OBIZZI
– Nobile famiglia che tardi genealogisti accreditano, senza validi fondamenti, come discesa in Italia dalla Borgogna con l’imperatore Enrico II all’inizio del secolo XI e consorte dei Fieschi, conti di Lavagna.
Rivestirono una parte primaria nella lotta di fazione a Lucca a cavallo tra XIII e XIV secolo, in opposizione agli Antelminelli, quando il giudice Opizo (Obizzo), assassinato nel 1301, e Dino detto Veneziano erano tra i massimi rappresentanti della famiglia. Esiliati dopo la presa della città da parte dei ghibellini nel 1314, nei decenni seguenti contarono vari abili uomini d’arme, quali Alamanno (ricordato da Giovanni Villani: Nuova cronica…, 2007, pp. 156, 165, 180) e Tommaso, cui nel 1336 re Edoardo III d’Inghilterra avrebbe conferito l’ordine cavalleresco della Giarrettiera. Il fuoriuscitismo (nel 1340 a Buggiano, più tardi a Pescia) non spiega però del tutto la disseminazione in varie città degli Obizzi, che con Nino e Tommasino tornarono a essere famiglia di ‘messeri’ e parte del Consiglio generale di Lucca, ma esclusi dall’Anzianato. Furono un casato molto ramificato ed ebbero forti legami prima con Firenze (dove Nino nel 1341 ed Alamanno nel 1357 furono creati cavalieri del Comune) e poi con Ferrara (Alamanno, podestà di Parma, appoggiò la sottomissione della città al marchese d’Este).
Tommaso, figlio di Nino da Lucca, figlio a sua volta di Dino detto Veneziano degli Obizzi, dopo esser stato al servizio della regina Giovanna I di Napoli, nel 1374 come capitano dell’Aquila ed ancora nel 1376 (Scalco, 1997, p. 13), dal 1386 assunse a Ferrara una posizione di spicco tra i forestieri entrati nella cerchia dei marchesi d’Este, divenuti membri autorevoli dei consigli di governo signorili. Alberto d’Este lo designò tra i tutori del giovane figlio Niccolò III (1392-98), nel 1403 aveva ottenuto la cittadinanza fiorentina, fu tra i padrini di Leonello d’Este nel 1407; testò nel 1411. Antonio, nipote di Tommaso tramite il figlio Roberto (premorto al padre verso il 1402), senza indebolire il legame con Ferrara, dove è documentato a varie riprese, strutturò stabilmente la gravitazione su Padova grazie al matrimonio con Samaritana detta Negra, figlia di Daniele Negri e ultima discendente della famiglia, che nel 1422 portò in dote, oltre alla cappella funeraria nella basilica di S. Antonio (già Rogati o della Madonna Mora), un rilevante patrimonio immobiliare, in città e nelle località rurali di Albignasego e di Battaglia sui colli Euganei, ma anche nella zona di Cittadella, come risulta dalle polizze d’estimo quattrocentesche (Archivo di Stato di Padova, Archivio Civico Antico, Estimo 1418, vol. 176, ff. 1, 4, 6). Antonio, ammesso alla cittadinanza padovana nel 1424, fu esponente del ceto dei milites all’interno dell’élite del consiglio civico, ultimo e non trascurabile spazio rimasto alla limitata autonomia cittadina dopo il passaggio di Padova alla dominante Venezia. Coltivò qualche interesse culturale, come mostra un codice con trattati di teoria musicale, trascritto a Padova nel 1437, che reca lo stemma Obizzi con le sue iniziali (Bologna, Museo internazionale e Biblioteca della musica, Mss., A.56). Rimasto vedovo forse nel 1448, si risposò con Verde Rangoni da Modena; fece testamento nel 1467 (Gonzati, 1853, p. 46) e morì prima del 1476. Da Negra ebbe parecchi figlie e figli (12 secondo una dichiarazione d’estimo), tra cui Roberto (chierico a Ferrara nel 1438), Tommaso, Ludovico, Girolamo, Daniele (morto nel 1504), che studiò diritto civile conseguendo la laurea a Padova nel 1467 (Acta graduum, nn. 678-9) e fu segretario e amministratore del duca Ercole d’Este, spesso ricordato nelle fonti come gentiluomo ferrarese e padovano a un tempo.
Con Padova gli Obizzi ebbero un primo contatto con la podesteria ricoperta da Guglielmo Malaspina degli Obizzi nel 1285, ma questa non fu affatto l’origine del legame con la città, come suggeriva una capziosa reinterpretazione posteriore che trovò espressione nel ciclo di affreschi di Giambattista Zelotti nel palazzo-castello del Catajo (1570-72) e nell’opera di Giuseppe Betussi (1573). Non trascurabili relazioni degli Obizzi con Padova si ebbero sotto la signoria di Francesco il vecchio da Carrara: Giovanni di Alamanno, dimorante a Padova e presente nel palazzo dei Carraresi negli anni 1371-75, ma già impegnato in precedenza, fu il comandante, nel 1378, delle milizie padovane nella fase iniziale della guerra dell’alleanza stretta attorno a re Luigi d’Ungheria e a Genova. Nel 1387 un Antonio, figlio di Tommaso Obizzi da Lucca, fu fatto prigioniero nella guerra tra i da Carrara e i Della Scala, per i quali militava. Dal secolo XVI molti membri della famiglia si distinsero non solo per il valore nelle armi, ma nel campo delle lettere, segnalandosi altresì per il loro mecenatismo e soprattutto per il collezionismo di arte e antichità. Figlio di Antonio e di Negra de’ Negri fu Girolamo che, nel febbraio 1506, donò alla basilica di S. Antonio 620 lire per abbellire, con marmi scolpiti, la facciata dell’arco innalzato fra il sacello della Madonna Mora e la contigua cappella che conserva le venerate spoglie del santo. Girolamo, che sposò Laura Martinengo Colleoni, era perfettamente integrato nel ceto nobiliare grazie ai legami con altre eminenti famiglie padovane, con le quali partecipò al moto antiveneziano del 1509, venendo momentaneamente confinato; la sua attività si divise tra l’amministrazione domestica, il seggio in consiglio e altri offici cittadini (quali l’Arca del Santo e il Monte di Pietà, nel 1499). Gli appartenne anche l’embrionale edificio detto il ‘Catajo’ sui colli Euganei.
Lungi dall’evocare suggestivi esotismi che richiamano alla memoria il lontano Catai visitato da Marco Polo nel suo avventuroso viaggio, e meno ancora la regione indiana di ariostesca memoria, teatro di cavalleresche tenzoni, l’origine del nome del castello deriva dalla località in cui sorge. Addossato al monte Ceva, esso si erge alla confluenza del canale della Battaglia e del rio Rialto, ‘tagliando’ gli antichi possedimenti di famiglia ai piedi degli Euganei (di qui l’espressione «Ca’ del Tajo», ovvero «casa del taglio»). Nei documenti si parla, già nel 1443, di «una casa de muro in monte del Cattaglio cum tesa, curtivo, bruolo, cum la columbara» (Brunelli-Callegari, 1931, p. 300).
La piccola casa, privato rifugio per gli ozi intellettuali, fu trasformata in una più confortevole villa con giardini pensili e ampie logge dal figlio di Girolamo, Gaspare, poeta e letterato, sodale e intimo di Pietro Bembo e Ludovico Ariosto. Sua moglie Beatrice Pia, secondogenita di Giovanni Ludovico Pio di Savoia signore di Carpi, fu donna colta e amante della poesia e delle arti in genere, cui Francesco Agostino Della Chiesa dedicò un sintetico profilo celebrativo nel suo Theatro delle donne Letterate (1620, pp. 92 s.), elogiandone al contempo specchiata moralità, poliedrica cultura e finezza letteraria. Alla morte del marito, nel 1541, Beatrice trasformò la propria abitazione padovana e soprattutto la villa sui colli, in un elitario rifugio di uomini di lettere dove si conversava amabilmente, si recitavano poesie e si ascoltava musica.
La gloria della famiglia doveva conoscere con Pio Enea I (1525-1589), figlio di Gaspare e Beatrice, uno dei suoi momenti più alti. Valoroso uomo d’armi, abilissimo nei tornei e nelle giostre, nel 1574 ricevette «una condotta di gente d’arme di cinquanta lancie dalla Repubblica Serenissima di Venetia» (Gualdo Priorato, 1659, pp.nn.) distinguendosi nell’incarico tanto da essere nominato, solo due anni dopo, generale collaterale di tutto il dominio Veneto, continuando a mantenere anche la condotta, privilegio assai raro.
Fu lui a conferire l’aspetto odierno al Catajo: a riprogettare l’edificio, dalla poderosa mole con torri di guardia e mura merlate che danno alla fabbrica l’impressione di un castello medievale, con valore di presidio militare, più che di una tradizionale villa veneta, venne forse chiamato l’architetto Andrea Da Valle, che lo completò entro il 1570. Da quella data iniziarono i lavori di abbellimento all’interno con la realizzazione di un vasto ciclo di affreschi eseguiti dal pittore veneziano Giambattista Zelotti che, fra il 1570 e il 1572 circa, decorò le sei grandi sale del piano nobile con 40 riquadri che riassumono le principali vicende storiche della saga famigliare dal presunto arrivo in Italia, intorno al 1007, al 1422, anno dell’insediamento degli Obizzi nel territorio padovano.
Pio Enea I sposò Anna da Passano, nobile genovese, e in seconde nozze (1563) la contessa Eleonora Martinengo: dai due matrimoni nacquero solo quattro femmine, e l’unico maschio, Roberto(1566-1647), era un figlio illegittimo avuto da certa «Ersilia Romana vedova», riconosciuto dal padre poco prima della morte, con breve di papa Sisto V, al fine di consentire la sopravvivenza del casato (Fughe e arrivi…, 2002, p. 272). Venne cresciuto dal padre fino al compimento del quindicesimo anno d’età, poi passò a Reggio presso il conte Fulvio Rangoni, governatore della città per conto dei duchi d’Este, nella cui casa fu educato alle lettere e all’arte militare, distinguendosi per la non comune abilità nel cavalcare e nel duello. Dopo la morte del padre, si trasferì a Bologna, legandosi in stretta amicizia con il conte Filippo Pepoli, il cui fratello, Guido, era cardinale tesoriere del pontefice, e rientrò successivamente a Venezia al servizio della Serenissima. L’11 febbraio 1601 ricevette dal granduca di Toscana Ferdinando I la patente di capitano delle lance del suo esercito, entrando così stabilmente al servizio dei Medici, i cui rapporti con gli Obizzi sono ampiamente documentati già dai tempi del padre. Roberto fu chiamato di nuovo a Firenze in occasione delle nozze di Cosimo II con l’arciduchessa Maria Maddalena d’Austria (1608) e pochi anni dopo lo stesso Cosimo lo nominò suo cavallerizzo maggiore, incarico particolarmente prestigioso oltre che ben remunerato; Roberto frequentò così in modo assiduo la corte entrando fra gli intimi del sovrano. La vera svolta alla sua carriera avvenne nel 1630: il 19 aprile di quell’anno il nuovo granduca Ferdinando II lo insignì del titolo di marchese, assegnandogli il feudo di Orciano (oggi Orciano Pisano). Con l’iscrizione degli Obizzi ai ranghi della nobiltà, l’ascesa sociale della famiglia poteva dirsi di fatto pienamente compiuta. Roberto morì a Padova all’età di 81 anni, carico di ricchezze, pubblici onori e successi militari: il 1° gennaio 1652 il titolo di marchese fu assegnato da Ferdinando II al suo primogenito, Pio Enea II (1592-1674; Archivo di Stato di Firenze, ms.320, Cariche d’Onore, A. Feudi…, c. 471).
Con lui la famiglia e soprattutto il Catajo vissero un ulteriore momento di splendore, dopo la parentesi di Roberto che aveva trascurato in parte il castello preferendo soggiornare a Ferrara, dove aveva sposato Ippolita di Bonifacio Torelli, circondato dalla sua ricca collezione di pitture.
Pio Enea II arricchì il Catajo di magnifiche fontane e numerosi arredi, ingrandì il giardino ricco di piante rare giunte anche dalle Americhe, facendo decorare con pitture (opera dei bolognesi Ippolito Ghirlanda e Antonio Cerva) le pareti del vasto cortile interno che, dalle scene affrescate e oggi perdute, prese il nome di Cortile dei Giganti, spesso usato per principesche feste, giostre, tornei e spettacolari naumachie. A lui spetta il merito della costruzione, fra il 1651 e il 1661, del piccolo ma funzionale teatro al Catajo, dotato di 16 palchetti disposti su due ordini sovrapposti e capace di contenere un centinaio di spettatori: nel 1739, in occasione del suo viaggio in Italia, il presidente del parlamento di Borgogna, Charles de Brosses, lo definì «un teatrino tascabile assai ben ideato, per recitare commedie tra gente di qualità» (de Brosses, 1992, p. 170). A Pio Enea II si deve probabilmente la fondazione della grande armeria di famiglia, arricchita nei secoli dai discendenti e oggi conservata per lo più nel castello boemo di Konopiště.
Pio Enea II sposò Lucrezia Dondi dall’Orologio, da cui ebbe quattro figli: Roberto, Ferdinando, Ippolita e Matilde. Alla sua morte il titolo marchionale passò, il 25 giugno 1676, al primogenito Roberto, figura di non particolare rilievo nella storia della famiglia, il quale visse di preferenza a Ferrara, dove sposò la nobildonna Isabella Allegri, e morì nel 1682. Ferdinando, coinvolto direttamente con il padre nell’agguato che portò, nel 1662, alla morte di Attilio Pavanello, presunto assassino di sua madre, fu costretto a fuggire trovando ricovero a Vienna. Lì si arruolò nelle milizie dell’imperatore Leopoldo I e, nel volgere di pochi anni, compì una straordinaria scalata nell’esercito asburgico, raggiungendone presto i vertici. Nel 1683, a fianco del principe Eugenio di Savoia, tenne testa all’esercito turco che minacciava l’invasione di Vienna, difendendola valorosamente. Venne allora insignito da Leopoldo I di uno dei più alti e ragguardevoli onori della corte asburgica, quello di cameriere della Chiave d’oro; l’imperatore lo nominò altresì «Maresciallo di Campo… Consigliere Segreto, e di Stato, e di Guerra, Comandante alle linee, Governatore dell’Armi in Vienna, Generale dell’Artiglieria, e di Casa, e del Paese» (Orazione per le solenni esequie, 1712, p. 42). Nel 1690 fu creato marchese del Sacro Romano Impero e l’imperatore Giuseppe I gli conferì, alla fine della sua carriera, l’ambita onorificenza del Toson d’oro. Morì a Vienna il 2 dicembre 1710, senza figli, nonostante i suoi quattro matrimoni. Per sua espressa volontà il corpo fu traslato a Padova e tumulato al Santo nella cappella dove riposavano alcuni suoi avi.
Il 31 luglio 1702 il titolo di marchese di Orciano passò al nipote Tommaso, altra figura ai margini delle vicende degli Obizzi, il quale sposò nel 1694 la contessa fiorentina Alessandra Pecori. Il 29 luglio 1759 ricevette l’investitura nobiliare il figlio Ferdinando, che tornò stabilmente a risiedere al Catajo con la moglie, la contessa veneziana Angela Sala, sposata nel 1739. Uomo colto, letterato e accademico dei Ricovrati (di cui fu principe negli anni 1741-43), fu autore di una serie di commedie, in linea con la riforma goldoniana dell’epoca, fatte rappresentare di preferenza nel teatro del Catajo per un selezionato pubblico. Morì il 25 ottobre 1768, lasciando erede universale l’unico figlio, Tommaso (1750-1803), che ricevette il titolo marchionale il 29 maggio 1771. Tuttavia nel 1783, a seguito dell’introduzione delle nuove leggi che abolivano i privilegi feudali, attuate dagli Asburgo-Lorena, gli fu tolto il dominio sul feudo di Orciano, tornato così alla corona dei granduchi di Toscana, pur rimanendogli il titolo, trasmissibile agli eredi. Nonostante il matrimonio con la veneziana Barbara Querini (dei Querini alla Carità), il tanto atteso erede non giunse, per la morte precoce della donna a due anni dalle nozze. Tommaso non si risposò più e con lui si estinse il casato.
Tommaso dedicò pressoché tutte le sue energie e sostanze all’incremento delle ricche collezioni d’arte di famiglia: creò la grande galleria delle antichità, il gabinetto numismatico, incrementò la biblioteca già ricca di manoscritti rari e di incunaboli, raccolse una significativa collezione di opere dei cosiddetti ‘primitivi’; collezionò stampe, disegni, oggetti naturali, armi e strumenti musicali. In punto di morte testò in favore del duca di Modena Ercole III d’Este, così nel corso del XIX secolo il Catajo e le sue straordinarie raccolte passarono al ramo Estense degli Asburgo: le collezioni oggi sono distribuite fra la Galleria Estense di Modena, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, la Galleria nazionale di Praga e il vicino castello di Konopiště.
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