rilevate, come dorsale (ted. Schwelle; ingl. rise), rialto (ted., ingl. e fr. plateau), dorso (ted. Rücken; ingl. ridge), cupola (ted. Kuppe; ingl. dome; fr. dôme), catena, gobba, ecc.; e quelle incavate, come bacino (ted. Becken; ingl. basin; fr. bassin), avvallamento (ted. Mulde; ingl. trough; fr. dépression), fossa (ted. Graben; ingl. trench; fr. fossé), solco (ted. Furche, ingl. furrow; fr. sillon), conca (ted. Kessel; ingl. caldron; fr. chaudière), ecc. Di ciascuna di tali forme si sono approssimativamente definiti i caratteri morfografici. Le forme principali finora riconosciute nei varî oceani hanno poi ricevuto dei nomi proprî, indicati nelle carte dell'Enciclopedia Italiana annesse alle rispettive voci e anche, per le maggiori, nel planisfero qui unito. Ma col complicarsi degli scandagli ad eco, mentre questa nomenclatura si fa sempre più ricca, si manifesta in pari tempo la necessità di rivedere e integrare anche la terminologia internazionale suaccennata.
La costituzione del fondo sottomarino. - Molto men0 progredite sono finora le nostre conoscenze sulla costituzione del fondo sottomarino, campioni del quale possono essere portati a giorno solo da scandagli a fune, muniti di apparecchi di presa. Di solito il fondo appare costituito, non da roccia in posto, ma da una coltre di materiali incoerenti, per lo più assai minuti, e, per la sua origine, si può distinguere in due categorie: continentale (o terrigeno) e pelagico. Alla prima categoria appartengono anzitutto i depositi della piattaforma continentale, che provengono sia da prodotti dell'abrasione marina sulle coste, sia da materiali apportati dai fiumi (depositi di spiaggia). Ma lontano dalla costa e fuori della piattaforma continentale si hanno pure, talora fino a profondità notevoli, depositi argillosi, di vario colore, e pure di origine subaerea, ma nei quali troviamo già commiste in notevole quantità spoglie di organismi marini; nei mari artici e intorno all'Antartide si rinviene fanghiglia d'origine glaciale (spesso di carattere azzurrognolo), proveniente da materiale contenuto nei ghiacci gallegianti che cade a fondo quando quelli si sciolgono; fanghiglia costituita da materiali vulcanici (spesso grigia o rossastra); fanghiglia proveniente da residui e relitti corallini, ovvero fanghiglie di diversa provenienza colorate in verde (di solito da granuli di glauconite) o in rosso (da ossido di ferro), ecc.
I materiali pelagici - se prescindiamo dalla cosiddetta argilla rossa, che sta a sé - consistono in massima parte di fanghiglie di origine organica, provenienti cioé da gusci calcarei o meno frequentemente silicei, di plancton vegetale o animale; ad essi si mescolano residui di parti deperibili di altri organismi marini, e anche materiali inorganici, come ceneri vulcaniche o polveri desertiche che dal vento possono escere portate anche lontano dalle coste e che, cadute in acqua, discendono poi lentissimamente fino al fondo. Il più diffuso è il cosiddetto fango a globigerine, costituito in massima parte dagli scheletri calcarei di una specie di foraminiferi la globigerina. Esso si trova in tutti e tre gli oceani maggiori, ma è esteso soprattutto nell'Oceano Atlantico; nella parte meridionale di esso, sul percorso della dorsale mediana, acquista un carattere speciale perché vi si associano, in grandi masse, gusci di piccolissimi molluschi, pteropodi ed eteropodi; si parla perciò di fango a pteropodi. Esso si rinviene, ma pìù raramente, anche negli altri oceani. Alle alte latitudini antartiche, le . lobigerine scompaiono; subentra allora una fanghiglia costituita da spoglie silicee di un ordine di alghe microscopiche, le diatome: una corona di depositi di fango a diatomee circonda l'Antartide; in alcune aree isolate una fanghiglia simile s'incontra anche nelle regioni artiche.
Le regioni abissali del fondo oceanico, di solito a profondità superiori ai 5000 m., sono coperte da un'argilla rossa o bruno-cioccolata, di origine assai problematica. Essa si rinviene nelle più profonde fosse dell'Atlantico e dell'Indiano, ma ha il suo massimo sviluppo nel Pacifico; consta di elementi finissimi, che le dànno una grande plasticità; seccata, ha la durezza della pietra. È priva di calcio e contiene al più il 10% di residui organici; chimicamente si può definire un silicato d'alluminio. Quest'argilla rossa - che costituisce una coltre accumulatasi lentissimamente, tanto che lo strato superficiale al quale arrivano i nostri apparecchi di presa contiene ancora talvolta grani e sferule di provenienza cosmica e denti o altri residui di animali di specie estinte - rappresenta secondo alcuni l'ultimo termine di una decomposizione chimica di materie organiche, che lascia soltanto un residuo minerale, o forse attesta il verificarsi, nelle porzioni abissali degli oceani, di processi il cui meccanismo non è ancora chiarito. In alcune parti dell'Oceano Pacifico e dell'Indiano si trovano mescolati in grandissima quantità all'argilla rossa i resti silicei di radiolarî; questo deposito è perciò indicato come fango a radiolarî.
La cartina a p. 150 dimostra la distribuzione generale delle varie specie di depositi di fondo testé menzionati, mentre la seguente tabella riassume i risultati di calcoli areometrici molto approssimativi (milioni di kmq.). Per i singoli oceani v. le rispettive voci.
Il livello del mare. - Il livello del mare non è costante, ma, come è noto, va soggetto a continue variazioni. Di queste alcune sono dovute a fenomeni visibili e misurabili, che agiscono ora in un senso ora in un altro, come il flusso e riflusso, ovvero in modo variabile e irregolare, come le onde, le correnti, ecc. Ma vi sono inoltre cause che determinano variazioni permanenti, le quali, per quanto più difficilmente misurabili, sono d'importanza di gran lunga maggiore. Poiché la terra emersa ha in media un peso specifico 2,6 volte maggiore di quello dell'acqua, è evidente che in prossimità delle masse continentali ogni particella d'acqua, oltre all'attrazione verso il centro della terra, subisce un'attrazione verso la vicina costa. Tale attrazione può in certi casi essere misurata, come deviazione del filo a piombo dalla verticale: il livello del mare, che si dispone sempre normalmente alla verticale, tenderà perciò a rialzarsi in prossimità dei continenti mentre, per compenso, dovrà tendere ad abbassarsi nelle parti lontane. Questi dislivelli, che influiscono sulla figura del geoide (v. geodesia), furono calcolati teoricamente, ottenendosi come risultato valori assai elevati (oltre 500 m. fra la superficie di livello normale e quella deformata); ma misurazioni di gravità eseguite col pendolo hanno dimostrato che con molta probabilità le deformazioni reali sono molto più piccole di quelle calcolate, non superiori a +100 m., valore del tutto insignificante rispetto alle dimensioni della Terra. Si deve riflettere a tale proposito che le masse continentali sono molto irregolarmente distribuite e le loro influenze perturbatrici probabilmente interferiscono in senso opposto, in modo da compensarsi, almeno in parte. Si è inoltre supposto che la crosta terrestre, al di sotto degli oceani, abbia una densità maggiore di quella delle porzioni emerse, onde si avrebbe anche perciò una sorta di conguaglio.
In ogni modo, quali che siano le perturbazioni che la superficie del mare subisce in forza dei fenomeni ora accennati, il suo carattere di superficie di livello non ne viene alterato. Si hanno invece senza dubbio alterazioni determinate da differenze di pressione atmosferica; col crescere della pressione il livello si abbassa e viceversa, e poiché l'acqua è circa 13 volte meno densa del mercurio, un aumento di pressione, ad es. di 10 mm., dovrebbe teoricamente produrre un abbassamento di livello di circa 130 mm. (l'osservazione dà valori un po' più bassi, circa 100-120 mm. per 10 mm. di mercurio). Là dove si hanno alte o basse pressioni dominanti in modo presso a poco costante, il livello del mare dovrebbe esserne influenzato su vaste estensioni, e dar luogo a correnti di conguaglio. Altre perturbazioni del livello marino sono determinate da differenze di densità dell'acqua, dovute a loro volta a due fattori variabili, la temperatura e la salsedine. Infine anche i venti intervengono ad alterare il livello del mare in quanto, ad es., venti soffianti per un lungo periodo verso terra finiscono per costipare l'acqua contro la costa, innalzandone il livello e viceversa; il che si può osservare specialmente bene sulle coste esposte ai monsoni (ad Aden il livello medio mensile varia da +104 mm. sul livello medio normale col monsone di NE. a −137 col monsone di SO.).
Per tutte queste ragioni il livello reale dell'acqua marina in un determinato punto della costa è molto variabile; ma in seguito a prolungate osservazioni riferite a un caposaldo, o meglio in base a quelle ottenute da strumenti autoregistratori (mareografi: v. marea, XXII, p. 266), si può ottenere un valore medio, analogo a quello che si ottiene per gli elementi meteorologici.
Ma questo livello medio del mare non è eguale in tutti i mari né in tutti i punti di una costa. Ogni stato assume perciò il valore del livello medio del mare in un punto determinato come zero geodetico ufficiale al quale si riferiscono, come punto di partenza, tutte le operazioni di livellazione geodetica e in genere tutte le osservazioni e le misure per la esecuzione delle carte topografiche, ecc. In Italia lo zero geodetico è lo zero del mareografo di Genova (Istituto idrografico); in Francia è lo zero del mareografo di Marsiglia; in Germania si è di recente assunto come punto altimetrico normale un caposaldo stabilito presso Berlino, che è a cm. 6,6 sopra il livello medio delle acque di Swinemünde e a cm. 0,3 sullo zero del mareografo di Amsterdam.
Un tempo si credeva che vi fossero considerevoli differenze fra il livello medio dei diversi mari. A. Humboldt calcolava una differenza di livello di 3 metri fra il Pacifico e il Golfo del Messico; Bourdalou una differenza di m.1, 1 tra Marsiglia e Brest. Allorché si progettava il taglio dell'istmo di Suez, non poche opposizioni si fondavano su una presunta notevole diversità di livello fra il Mediterraneo e il Mar Rosso, che si rivelò poi in realtà inesistente. Risultò in seguito che le opinioni tendenti ad ammettere dislivelli notevoli si basavano su errori di calcolo. Tra il Mediterraneo e l'Atlantico occidentale la differenza nel livello medio non supera in realtà cm. 7,5, quella fra il Baltico e il Mediterraneo è forse, al massimo, cm. 20, ecc. Si può perciò ritenere che i diversi zero geodetici siano di fatto molto prossimi a una sola superficie di livello.
Proprietà fisico-chimiche. - Tra le proprietà chimiche dell'acqua oceanica la più importante è la salinità o salsedine (v. salsedine, e per i singoli oceani e mari alle rispettive voci). Essa determina a sua volta la densità dell'acqua marina (cifra esprimente il peso dell'acqua marina in rapporto a quello dell'acqua distillata a 4°), la quale, supposta costante la temperatura, è proporzionale alla salsedine, anzi non è che un'espressione di questa. Apposite tabelle permettono di ricavare la densità, conosciuta la salsedine e la temperatura: ad es., con una salsedine del 35‰ e una temperatura di 20°, la densità è di 1024,79, ossia 1 mc. di acqua marina pesa kg. 1024,79. La conoscenza della densità ha grande importanza per talune questioni di biologia marina; inoltre per i calcoli di pressione che entrano in molti problemi di navigazione subacquea.
Parallelamente all'aumento generale della salsedine dai poli all'equatore, dovrebbe aumentare in genere anche la densità; ma tale aumento non è rilevato dalla carta costruita dallo Schott in base alle osservazioni della Valdivia, il che si spiega riflettendo che l'influenza della salsedine è annullata, e anzi soverchiata, da quella opposta della temperatura. La compressibilità dell'acqua, come noto, è minima; tuttavia a profondità molto grandi, essa determina un aumento di densità: ad es., a circa 10.000.m. di profondità, la densità effettiva (per una salsedine di circa 34,7‰ e una temperatura di 2,6°) risulta di 1071,23, mentre quella calcolata senza tener conto della compressione sarebbe di 1027,68.
Le acque marine contengono in soluzione dell'aria, che assorbono in tanto maggior quantità, quanto più basse sono la temperatura e la salsedine. Ciò ha importanza pratica dal punto di vista della pesca: le acque fredde, fortemente ossigenate, sono normalmente le più ricche di plancton e perciò anche le più pescose. Ma il potere di assorbimento dell'acqua è maggiore per l'ossigeno che per l'azoto; perciò l'aria contenuta nell'acqua ha maggiore proporzione del primo che del secondo (rispettivamente 34%e 66%) in confronto all'atmosfera che contiene ossigeno nella misura del 21%. I movimenti verticali delle acque trasportano poi i gas anche negli strati profondi; ma sulla distribuzione di quelli in profondità ha importanza anche l'azione degli organismi, come si accennerà. Risulta soprattutto dalle osservazioni fatte nelle crociere della Carnegie che le acque del Pacifico e dell'Atlantico tropicale a basse e medie latitudini sono povere di ossigeno ad alcune centinaia di metri di profondità, mentre a profondità ancora maggiori, o in prossimità del fondo, il contenuto di ossigeno aumenta di nuovo. Anche nel Mediterrneo sembra accertata la presenza di una zona. intermedia povera di ossigeno e di una zona più profonda relativamente più ricca. Ciò è forse in relazione con la circolazione generale, abissale delle acque, o si connette con l'azione degli organismi. Come è noto, le piante decompongono l'anidride carbonica da esse prodotta, assimilando carbonio ed emettendo ossigeno; gli animali invece respirano ossigeno e restituiscono anidride carbonica. Quanto all'azoto, vi sono batterî che fabbricano e batterî che distruggono composti azotati.
L'acqua marina contiene poi anche anidride carbonica, in ragione di 5 cma per litro in media; di essa tuttavia solo una piccola parte è allo stato di soluzione, il resto è allo stato di combinazione. La colorazione normale del mare, a prescindere dai fenomeni di riflessione dipendenti dal colore del cielo, è azzurra o verdeazzurra, con varie tonalità a seconda della salsedine, della temperatura, del contenuto in plancton, ecc. Se s'immergono nelle acque dei dischi bianchi, coi quali si fa d'ordinario l'osservazione del colore, essi appaiono dapprima verdi, poi sempre più decisamente azzurri col crescere della profondità, finché scompaiono al nostro occhio. La trasparenza dell'acqua per il nostro occhio non va oltre i 20 m.; solo eccezionalmente raggiunse i 40 in alcuni punti del Mediterraneo e i 65 nel trasparentissimo Mare dei Sargassi. Ma è noto che i raggi rossi e gialli dello spettro vengono assorbiti più rapidamente, mentre quelli azzurri e violetti penetrano a profondità molto maggiori; la loro presenza ci viene rivelata da lastre fotografiche in certi casi fino a 1500-1700 m. di profondità.
La distribuzione della colorazione negli oceani potrebbe essere esattamente rappresentata per mezzo della scala di Forel, ma non si hanno ancora elementi per costruire una carta in modo completo. In generale gli oceani a latitudini intertropicali sono decisamente azzurri, salvo eccezioni corrispondenti spesso ad aree costiere o percorse da correnti fredde. Non corrisponde tuttavia pienamente alla verità l'opinione, un tempo generalmente diffusa, che l'intensità della colorazione azzurra sia tanto maggiore quanto più elevata è la salsedine (e anche la temperatura): il colore cobalto accompagnato da grande trasparenza si trova nel Mar dei Sargassi e poi nell'Atlantico e Indiano meridionale fra 10° e 30° lat. S. cioè in aree che non coincidono esattamente con quelle più calde o più salate. A latitudini medie e alte il colore tende sempre più verso il verde. Ciò deriva, sia da mescolanza di materiali di origine inorganica, sia soprattutto dalla presenza di plancton in grandi masse, le quali producono perfino colorazioni grigio-verdi e olivastre.
Colorazioni eccezionali, come lattee, sanguigne, giallastre, grige, che si riscontrano solo localmente, e con le quali sono connessi talora i nomi di alcuni mari, derivano o dall'afflusso di materiali di origine continentale (Mar Giallo) o ancora dalla presenza di grandi masse di microrganismi (Mar Vermiglio).
Per la colorazione nei diversi oceani e mari v. alle singole voci.
Temperatura. - La temperatura superficiale dell'acqua negli oceani è normalmente alquanto più elevata di quella degli strati più bassi dell'atmosfera: d'inverno questa norma è pressoché generale, mentre nelle altre stagioni fanno eccezione le acque di correnti fredde. Pertanto il mare cede calore all'aria, e l'entità di questa trasmissione può essere valutata tenendo presente che la quantità di calore resa disponibile per l'abbassamento di 1 centigrado di temperatura subito da 1 m3 d'acqua, è sufficiente a elevare di 1 centigrado 3000 m3 d'aria. Perciò le isoterme dell'aria tendono a uniformarsi a quelle dell'acqua, ma queste a loro volta dipendono, non solo dalla latitudine, ma dalla circolazione orizzontale e verticale dell'acqua e dalla distribuzione delle terre emerse. Tra 40° lat. N. e 40° lat. S. le parti orientali degli oceani sono di solito più fredde delle occidentali, e per tutti gli oceani vale poi il principio che le parti settentrionali sono, a pari latitudine, più calde delle meridionali, come risulta dalla seguente tabella delle medie temperature superficiali della massa oceanica, calcolata dal Krümmel per le singole fasce di 10° lat. di entrambi gli emisferi.
Tale contrasto fra i due emisferi è in ultima analisi una conseguenza della distribuzione delle terre emerse: queste mancano, o quasi, a sud di 40°-45° lat., in modo che le influenze antartiche agiscono liberamente verso nord. È noto poi che, in virtù della circolazione acquea superficiale, acque calde tropicali penetrano dall'emisfero meridionale nel settentrionale, mentre il fenomeno inverso non si verifica.
L'escursione, sia diurna sia annua, della temperatura della acqua superficiale si mantiene entro limiti molto più ristretti di quella della temperatura dell'aria, sia per il più elevato calore specifico dell'acqua, sia per i movimenti verticali che trasmettono il calore in profondità. Per ciò che riguarda l'escursione annua, questa è di regola minima all'equatore e cresce col crescere della latitudine fin verso 40°, per poi diminuire di nuovo procedendo verso i poli; per l'escursione dell'aria la norma generale è l'aumento più o meno regolare, dall'equatore ai poli. Per altre considerazioni su questo argomento v. meteorologia, e le voci sui singoli oceani. Per il congelamento alla superficie dell'oceano v. ghiacci marini.
Con la distribuzione superficiale della temperatura è anche in relazione il fenomeno dell'evaporazione dell'acqua marina, la quale peraltro dipende più direttamente dall'irradiazione solare: essa dovrebbe essere massima nelle zone dove l'irradiazione è più forte e più continua, in un cielo perfettamente sereno. Ma altri elementi interferiscono: l'evaporazione è rallentata dalle alte pressioni atmosferiche, dalla calma e anche dall'intensa salinità, e viceversa. Perciò la distribuzione delle aree di maggiore e minore evaporazione appare assai irregolare. Il Lütgens ha calcolato che l'evaporazione nell'Oceano Atlantico aperto sottrarrebbe in un anno uno strato d'acqua di 95 cm. tra 40° e 50° lat. N., di 160 cm. fra il Tropico del Cancro e 40° N., di soli 115 cm. nella zona equatoriale, di 140 cm. fra 30° e 40° lat. S.; invece nelle regioni aliseali lo strato sottratto sarebbe maggiore, e precisamente di 245 cm. nel dominio degli alisei di NE., di 225 cm. in quello degli alisei di SE. Per gli altri oceani mancano calcoli analoghi e anche questi relativi all'Atlantico si possono accogliere solo in via di approssimazione.
La distribuzione delle temperature in profondità è ancora, in complesso, molto imperfettamente conosciuta. Lo strato superficiale, influenzato dalle variazioni stagionali della temperatura e dalle correnti orizzontali superiori, ha uno spessore variabile a seconda della latitudine; è minimo nelle regioni equatoriali (50-100 m.), cresce in generale verso i poli, ma non supera come massimo eccezionale i 400 m.; è dunque pur sempre molto esiguo, in relazione alla massa complessiva degli oceani. A profondità maggiori, la temperatura diminuisce progressivamente con grande lentezza, fino a raggiungere, intorno ai 2000 m., un valore alquanto inferiore a 3°; scendendo ancora più sotto, la temperatura tende a calare fin verso 0°. Queste nozioni piuttosto vaghe e generiche vanno tuttavia precisandosi, almeno per l'Oceano Atlantico, da circa 25 anni, cioè da quando si cominciarono a possedere serie sistematiche di misure termiche a varie profondità, parallele a misure di salsedine. Si comincerebbe a intravvedere una stratificazione termica, confermata dalla grande campagna della Meteor e secondo la quale, a prescindere dallo strato superiore, si dovrebbero distinguere altri quattro strati: uno, che arriva fino a 800-1200 m. (e anche oltre nell'emisfero nord), nel quale la distribuzione delle temperature sarebbe connessa essenzialmente con una circolazione verticale delle acque; poi tre strati successivi, nei quali le condizioni di temperatura (e di salsedine) sarebbero invece determinate da forti correnti profonde preivalentemente orizzontali. E precisamente fino a 1500-2000 m. uno strato ad acque più fredde e poco salate di provenienza antartica nell'emisfero sud (e forse anche nell'emisfero nord fino a 20° lat. N.), di provenienza artica in qualche parte dell'Atlantico settentrionale; poi uno strato ad acque alquanto più calde, dello spessore di almeno 1500 m. e perciò giungente fino a 3000, e talora fino a 4000 m. di profondità; infine lo strato abissale, con acque a temperature molto basse, di provenienza antartica. Questa stratificazione, ammessa generalmente dagli oceanografi tedeschi (anche, pur con qualche variante, per l'Oceano Indiano), viene messa peraltro in dubbio da altri studiosi, in attesa di più ampio materiale di osservazioni estese a tutti gli oceani (v. del resto alle singole voci). Che peraltro almeno le temperature estremamente basse delle profondità abissali siano dovute a un flusso di acque fredde di provenienza antartica, le quali in tutti gli oceani, e perciò in conclusione su tutto il perimetro del globo, si spingono verso nord, sembra molto probabile; questa appare, almeno, allo stato attuale delle conoscenze, la spiegazione più accettabile delle temperature abissali prossime a 0°.
Sulla distribuzione delle temperature di fondo ha poi naturalmente una grande influenza il rilievo sottomarino; talune intumescenze o dorsali agiscono da veri e proprî spartiacque termici, come è stato rilevato soprattutto per l'Oceano Atlantico, la cui morrfologia è meglio conosciuta in virtù delle numerose serie di osservazioni fatte dalla Meteor (v. atlantico).
Pressioni e Venti. Movimenti oceanici. - La distribuzione generale delle pressioni e dei venti sugli spazî oceanici non può essere considerata separatamente dal problema della circolazione generale dell'atmosfera; vedi sull'argomento alla voce meteorologia § 11 e le carte relative, e per i singoli oceani vedi alle rispettive voci.
Per quanto concerne le correnti oceaniche in generale, v. correnti, e per la carta generale delle correnti superficiali, calde e fredde, v. clima, X, p. 597. Per i problemi sulla circolazione profonda, v. sopra: Temperatura. In particolare per le correnti superficiali dei diversi oceani, v. alle singole voci e ivi anche ciò che riguarda la circolazione verticale e la presenza di acque fredde salienti in alcune zone oceaniche.
Riguardo al problema della marea, si rimanda pure alla voce, non soltanto per la teoria, ma anche per la sintesi generale delle iisservazioni esposta nel vol. XXII, a pp. 273-74. Quivi è anche chiarito il concetto di ore cotidiali e di linee cotidiali (o isorachie) e si è avvertito che i dati sulle ore cotidali che si posseggono si riferiscono, nella stragrande maggioranza dei casi, a località costiere: per il che, quando si congiungono con linee continue, quali sono appunto le isorachie, punti di uguale ora attraverso gli spazî oceanici, si commettono probabilmente errori più o meno gravi, dovuti ad arbitraria interpolazione. Perciò le carte delle isorachie cnntengono sempre elementi ipotetici, soprattutto i modelli proposti per tutti gli oceani, dei quali i più noti sono quello di Whewell, ormai sorpassato, e quello di R. A. Harris (1904). Per alcune notizie sui singoli oceani v. le rispettive voci.
Biologia. - Dei caratteri più generali e più importanti che valgono a differenziare gli abitatori delle acque salse da quelli delle acque dolci e delle terre emerse si è detto sommariamente alla voce ambiente biologico. Qui tratteremo dei fattori chimici, fisici e biologici che influenzano la distribuzione della fauna e della vegetazione marina.
La prima distinzione praticamente utile da farsi nella vita oceanica è quella di due grandi raggruppamenti ecologici, costituiti rispettivamente dagli organismi aderenti al fondo marino (benthos) e da quelli permanentemente galleggianti (plancton). Il benthos è il più evidente, in quanto è formato essenzialmente da specie macroscopiche, per lo più Tallofite autotrofe, appartenenti a stipiti diversi (Zigofite, Feofite, Rodofite, Cloroficee, Alghe, nel senso grossolanamente biologico del termine) e, in misura assai minore, Cormofite delle due famiglie delle Potamogetonacee e Idrocaritacee; accompagnate poi da una moltitudine di Microfite, Flagellate, Schizofite, Zigofite, Cloroficee. La forma delle specie macroscopiche (v. alghe) è molto varia; la loro consistenza, gelatinosa, foliacea, cartilaginea, crostosa, pietrosa, il colore, mutevolissimo attraverso tutte le sfumature che dal verde, dal giallo e dal rosso vanno sino al bruno intenso e al nero; le dimensioni infine, pure diversissime, dalle minute forme cellulari misuranti pochi micron sino alle enormi laminarie dei mari freddi boreali e australi (Giant Kelps; Nereocystis luetkeana, 40 m.; Pelagophycus porra, 45 m.; Macrocystis pyrifera, 50-60 m.; Alaria fistulosa, 12-15 m.). Mancano le Briofite e sono estremamente ridotti i funghi e i licheni. Il plancton, d'altra parte, è invece costituito da forme microscopiche o raggiungenti appena il limite della visibilità (Flagellate, Schizofite, Cianoficee e Batteriacee, queste ultime spesso fosforescenti, Zigofite, Peridinee, Diatomee e Cloroficee). Per quanto riguarda la biologia e la distribuzione geografica del plancton, v. plancton.
Temperatura. - Le conclusioni cui sono giunti l'Ortmann, Meisenheimer e Joubin sulla distribuzione geografica degli animali marini confermano l'importanza preponderante della temperatura e la indicano come il fattore più adatto per tracciare almeno le linee fondamentali della zoogeografia marina. L'Ortmann distingue la "regione marina delle acque calde", a temperatura non inferiore a 25°, la quale forma una cintura tropicale attorno al globo; due regioni di acque polari attorno ai poli e altrettante regioni intermedie tra quella e queste. In tesi generale la fauna delle acque calde si distingue per la sua ricchezza di specie (in parte esclusive a dette acque), per lo più congiunta a scarsità d'individui, mentre una condizione di cose pressoché opposta si rileva di regola nelle acque fredde circumpolari. Ciò tuttavia non consente di concludere senz'altro circa la produttività relativa delle due zone; infatti per l'azione acceleratrice esercitata dalla temperatura sul ricambio e sull'accrescimento le generazioni si succedono nell'unità di tempo in numero assai più rilevante nelle acque calde che nelle fredde e possono perciò coesistere in maggior numero le generazioni successive di una medesima discendenza. Occorre aggiungere che il regime termico pressoché uniforme nelle acque dei tropici è particolarmente favorevole all'esistenza degli animali termofili e stenotermi e che solo le zone calde consentono lo sviluppo delle biocenosi madreporiche, che non tollerano una temperatura inferiore a 20°-21°. Nelle acque fredde si esercita una selezione a danno degli stenotermi, soprattutto nelle zone più discoste dai poli; assai meno in prossimità di questi, dove il calore estivo viene in gran parte consumato nella fusione dei ghiacci invernali e l'oscillazione termica annuale è di conseguenza fortemente ridotta. Si attribuisce soprattutto alla temperatura pressoché uniforme dell'acqua nei fondi abissali degli oceani (1°-3°) il carattere in parte monotono delle faune abissali.
Composizione chimica e densità. - La salinità esercita un'influenza notevole sulla distribuzione della fauna e flora marina. Infatti aumenti o diminuzioni locali o temporanee di salinità hanno per effetto l'eliminazione di specie stenoaline; esempio caratteristico il Baltico, la fauna e la flora del quale si dimostrano gradatamente impoverite da S. a N. passando da una facies prettamente marina a una facies salmastra con infiltrazioni di forme d'acqua dolce; fatti analoghi si verificano lungo le coste del Mar Nero (v.), nella laguna di Venezia, ecc. Sebbene il processo di formazione del ghiaccio in acqua marina sia molto diverso da quello che si svolge in acqua dolce e più complesso, si forma anche in mare, come risultato finale, una crosta di ghiaccio che galleggia in una massa d'acqua più densa e protegge da raffreddamento ulteriore la fauna e la flora, ricche e variate, che popolano le acque circumpolari, mentre ogni manifestazione di vita verrebbe a cessare qualora il congelamento si producesse in tutta la massa delle acque. Fra gli ioni contenuti nell'acqua di mare merita speciale menzione il calcio, come materiale di costruzione di Madrepore, Foraminiferi, Molluschi, ecc., soprattutto nelle acque calde del globo; il silicio, sebbene assai meno diffuso, ha pari importanza nei riguardi dei Radiolarî e delle Spugne silicee, soprattutto nelle acque fredde. Le sostanze fertilizzanti (nitrati, nitriti, fosfati) regolano la produzione dei vegetali e indirettamente quella degli animali.
Per quanto concerne gli ioni contenuti nell'acqua marina e in particolare il valore biologico della concentrazione degli H ioni (idrogenioni), occorre tener presente:1. che gli ioni dell'acqua marina e quelli del sangue dei vertebrati sono approssimativamente nelle medesime proporzioni; 2. che i fluidi interni degl'invertebrati e dei pesci ossei marini sono isotonici con l'acqua di mare; 3. che l'acqua marina è capace, entro certi limiti, di regolare automaticamente la propria concentrazione degli H ioni. L'acqua di mare si comporta dunque come una soluzione fisiologica nei riguardi dei suoi abitatori. Come regolatore delle faune il pH non ha sensibile importanza in mare aperto, perché oscillante entro limiti molto ristretti; la sua influenza si manifesta soltanto vicino a terra e in speciali condizioni (bacini chiusi, vasche da acquario, ecc.).
Quasi dappertutto negli oceani la tensione dell'ossigeno disciolto è sufficiente ai bisogni della fauna marina. In talune depressioni del fondo oceanico l'acqua si è rivelata assai povera in ossigeno; ma la tensione di questo gas può ridursi, come nel Golfo di Panamá, al 2-12% di saturazione, senza che l'ambiente diventi del tutto incompatibile con la vita; soltanto la mancanza di ossigeno la sopprime completamente (v. nero, mare). D'altra parte l'azione dell'ossigeno sulla vita marina è assai complessa per il fatto che il consumo di questo gas varia in larga misura da un gruppo animale all'altro; gli animali a sistema circolatorio e respiratorio molto sviluppati e molto attivi si dimostrano in larga misura indipendenti dalla tensione esterna del gas in parola.
Luce. - La luce è fattore di primaria importanza nella distribuzione della fauna marina. A una certa profondità media, di 200 m. circa, dove più non si propagano i raggi luminosi necessarî per la fotosintesi, viene a mancare la vita vegetale e con questa la vita degli animali erbivori; rimangono soltanto i carnivori e i mangiatori di detriti. Causa l'obliquità dei raggi luminosi che incidono sulle acque circumpolari, si rinvengono quivi a tenue profondità specie che nei mari tropicali sogliono frequentare livelli assai più profondi. Inoltre la luce è fattore di speciale importanza nel provocare e nell'orientare i movimenti di numerosissimi animali marini, i quali, a seconda della costituzione specifica, dell'età, dello stato fisiologico, ecc., vengono attratti oppure respinti da zone di determinata intensità luminosa. Ma importanza ancora più grande ha la luce nella distribuzione dei vegetali marini. Infatti mentre gli animali possono spingersi a grandi profondità, le esigenze della fotosintesi limitano la diffusione delle specie vegetali a profondità relativamente piccole, variabili da mare a mare. Cosi Kjellmann ha constatato la diffusione delle specie bentoniche sulla costa di Murmania sino a 40 m. di profondità, Rosevinge, su quella groenlandese, sino a 60 m., Lorenz, nel Golfo del Quarnero, sino a 60-70 m.; ma Kjellmann stesso ha verificato, a N. dello Spitzberg, un limite di 270 m. e Berthold nel Mediterraneo, presso Capri, colonie estreme di alghe a 120-130 m. Al disotto di questa quota gli ultimi avamposti vegetali in profondità sono sporadici e scarsamente sviluppati. A questa limitazione si connette la questione della rispettiva distribuzione batimetrica delle alghe verdi, rosse e brune. È noto come Engelmann e Gaidukow abbiano sostenuto che il colore delle alghe è complementare a quello della luce che attraversa lo strato acqueo corrispondente, mentre altri autori (Magnus, Schindler, Kylin, Sauvageau) negherebbero questo adattamento cromatico, ammettendo soltanto che le alghe rosse siano semplici e più sciafile delle verdi e delle brune. La regolarità della zonazione delle alghe a seconda della loro appartenenza al tipo verde, bruno o rosso è stata indubbiamente esagerata; infatti se le alghe rosse, che si incontrano anche presso il livello del mare,vanno diventando più frequenti col crescere della profondità e pressoché esclusive nelle quote inferiori, le laminarie giganti d'altra parte, radicate (come abbiamo visto) su fondi di oltre 40 m., raggiungono tuttavia la superficie marina con l'estremità assimilante delle loro lamine brune.
Pressione. - Nelle condizioni naturali la pressione non è di ostacolo alla vita nelle grandi profondità. Infatti l'acqua (di salinità media) a oltre 495 atmosfere di pressione, che gravita sopra un animale marino alla profondità di 5000 m., non soltanto ne bagna la superficie esterna, ma ne occupa tutte le cavità interne e ne compenetra i tessuti; la pressione si esercita dunque in ogni punto e in ogni direzione e non nuoce al pesce abissale come a noi non reca danno la pressione dell'aria sovraincombente. La pressione può esercitare un'azione limitatrice sui movimenti verticali della fauna: gli animali marini portati rapidamente a galla da grandi profondità subiscono alterazioni gravi e spesso mortali (scoppio della vescica natatoria nei pesci, ecc.). Si osserva però che in una serie di specie d'acque profonde, pescate alla medesima quota batimetrica, alcune tollerano un'ascesa di più centinaia di metri; altre regolarmente soccombono.
Movimenti del mare. - Il moto ondoso esercita nelle zone poco profonde del mare una selezione rigorosa a danno delle specie incapaci di resistere all'urto dell'onda contro la scogliera o al rimescolamento del fondo. Un'azione selettiva altrettanto severa esplica la marea a favore di un numero molto ristretto di animali sottoposti a regolari alternative di emersione e di sommersione. È noto a tutti che le correnti costituiscono il mezzo più efficace di trasporto e diffusione della fauna marina; inoltre le grandi correnti oceaniche si distinguono fra loro non solo per le caratteristiche fisico-chimiche, ma pure per la quantità e qualità del plancton.
Nella zona superficiale e specialmente sulle coste rocciose esposte a grandi maree, il movimento del flusso e del riflusso determina la regolare sovrapposizione di ambienti ecologici diversi e una corrispondente stratificazione della vegetazione marina. Fra la media massima raggiunta dall'alta marea e la media minima toccata dalla bassa marea, è compresa la zona che Kjellmann ha indicata come litorale; e rispettivamente sopralitorale e sublitorale, sono denominate le zone delimitate, al disopra e al disotto della precedente, dalle quote massima e minima raggiunte dalle maree equinoziali. Una zona profonda, costantemente immersa e scarsamente luminosa, succede verso il basso alla zona sublitorale, spingendosi sino verso il limite della vegetazione. Sulle coste in corrispondenza delle quali la marea è poco accentuata, la zona sommersa entro la quale si verifica il massimo sviluppo della vegetazione marina è compresa fra 0 e −30-40 m.
Natura del fondo marino. - A distanza non grande dal battente del mare la costituzione dei fondi sabbiosi o melmosi comincia a darci una idea della fauna vivente nella regione considerata. In tesi generale, nelle vicinanze dei continenti i depositi cosiddetti terrigeni sono commisti a residui talora abbondantissimi di organismi bentonici (Madrepore, Briozoi, Molluschi, Echinodermi, ecc.), mentre in pieno oceano i depositi si chiamano pelagici perché ricchi e spesso gremiti di residui di plancton. Il fondo dell'Atlantico quasi per intero e larghe zone nel fondo degli altri due oceani sono costituiti in gran parte dai minuscoli gusci calcarei di Foraminiferi apparten-nti al genere Globigerina; come varietà del fondo a Globigerine vanno considerati i fondi a Pteropodi, ricchi di conchiglie di tali Molluschi, e proprî di zone assai ristrette nei mari caldi e temperati (es., Mediterraneo e Mar Rosso). I fondi a Diatomee occupano una larga fascia nei mari Artico e Antartico e quelli a Radiolarî zone staccate del Pacifico e dell'Indiano. Finalmente lo stato di aggregazione del fondo e il substrato vegetale (quando esiste) di alghe svariatissime o di fanerogame marine (Posidonia, Zostera, Halophila, ecc.) hanno una influenza preponderante nel determinare la facies faunistica delle singole zone biologiche, le quali dalla scogliera o dalla spiaggia si succedono con ordine determinato fino alle melme costiere e abissali. Ciascuna di tali zone infatti si distingue per un numero più o meno rilevante di specie caratteristiche, le quali molto spesso hanno in comune non soltanto certe colorazioni o particolarità morfologiche determinate, ma anche caratteristiche etologiche e soprattutto fenomeni di natura mimetica. Così la fauna delle praterie mediterranee di Posidonia, coi suoi Isopodi e gamberetti verdi (Idotea, Hyppolite), coi suoi pesci-ago e cavallucci marini (Syngnathus, Nerophis, Hippocampus) squisitamente mimetici, ecc., ha una facies faunistica completamente diversa sia da quella della zona che la precede verso terra (zona delle arene nude) sia da quella della zona che la segue verso il largo (melme costiere).
Fauna. - Successione dei tipi principali di fondo con citazione di specie indici delle faune relative nel Tirreno. - Serie di scogliera:1. zona sopramarina (sino a un paio di metri al disopra dell'alta marea): Lygia italica, che corre sulla scogliera inumidita dallo spruzzo marino (nella facies terrestre); 2. Coleotteri del genere Ochtebius, che in piena attività sopportano alte concentrazioni dell'ambiente; copepode Tigriopus fulvus, che sopporta concentrazioni altissime in condizioni di vita latente (nelle pozze d'acqua marina che si concentra, per evaporazione, durante l'estate); 3. zona di marea: celenterato zoantario, Actinia equina, adattata a temporarie emersioni e con ritmi fisiologici intonati al ritmo della marea; 4. zona della scogliera sommersa: Maja verrucosa, granchio che si maschera con giardinetti di alghe; Box salpa, pesce divoratore di alghe (lattughe di mare); 5. fondi detritici, che constano di frammenti roiolati dalla scogliera soprastante, liberi o cementati da alghe incrostanti (Coralline): genere Retepora, briozoi a colonie nastriformi; Saxhava arctica, mollusco acefalo nascosto entro i meati del fondo; il pagaro (Pagrus vulgaris), pesce teleosteo; 6. fondi melmosi costieri: il celenterato Alcyonium palmatum, impiantato nella melma mercé la turgescenza dell'asse carnoso della colonia; il Mollusco cefalopodo Eledone Aldrovandii, polpo moscardino di fango.
Dalla spiaggia: 1. zona sopramarina, sotto ai mucchi di alghe o Zosteracee buttate a riva: i Crostacei anfipodi del genere Orchestia; 2. arene litorali sommerse: gamberetti del genere Crangon; molluschi acefali (Tapes, Tellina, ecc.), che affiorano coi sifoni alla superficie della sabbia; 3. zona delle praterie di Posidonia: il crostaceo isopodo Idotea hectica, che a riposo si mantiene immobile lungo la foglia; l'idrario Sertularia perpusilla le colonie del quale si sviluppano sulla lamina fogliare, i pesci del gruppo dei Lofobranchi (v. sopra). Per quanto concerne i fondi melmosi abissali v. abissale, fauna.
Vegetazione e flora. - Alla zona sopralitorale, comprendente a sua volta due orizzonti, l'uno raggiunto soltanto dagli spruzzi delle onde, l'altro sommerso al momento delle grandi maree, appartengono, oltre a parecchie piante terrestri specificamente tolleranti del cloruro di sodio, e a qualche lichene rupicolo (Verrucaria, Lichina, Ephebe), numerose alghe di una forte resistenza, sia verso l'aumento di concentrazione della salsedine, sia verso il disseccamento, e capaci quindi di formare estese colonie sugli scogli bagnati (Prasiola, Ulothrix, Hildebrandtia, Bangia, ecc., nei mari freddi; Bryopsis, Nemalion, ecc., nel Mediterraneo) e di conservarsi nelle pozze piene d'acqua abbandonate a marea bassa (Chorda, Ulva, ecc.). Altrettanto varia e fisionomicamente assai diversa è la vegetazione della zona litorale che, dalla stessa distribuzione dei tipi biologici, appare suddivisa in almeno tre orizzonti ben distinti: uno superiore, facilmente scoperto e caratterizzato dalla presenza dei lunghi talli nastriformi (sino a 3 m.) della Himanthalia lorea; uno intermedio, dominato fisionomicamente dal grande sviluppo che vi assumono le specie del genere Fucus e anche, laddove si conserva a bassa marea una sufficiente quantità di acqua mossa, dal genere Cystoseris; e infine uno inferiore, nel quale compaiono già le specie minori del genere Laminaria associate a numerose altre di Rhodhymenia, Plocamia, Chondrus, Gigartina, ecc. Le laminarie diventano il tipo caratteristico della zona sublitorale; vi sono rappresentate sulle coste europee specialmente dai generi Laminaria, Alaria, Saccorhyza, mentre lungo le coste del Pacifico, tanto boreali quanto australi, questa formazione si arricchisce notevolmente, comprendendo i grandi kelps sopra citati, accompagnati da numerose specie di dimensioni minori, appartenenti ai generi Egregia, Cortaria, Dictyoneuron, Agarum, Cymathera, ecc. La Macrocystis pyrifera costituisce, come specie assolutamente dominante, lungo le coste esposte, banchi enormi estendentisi per parecchie miglia marine, con una larghezza che varia da 50 m. a parecchi chilometri; il Camerun ha calcolato che queste sterminate formazioni coprono lungo la costa nord-americana del Pacifico una superficie stimabile a 390.000 miglia quadrate. Del resto, su queste stesse spiagge, una specie del genere Fucus (F. furcatus) assume, nella zona litorale, uno sviluppo così grande, che le masse di quest'alga, strappate dall'onda e impigliatesi nelle laminarie sottostanti, disturbano lo sviluppo e la raccolta industriale di queste ultime.
Alla stessa zona e con speciale localizzazione sui fondi sabbiosi e fangosi, appartengono anche le praterie marine di cormofite. Si tratta in complesso di poco più di una ventina di specie, che presentano la loro massima differenziazione nei mari tropicali (Oceano Indiano, 14 specie; Pacifico, 13 specie; Atlantico, 7 specie; mari boreali, 1 specie), raggruppabili in pochi generi appartenenti alla loro volta alle due famiglie citate delle Potamogetonacee (Cymodocea, Halodule, Zostera, Phyllospadix, Posidonia, Halophyla) e delle Idrocaritacee (Enhalus, Thalassia). Quattro sole specie costituiscono le praterie marine del Mediterraneo (Posidonia, Zostera [2], Cymodocea); esse non scendono al disotto di una profondità di 10 m. e hanno grande importanza per la notevole varietà della vita vegetale e animale che vi trova appoggio, riparo e alimento. P. Ascherson, che ha dedicato a questi vegetali una classica monografia, ha rilevato particolari interessanti della loro distribuzione geografica, i quali tenderebbero a dimostrare che i generi, ai quali appartengono queste erbe marine, esistevano già prima che si precisasse la distribuzione attuale delle terre e dei mari, mentre le loro specie, dotate di aree continue, sono probabilmente di origine posteriore alla fissazione dei bacini oceanici contemporanei.
Assai meno nota della distribuzione tropicale delle erbe marine è quella delle alghe bentoniche. Sappiamo soltanto che nei mari caldi le laminarie e le fucacee sono sostituite dalle numerose specie del genere Sargassum. La vegetazione litorale dei paesi tropicali, oltre a essere molto ricca, presenta anche differenze biologiche notevoli a seconda che popola le superficie di scogliera battute dall'onda o quelle che ne sono riparate. Per es., a Ceylon sono caratteristici della prima i generi Chnoospora, Champia, ecc., le specie dei quali sono anche molto resistenti al disseccamento e, nella zona immersa, i generi Laurencia, Rhodomela, Corallopsis, Gracilaria, Porphyra, ecc.; della seconda, Caulerpa, Dictyosphaeria, Valonia, Bryopsis, Sargassum, Chaetomorpha e, subordinatamente, Claudea, Mertensia, Sebdenia, ecc., Le correnti marine sono naturalmente i mezzi di diffusione nella zona tropicale, come nelle temperate, delle specie bentoniche. Da questo trasporto di materiali strappati dall'onda dal loro punto di attacco, dipende anche la costituzione di quei grandi accentramenti di viluppi algosi, noti sotto il nome di mari dei sargassi, che s'incontrano nelle aree oceaniche calme circoscritte dalle diramazioni delle correnti, marine (v. sargasso).
Alla stessa zona litorale e spingendosi anzi fino a 20 m. di profondità, appartengono estese formazioni di alghe incrostanti e calcarizzanti (Litothamnium, ecc.), le quali, analogamente a quanto avviene da parte di animali di varie classi, rappresentano una parte notevole nella costituzione di banchi di calcari biogeni. Pure importanti e rientranti nella medesima zona sono le formazioni saprofitiche; esse compaiono, sia nelle stazioni d'estuario o comunque di abbassamento della concentrazione salina, quale si verifica in alcuni mari di limitata estensione, poco profondi e riceventi le acque di ampî bacini fluviali (Baltico) e sono caratterizzate da numerose schizofite (molti batterî solforarî), da Confervacee, Caracee e Potamogetonacee; sia nelle lagune soprasalate, ove costituiscono cotenne di fondo caratteristiche (Microcoleus chtonoplastes).
La conoscenza della distribuzione delle alghe macroscopiche, così numerose e varie, non è ancora abbastanza avanzata per potere essere riassunta in una classificazione di zone di vegetazione. Conclusioni fitogeografiche precise, quali sono state ricavate, come s'è accennato, da Ascherson per il caso delle cormofite marine, non sono oggi possibili per le tallofite. In ogni modo un tentativo è stato fatto da O. Drude, il quale ha definito tre grandi dominî della vegetazione oceanica: uno boreale, caratterizzato dal grande sviluppo delle Laminarie, che, nell'Atlantico, raggiunge un limite meridionale che dalle coste europee della Spagna si spinge al Capo Cod (41° lat. N.) sulle coste americane; uno tropicale, oltrepassante largamente i tropici in entrambi gli emisferi, e contrassegnato dal grande polimorfismo che vi assume il genere Sargassum; e uno australe, nuovamente dominato dalle grandi Feofite.
L'oceano nell'economia umana. - L'oceano fu in origine e per lungo tempo un nemico dell'uomo, anzi per i popoli primitivi, inesperti nell'arte della navigazione, costituì una barriera insormontabile. È noto che anche bacini ristretti, ma esposti a pericoli improvvisi (come il Mar Nero per i Greci) rappresentarono ostacoli superati solo in seguito a progressi della navigazione; quanto agli aperti spazî oceanici, le cui distese non avevano apparentemente limiti, essi incutevano terrore, onde le leggende che si trovano, variamente foggiate, presso tutti i popoli rivieraschi. Questi si limitarono dappertutto a utilizzare le risorse offerte dalle zone costiere, sale, pesce, perle nell'Oceano Indiano, ecc. Soltanto là dove esistevano numerosi arcipelaghi vicini, o ponti insulari, l'oceano poté essere percorso sino da epoche remote, come avvenne per il Pacifico occidentale e una parte dell'Indiano; mai per l'Atlantico, privo, o quasi, di isole in tutta la sua regione mediana. La prima traversata dell'Atlantico operata da Colombo ha un'importanza enorme soprattutto perché schiude all'attività umana le distese dell'oceano aperto, non soltanto per quanto riguarda la navigazione, ma anche per quanto concerne l'utilizzazione delle risorse fuori dalle acque costiere (pesca d'alto mare). La gigantesca rivelawione in seguito alla quale gli oceani cessano dalla loro funzione essenziale di barriera e sono, per così dire, immessi nel ciclo dell'economia mondiale, anzi si avviano a diventarne il veicolo principale, si compie in sostanza in trent'anni, quanti ne corrono dalla prima navigazione di Colombo alla spedizione di Magellano, che non solo travalicò il Pacifico, ma con l'unica nave superstite, la Vittoria, compì nel ritorno anche la prima traversata vera e propria dell'Oceano Indiano.
Anche la pesca d'alto mare comincia, almeno nell'Atlantico, già nei primi decennî del sec. XVI; ma per molto tempo si esercita nel modo più irrazionale e disordinato. Il riconoscimento dell'estensione e distribuzione e delle caratteristiche dei più notevoli distretti di pesca del globo è proceduto assai lentamente, e la loro importanza relativa è anche talvolta mutata dal secolo XVI in poi. Com'è noto, i grandi distretti di pesca, che per l'entità del prodotto renda possibile un largo consumo e alimenti un traffico esteso, non sono molti e si trovano quasi esclusivamente nei limiti della piattaforma continentale, in aree dove si mescolano acque di diversa provenienza e temperatura, ricche di plancton: vengono pertanto in considerazione solo aree delle zone temperate e temperate fredde, e tra esse di gran lunga in prima linea quelle dell'emisfero boreale, perché nell'emisfero australe la distanza dalle basi e dai centri di consumo diminuisce, almeno per ora, il valore di alcune aree. È noto del pari che per quanto riguarda la pesca vera e propria poche sono anche le specie di pesci che hanno importanza fondamentale nel consumo mondiale. Ma per tutti questi argomenti v. pesca e per i singoli oceani e mari le singole voci.
Il mare non fornisce peraltro soltanto pesce nel senso stretto. Come è noto, grande importanza ha oggi la cattura di altri animali, come cetacei di varie specie; inoltre quella di tartarughe, perle, spugne, coralli, ecc. Tra gli organismi vegetali si utilizzano da tempo alcune alghe per l'alimentazione di animali domestici e anche dell'uomo (per es., nel Giappone); altre per estrarne sali magnesiaci, potassici e iodici. Dei sali che direttamente l'acqua marina contiene in soluzione si utilizza soltanto il cloruro di sodio o sale da cucina. Questo si ottiene comunemente per evaporazione dell'acqua, sia naturale, sia artificiale, nelle saline; nell'un caso e nell'altro sono necessarie forte insolazione e secchezza del clima. Per la costruzione di saline artificiali è anche necessario poter disporre di una vasta estensione di spiaggia piana, che renda possibile di portare, mediante canali, l'acqua nei singoli bacini di concentrazione, almeno ad alta marea, senza necessità di pomparla artificialmente, il che accresce le spese di estrazione. La maggior parte delle saline si trova nelle zone tropicali e subtropicali, e specialmente nelle regioni che hanno un lungo periodo di siccità, o estivo (paesi mediterranei), o invernale (India, ecc.); le regioni a clima desertico si presterebbero naturalmente in modo egregio, ma ivi l'estrazione è minima per la scarsezza della popolazione. Nelle regioni propriameme equatoriali, a clima caldo ma umido (senza stagione secca), l'estrazione è naturalmente resa più difficile. Il totale del sale estratto dalle acque marine si calcola a 7-8 milioni di tonn. annue, più di un quarto dell'intero sale consumato annualmente (i due terzi di esso provengono dal salgemma; un certo quantitativo da laghi salati interni).
È difficile calcolare, anche approssimativamente, il valore totale dei prodotti che il mare dà ogni anno all'uomo. Per i prodotti della pesca nel senso più largo, E. Fels ha calcolato (1932) 31/2 miliardi di marchi, di cui un po' più del 52% sarebbero dati dall'Atlantico (e mari dipendenti), 47% dal Pacifico, meno dell'1% dall'Oceano Indiano. La cifra è probabilmente inferiore al vero, e anche la ripartizione dovrebbe essere modificata, essendosi forse sottoestimato il prodotto dell'Oceano Indiano. Compresi i prodotti minerali, si può certamente assumere la cifra di 20 miliardi come valore di larga approssimazione più vicino al vero.
La grande navigazione oceanica ha avuto per più di tre secoli come veicolo esclusivo il naviglio a vela, cui spetta la gloria, non solo di avere sperimentato le prime rotte transoceaniche in tutti i sensi, ma di avere compiuto l'esplorazione degl'interi spazi oceanici fino ai Circoli polari. La navigazione a vela era ed è tuttora legata a rotte determinate specialmente dal regime dei venti e anche dalle correnti, ecc.; rotte variabili perciò nell'andata e nel ritorno, ovvero su uno stesso percorso da stagione a stagione. Tra le più lunghe rotte veramente transoceaniche e che sono ancora, sia pure in misura modesta, seguite, si possono citare quelle tra l'Europa atlantica e i porti cileni di esportazione dei nitrati; quelle tra l'Europa e i porti dell'Indocina per il Capo di Buona Speranza (riso, legname); quelle dai porti canadesi del Pacifico e da quelli dell'America Centrale all'Europa per il Capo Horn (legnami, legni coloranti, minerali); quelle dall'Europa all'Australia per il Capo di Buona Speranza e poi attraverso l'Oceano Indiano (nella zona dei venti di ovest, tra 40° e 45° lat. S.), ecc. Quest'ultima direzione è notevole perché i velieri che la percorrono, giunti in Australia, preferiscono, per il viaggio di ritorno, anziché rifare la strada attraverso l'Indiano, dirigersi al Capo Horn per continuare a utilizzare ancora i venti occidentali fra l'Australia e l'America Meridionale; carichi di prodotti australiani, essi tornano perciò ai porti europei di origine, avendo compiuto il giro del mondo (v. pacifico, oceano). Ma questa grande navigazione a vela, che, mutate le forme e i tipi delle navi, si sosteneva ancora negli ultimi decennî del secolo scorso e, in parte, anche prima della guerra mondiale, si va a poco a poco affievolendo; il motore è dapprima comparso come sussidiario della vela, e ora la motonave finisce per conquistare un assoluto sopravvento.
La navigazione a vapore non è legata, come quella a vela, a determinate condizioni meteorologiche; tuttavia è noto che anch'essa cerca di evitare zone pericolose, p. es. i passaggi di fitte nebbie e di ghiacci galleggianti, che obbligano a rallentamenti e a speciali precauzioni. Inoltre la situazione dei porti di partenza e di arrivo, l'esistenza di passaggi obbligati, come stretti e canali, determinano la formazione di fasci di rotte, in virtù dei quali alcune plaghe oceaniche sono battute con grandissima frequenza, altre invece sono quasi assolutamente infrequentate (v. cartina). Eckert ha calcolato per il 1923 la seguente ripartizione, indicando per ciascuno dei fasci principali il movimento (in milioni di tonn. reg. nette).
L'importanza relativa di questi fasci di rotte è certamente alquanto mutata nel decennio seguente; il primato resta sempre ai fasci nordatlantici, ma i fasci diretti al Mediterraneo e, oltre Suez, ai porti dell'Oceano Indiano, dell'Estremo Oriente e dell'Australia hanno acquistato maggiore intensità, anche in via relativa, come ci è rivelato dalle statistiche del canale di Suez. Anche il traffico attraverso il canale di Panamá è molto aumentato d'importanza; esso influenza i fasci n. 3 e n. 6. Per maggiori notizie si vedano le voci sui singoli oceani; per il naviglio mercantile mondiale e la sua ripartizione per bandiere v. marrna, XXII, p. 341 segg.
Circa l'importanza degli oceani nella storia delle competizioni mondiali v. atlantico; indiano, oceano; pacifico, oceano; si osserverà qui che la configurazione e le caratteristiche diverse dei tre oceani hanno esercitato ed esercitano tuttora la loro influenza: soltanto sull'Oceano Indiano, per il suo carattere intracontinentale, sono state possibili in passato delle vere e proprie talassocrazie, e tale può dirsi anche oggi quella che vi è esercitata dall'Inghilterra. Nell'Atlantico la supremazia di una potenza sulle altre fu possibile quando questa aveva nelle sue mani saldi ed estesi punti di appoggio sulle rive dei quattro continenti che ad esso si affacciavano; ciò non potrebbe più verificarsi nella situazione politica attuale, anche per la grandissima penuria di isole e di arcipelaghi in situazione tale da permettere un controllo delle vie marittime più battute.
L'Oceano Pacifico, quello che è più tardi entrato nella storia mondiale, si trova in condizioni completamente diverse e, per la sua stessa vastità, per il grandissimo numero di potenze che ad esso sono interessate con tendenze politiche ed economiche diverse, con forza di espansione mirante a mete differenti e talora in assoluto contrasto, è quello che presenta ora e per l'avvenire i più formidabili problemi.
Bibl.: v. oceanografia, e per la parte biologica: F. Oltmanns, Morphologie und Biologie der Algen, I-III, 2a ed., Jena 1923; P. Dangeard, Traité d'algologie, Parigi 1933; E. Warming, Lehrbuch der ökologischen Pflanzengeographie, 3a ed., Berlino 1918; P. Ascherson, Die geographische Verbreitung der Seegräser, in Petermann's geogr. Mittheilungen, 1871, fasc. 7°; O. Drude, Manuel de géographie botanique, Parigi 1897; L. Joubin, La vie dans les océans, Parigi 1912; R. Issel, Biologia marina, Milano 1918; C. Sauvageau, Utilisation des algues marines, Parigi 1920; J. Murray e J. Hjort, The Dephts of the Ocean, Londra 1912; P. Hesse, Tiergeographie, Jena 1924; J. Johnstone, An introduction to Oceanography, Liverpool 1923; L. Joubin, Éléments de biologie marine, Parigi 1928; H. B. Bigelow, Oceanography, Londra 1931.