Obesità
Allarme 'globesità'
Un problema
di dimensioni
crescenti
di Michele Carruba, Enzo Nisoli
22 gennaio
Il Consiglio esecutivo dell'Organizzazione mondiale della Sanità, riunito a Ginevra, sulla base degli studi che individuano nell'obesità uno dei problemi di salute più gravi a livello mondiale, approva un piano strategico globale in materia di dieta e attività fisica, che vengono indicate come due elementi chiave per prevenire gli sviluppi patologici dell'aumento di peso e per combattere la crescente diffusione delle malattie cardiovascolari, del diabete di tipo 2 e di alcune forme tumorali.
Le dimensioni del fenomeno
L'obesità, ormai diventata un'epidemia globale ('globesità'), è una malattia multifattoriale e cronica, che si può definire come un aumento dell'accumulo di grasso in vari distretti dell'organismo.
Il modo più conveniente per diagnosticarla è rappresentato dall'indice di massa corporea (BMI, Body mass index) che si calcola dividendo il peso del soggetto (in chilogrammi) per il quadrato dell'altezza (in metri). I valori che si ottengono definiscono varie condizioni: valore normale, compreso tra 18,5 e 24,9; sovrappeso, tra 25,0 e 29,9; obesità di grado I (moderata) tra 30,0 e 34,9; obesità di grado II (severa) tra 35,0 e 39,9; obesità di grado III (molto severa o grande obesità) sopra 40. Pur presentando alcuni limiti di tipo valutativo, questo sistema convenzionale di calcolo e di descrizione del BMI si è dimostrato in generale uno strumento attendibile per la definizione della percentuale di grasso in molte popolazioni.
I limiti si riferiscono al fatto che non vengono presi in considerazione fattori come la corporatura,
il genere (appartenenza a un sesso o all'altro), l'età e la percentuale di massa magra, ovvero di massa muscolare.
Oltre all'eccesso di grasso corporeo, va considerato un altro importante indicatore di rischio per la salute del soggetto obeso, rappresentato dalla localizzazione della massa adiposa. I due tipi più caratteristici dell'obesità sono quello a conformazione ginoide, più frequente nella donna, che presenta una prevalenza della massa adiposa nel compartimento sottocutaneo della metà inferiore del corpo (fianchi e zona gluteofemorale) e quello a conformazione androide, più frequente negli uomini, che presenta un accumulo della massa adiposa nella metà superiore del corpo e, in particolare, nella cavità addominale, tra i visceri (obesità viscerale). L'obesità viscerale si associa a maggiore incidenza di patologie che aumentano il rischio di mortalità.
In Europa, in media, il 15% degli adulti è obeso, con punte del 40-50% in alcuni paesi dell'Est. Stando ai dati forniti dall'ISTAT (Istituto nazionale di statistica), più del 45% degli italiani adulti e circa il 36% dei bambini sono in sovrappeso od obesi. Negli Stati Uniti si stima che più di due terzi della popolazione sia in sovrappeso od obesa. Ma questo problema di salute pubblica è esplosivo anche in paesi in via di sviluppo: i maya in Guatemala, i sudafricani, gli aborigeni australiani e gli abitanti delle isole del Pacifico mostrano evidenti segni di obesità emergente. Inoltre, come già accennato, l'obesità non rappresenta un problema solo per gli adulti, dal momento che il numero di bambini e adolescenti in sovrappeso od obesi è raddoppiato negli ultimi 2-3 decenni negli Stati Uniti. I bambini e gli adolescenti obesi saranno probabilmente degli adulti obesi. L'Organizzazione mondiale della sanità è profondamente preoccupata del problema, riconoscendo che nel mondo circa un miliardo di adulti sono in sovrappeso e almeno 300 milioni sono obesi.
I rischi per la salute
I pazienti obesi hanno un rischio maggiore di sviluppare coronaropatie, ipertensione, iperlipidemia, diabete mellito, neoplasie, malattie cerebrovascolari, osteoartrite, pneumopatia ostruttiva e apnee ostruttive notturne. Il rischio di morbilità e di mortalità aumenta con il peso corporeo oltre un BMI di 25 e con un aumento della circonferenza della vita (indice di localizzazione viscerale del grasso). L'obesità riduce l'aspettativa di vita. Il Nurses' health study, nel quale sono stati pubblicati i risultati relativi a più di 115.000 donne di età compresa tra i 30 e i 55 anni senza cardiopatie che sono state seguite per 16 anni, indicava che il rischio di morte era più alto del 60-70% tra i soggetti con BMI tra 29 e 32 kg/m2 rispetto ai soggetti con BMI di 25-27 kg/m2. Questo si concretizzava in 1260 decessi in più per milione di donne all'anno, come conseguenza di una differenza media nel peso di soli 13 kg. Negli Stati Uniti si stima che circa 400.000 morti all'anno siano associate al sovrappeso e all'obesità.
Come stabilito dall'ATP III (Adult treatment panel) degli statunitensi National institutes of health, soggetti rispondenti a tre o più dei seguenti criteri vengono definiti come pazienti affetti da sindrome metabolica: obesità viscerale (circonferenza della vita superiore a 88 cm per le donne e a 102 cm per gli uomini); ipertrigliceridemia (valori superiori a 150 mg/dl o 1,69 mmol/l); valori di colesterolo HDL inferiori a 40 mg/dl (1,04 mmol/l) negli uomini e a 50 mg/dl (1,29 mmol/l) nelle donne; pressione arteriosa sopra la norma (130/85 mmHg); elevati livelli glicemici a digiuno (superiori a 110 mg/dl o 6,1 mmol/l).
Tale sindrome, largamente non diagnosticata e che interesserebbe fino al 46% della popolazione americana, rappresenta la principale causa di mortalità nel mondo occidentale per l'aumentato rischio cardiovascolare a cui si associa.
Le implicazioni per la salute dell'attuale epidemia di obesità hanno pesanti ripercussioni socioeconomiche. Secondo una ricerca condotta dall'Università degli studi di Milano, i costi diretti delle patologie conseguenti all'obesità ammontano a 22 miliardi di euro all'anno; il 64% di tale spesa è relativo a ospedalizzazioni e ciò sta a indicare come il sovrappeso e l'obesità non vadano considerati come un problema estetico, ma come una patologia grave inquadrabile come la più importante, insieme al fumo, causa di morte prevenibile. L'Organizzazione mondiale della sanità indica l'obesità come il più rilevante problema di salute pubblica che necessita di interventi seri e urgenti da parte delle autorità sanitarie nazionali e sovranazionali. Molti esperti, soprattutto negli Stati Uniti, hanno levato voci critiche contro la cosiddetta 'industria del cibo' (food industry) per la sua influenza politica e per la sua aggressiva promozione di cibi ad alto tenore energetico ma basso valore nutrizionale.
Approcci terapeutici
Il Ministero della Salute italiano ha già attivato una serie di provvedimenti per contenere questa epidemia, tra cui una campagna istituzionale di informazione sulla corretta alimentazione e sui corretti stili di vita. Secondo dati forniti dal CENSIS (Centro studi investimenti sociali), il 60% dei cittadini italiani ha notato e apprezzato tale campagna e il 36,8% degli italiani ha modificato di conseguenza alcune abitudini scorrette. Assodato che la popolazione italiana ha aumentato l'attenzione e la sensibilità al problema della corretta alimentazione e in genere a un migliore stile di vita, anche il mondo medico e assistenziale a questo punto deve adeguarsi e organizzarsi per far fronte a una maggiore richiesta di interventi. Esiste infatti una serie di fattori che impediscono un'appropriata gestione di questa patologia, da parte sia dei medici sia dei pazienti. Tra questi vale la pena ricordare le limitazioni dei tempi per le visite mediche, la scarsità dei centri e del personale medico specializzati, la limitazione dei supporti farmacologici a carico del Sistema sanitario nazionale, la mancanza di un'educazione alimentare a livello scolastico.
Di grande rilievo sono i problemi culturali legati a un'informazione scorretta, tendente a far passare come miracolosi approcci dietetici spesso sconsiderati; molto pericolosa può essere anche la pubblicità di alimenti, soprattutto se indirizzata al mondo dei giovani che, molto spesso, sono sprovvisti della necessaria capacità critica nei confronti della pubblicità stessa.
In un recente documento di consensus in materia di inquadramento diagnostico e terapeutico del sovrappeso, dell'obesità e della sindrome metabolica, preparato dal Centro di studio e ricerca sull'obesità dell'Università di Milano, a cui hanno partecipato ben 13 società scientifiche, sono state raccolte le raccomandazioni per la prevenzione, la diagnosi e la terapia dell'eccesso di peso. La prima di queste raccomandazioni prevede che qualsiasi medico, specialista o generalista, nel visitare un paziente per qualsiasi motivo di salute, valuti peso, altezza, circonferenza della vita e rischio cardiovascolare globale. Sulla base di tali parametri, quindi in funzione del rischio, dovrebbe essere impostata un'attività di prevenzione basata sull'educazione a corretti stili di vita.
Prevenzione, dunque, cioè prendere in considerazione il problema prima che diventi incurabile. Dall'obesità, infatti, non si guarisce; essa si può solo gestire da un punto di vista clinico. Non esistono né diete né pillole magiche; bisogna invece mettere in atto un approccio interdisciplinare integrato, volto a modificare nel lungo periodo lo stile di vita. Il metodo si basa su un'educazione alimentare che renda il paziente conscio e in grado di autogestire la propria alimentazione e su un supporto psicologico mirato a modificare stabilmente i propri comportamenti. I farmaci di cui disponiamo oggi non sono curativi ma sintomatici: cioè non eliminano le disfunzioni che portano all'obesità ma, se utilizzati nell'ambito di una strategia terapeutica di tipo cognitivo-comportamentale, possono contribuire a un più rapido raggiungimento degli obiettivi (calo ponderale del 10% del peso iniziale) e, soprattutto, a mantenere nel tempo i risultati ottenuti.
L'opinione comunemente accettata che i soggetti obesi potrebbero migliorare la propria condizione semplicemente decidendo di mangiare meno e di muoversi di più è in contrasto con l'evidenza scientifica che indica come la propensione allo sviluppo di obesità sia, per una elevata percentuale dei casi, determinata geneticamente. L'ereditarietà dell'obesità è equivalente a quella dell'altezza ed è maggiore rispetto a quella di quasi tutte le altre condizioni che sono state studiate (maggiore dell'ereditarietà della schizofrenia, del tumore alla mammella, delle cardiopatie ecc.). Sebbene fattori alimentari contribuiscano alla diversa incidenza della patologia, le differenze individuali nel peso sono largamente attribuibili a fattori genetici. Alcuni dei geni che regolano il peso corporeo sono stati identificati, dimostrando un sistema di controllo fisiologico dell'equilibrio energetico che mantiene il peso stesso entro variazioni estremamente limitate (variazioni di pochi chilogrammi in decenni). Questi geni, dunque, bilanciano l'assunzione calorica con la spesa energetica con considerevole precisione. La perdita di peso da parte del soggetto obeso si accompagna a risposte compensatorie di questi geni, che agiscono per resistere alle variazioni di peso attraverso una diminuzione del metabolismo e un aumento della sensazione di fame. Per tale ragione, la maggior parte degli obesi che perdono peso con la restrizione calorica (dieta) alla fine lo riacquistano. In un crescente sottogruppo di pazienti, la patologia molecolare dell'obesità è completamente conosciuta e per alcuni di essi sono già disponibili terapie altamente efficaci.
In base a quanto fin qui esaminato, l'obesità non dipende da una scelta personale sbagliata ma è una patologia vera e propria. Perchè, dunque, le ricerche degli scienziati che se ne occupano non hanno ancora trovato adeguato riscontro nella mente del pubblico o, persino, di una significativa porzione dei medici stessi? I motivi possono essere molti e diversi, ma forse si continua a credere che il desiderio cosciente di essere in buone condizioni fisiche sia un elemento del nostro 'libero arbitrio' e che, dunque, questo dovrebbe essere in grado di dominare i meccanismi nervosi che inducono a mangiare in misura eccessiva. Ciò che negli ultimi anni la ricerca di base ha dimostrato dovrebbe, però, porre termine a queste opinioni falsate.
L'obesità è una patologia particolarmente difficile da trattare, a causa delle sue basi fisiopatologiche estremamente complesse. Infatti, il peso corporeo rappresenta l'integrazione di molte componenti biologiche e ambientali. Più che focalizzarsi primariamente sul peso corporeo, molti esperti preferiscono occuparsi della cosiddetta fitness metabolica, che definisce la salute metabolica degli individui obesi rappresentando l'assenza di fattori di rischio biochimici associati all'obesità (elevate concentrazioni a digiuno del colesterolo, dei trigliceridi, del glucosio o dell'insulina; alterata tolleranza al glucosio; ipertensione arteriosa). Quindi, la perdita di peso dovrebbe essere vista come una modalità per migliorare la salute.
Già una modesta riduzione del peso, in un intervallo del 5-10% del peso corporeo iniziale, è in grado di migliorare la morbilità e la mortalità legate all'obesità. Per esempio, si è dimostrato che in donne di età compresa tra i 40 e i 60 anni che non hanno mai fumato, una moderata ma intenzionale perdita di peso riduce del 20% la mortalità da tutte le cause e del 30-40% la mortalità legata al diabete. Una modesta riduzione di peso è stata associata anche a un significativo miglioramento nell'ipertensione arteriosa, nell'ipertrigliceridemia e nel controllo della glicemia.
La restrizione calorica, l'esercizio fisico e le modificazioni comportamentali costituiscono ancora il modello standard per il trattamento dell'obesità, anche se nuove riflessioni vanno facendosi strada, considerando che esistono forme di obesità in cui la carenza energetica su base infiammatoria del tessuto adiposo sconsiglia sia la riduzione dell'introito calorico sia l'aumento della spesa energetica.
Una terapia efficace dell'obesità implica non solo una perdita iniziale del peso ma anche il mantenimento del peso perduto nel lungo periodo. Nella maggior parte dei casi si è riscontrato che le restrizioni dietetiche, l'esercizio fisico e le modificazioni comportamentali, singolarmente o in combinazione, non ottengono risultati positivi a lungo termine.
Se l'intervento fisiologico non sortisce effetto dopo sei mesi, nei soggetti a elevato rischio si può prendere in considerazione l'uso dei farmaci per il controllo del peso. I farmaci antiobesità possono quindi avere un ruolo nella riduzione del peso in pazienti la cui condizione è refrattaria alle misure non farmacologiche, oltre che per il mantenimento a lungo termine del peso perduto. Finora però questi farmaci si sono dimostrati limitati nell'efficacia e non soddisfacenti per gli effetti collaterali.
Per esempio, l'anfetamina possiede significative proprietà euforizzanti ed è gravata da sviluppo di abuso. La fentermina ha effetti stimolanti e simpaticomimetici. Gli anoressizzanti che contengono fenilpropanolamina sono stati associati ad aumentato rischio di emorragia cerebrale nelle donne e questo ne ha determinato la sospensione. L'utilizzo di fenfluramina e dexfenfluramina è stato bloccato e i farmaci che le contenevano sono stati ritirati dal commercio per un'associazione allo sviluppo di ipertensione polmonare e danno alle valvole cardiache. Sibutramina e orlistat, i due farmaci più recenti e validi per il loro profilo di efficacia e di sicurezza, sono stati approvati per la terapia a lungo termine in associazione a modificazioni dello stile di vita. La sibutramina, che agisce a livello del sistema nervoso centrale, favorendo l'insorgere dei segnali di sazietà e attivando il dispendio energetico attraverso una maggiore produzione di calore (termogenesi), è controindicata nei pazienti affetti da gravi patologie cardiovascolari. L'orlistat, che agisce invece a livello del tubo digerente, dove inibisce un enzima (la lipasi pancreatica) la cui attività è indispensabile all'assorbimento dei lipidi che vengono assunti con l'alimentazione, deve essere somministrato nell'ambito di una dieta ipolipidica: ogni trasgressione di tale dieta, infatti, può comportare effetti collaterali. Questi farmaci, comunque, restano sintomatici e non curativi. Per questo la ricerca di base si indirizza a individuare nuovi bersagli farmacologici. Nuovi farmaci molto promettenti sono allo studio (topiramato, rimonabant e altri), ma saranno disponibili solo fra qualche anno.
Meccanismi centrali dell'equilibrio energetico
Nel bilancio energetico sono coinvolti meccanismi sia centrali sia perferici. Per quanto riguarda i primi, si è a conoscenza che i depositi di grasso possono immagazzinare energia sotto forma di acidi grassi in risposta alla disponibilità di substrati e che questa informazione viene trasferita ai centri cerebrali tramite diverse molecole. In particolare, la leptina, un ormone mediatore dei processi che regolano l'equilibrio energetico, viene prodotta dagli adipociti (le cellule del tessuto adiposo) in risposta alle esigenze del bilancio energetico. Quando i depositi di energia (quindi il grasso) sono pieni, la produzione dell'ormone è alta; al contrario, la sua produzione è bassa quando i depositi energetici sono svuotati come, per esempio, in caso di digiuno protratto. I livelli circolanti di leptina, dunque, riflettono le riserve energetiche dell'organismo: la riduzione di tali livelli con il digiuno aumenta l'appetito e diminuisce la spesa energetica; al contrario quando le riserve energetiche sono adeguate, gli alti livelli dell'ormone diminuiscono l'appetito e aumentano la spesa energetica.
Esistono diverse isoforme del recettore della leptina: quella più espressa e funzionalmente rilevante nelle aree cerebrali è l'isoforma lunga, o isoforma b (LRb). I topi che presentano un'obesità genetica db/db hanno una mutazione nel gene che codifica il recettore b della leptina, al contrario dei topi geneticamente obesi ob/ob, in cui l'obesità è determinata dalla mancanza del gene della leptina o dalla presenza di un gene che codifica una forma non funzionante della proteina. Le funzioni delle isoforme corte del recettore della leptina non sono ancora del tutto chiare, anche se sono stati proposti ruoli nel trasporto della leptina stessa attraverso la barriera ematoencefalica.
Il recettore LRb è maggiormente espresso nei neuroni dei nuclei cerebrali dell'ipotalamo basomediale, tra cui il nucleo arcuato (ARC) e i nuclei dorsomediale (DMH) e ventromediale (VMH). L'ablazione, chimica o fisica, di questi nuclei determina aumento dell'assunzione di cibo e anomalie neuroendocrine simili a quelle che si riscontrano nei topi db/db e ob/ob. Questo indica che tali nuclei ipotalamici, che costituiscono il cosiddetto centro della sazietà, sono siti cruciali dell'azione della leptina.
Tra i nuclei ipotalamici, quello in cui più elevata è l'espressione del recettore LRb è l'ARC, dove si trovano almeno due popolazioni distinte di neuroni. Una popolazione sintetizza due potenti neuropeptidi oressizzanti (che stimolano cioè l'assunzione di cibo): il neuropeptide Y (NPY) e il peptide correlato alla proteina agouti (AgRP). L'altra popolazione sintetizza la proopiomelanocortina (POMC), che viene processata ad αMSH (ormone stimolante i melanociti), un potente ormone anoressizzante. La stimolazione del recettore LRb innesca la sintesi di POMC e attiva i neuroni LRb/POMC. La proteina AgRP inibisce il segnale dell'αMSH, e l'NPY, oltre a essere un ormone oressizzante, sopprime anche gli assi ormonali che regolano la crescita e la riproduzione. La leptina inibisce i neuroni NPY/AgRP e l'espressione di questi neuropeptidi. Quindi, il recettore LRb stimola la produzione di neuropeptidi anoressizzanti e inibisce i livelli dei peptidi oressizzanti. Al contrario, una diminizione o un deficit di attività leptinergica (per esempio durante il digiuno o nei topi ob/ob e db/db) stimolano l'appetito, sopprimendo la sintesi di neuropeptidi anoressizzanti (per esempio, POMC) e aumentando l'espressione di peptidi oressizzanti (per esempio, NPY e AgRP).
Mutazioni nel gene della leptina causano appetito insaziabile, obesità severa e numerose anomalie cliniche, quadro che viene completamente risolto con la somministrazione della leptina stessa. La perdita di peso determina una riduzione dei livelli circolanti di leptina nei pazienti obesi. A ciò consegue uno stato di bilancio energetico positivo, con aumento marcato della fame e diminuzione del metabolismo basale, meccanismi messi in atto per riportare il peso ai livelli di base. Anche nei soggetti anoressici o in quelli affetti da lipodistrofia, in cui vi è una marcata riduzione dei depositi adiposi dell'organismo e, di conseguenza, un calo patologico del peso, i livelli plasmatici della leptina sono estremamente bassi.
Questi studi dimostrano che la leptina possiede potenti effetti biologici nell'uomo e suggeriscono la possibilità che individui obesi con bassi livelli circolanti dell'ormone potrebbero perdere peso dopo somministrazione della leptina. Il trattamento degli obesi con leptina tuttavia ha effetti variabili: in generale, tale terapia non ha dimostrato marcata efficacia sulla fame e sul peso, in quanto la maggior parte degli obesi sembra sviluppare una forma di resistenza alla leptina stessa. Un obiettivo chiave, dunque, nella comprensione dei meccanismi fisiopatologici dell'obesità sarà quello di chiarire come si sviluppa lo stato di leptino-resistenza: una delle limitazioni a questo obiettivo è senz'altro il fatto che, eccetto alcuni effetti sul muscolo e altri tessuti periferici, il bersaglio d'azione della leptina è principalmente centrale, a livello cioè di alcune aree del cervello, e quindi non semplice da studiare. Una maggiore comprensione della resistenza alla leptina richiederà l'identificazione di tutti i siti d'azione dell'ormone come prerequisito alla comprensione delle risposte cellulari che sono ridotte in caso di leptino-resistenza. Questo potrebbe fornire possibilità di migliorare direttamente tale resistenza o di attivare le vie di trasmissione del segnale della leptina a valle del recettore (JAK-Stat, oltre a Stat3, SHP2, PI3K e fosfodiesterasi 3B). Vie di segnale diverse sono probabilmente attivate in diversi tipi neuronali. Recenti ricerche dimostrano che i geni codificanti PTP1b, SOCS-3 e altri contribuiscono alla resistenza nel sistema nervoso centrale e indicano che l'inibizione di queste molecole potrebbe indurre un aumento dell'azione della leptina e una riduzione del peso corporeo.
La sensibilità alla leptina può essere modulata anche da fattori ambientali. Per esempio, una dieta altamente gradevole al palato, con elevato tenore di grassi, porta all'obesità in alcuni ceppi di topi geneticamente suscettibili, ma non in altri ceppi. Un possibile meccanismo che spieghi gli effetti della dieta sulla sensibilità alla leptina è suggerito dagli studi su animali transgenici che sovraesprimono la leptina stessa. Mantenuti a una dieta standard, questi animali sono estremamente magri; ma quando vengono sottoposti a una dieta altamente ricca di grassi, essi non rispondono più alla leptina e diventano obesi. Questo potrebbe indicare che l'aumento dei lipidi assunti sia in grado di alterare i segnali cellulari nell'ipotalamo. Un'altra possibilità è che il valore edonistico della dieta porti a leptino-resistenza, forse attraverso la modulazione delle vie di reward (o di ricompensa), che interagiscono con quelle che rispondono alla leptina. In effetti, l'assunzione di cibo è un comportamento legato ai meccanismi di reward e i potenti effetti che la leptina induce sulle vie di ricompensa confermano l'esistenza di una relazione tra questa molecola e gli stimoli edonistici. L'assunzione di cibo possiede un'importante componente motivazionale: stimoli visivi, gustativi e olfattivi, aspetti emozionali e input cognitivi superiori vengono integrati nella decisione di assumere cibo. Sebbene il nucleo accumbens svolga un ruolo di primo piano nel controllare i comportamenti di rinforzo, non si conosce ancora del tutto il sistema neuronale che regola questo aspetto per il comportamento alimentare.
Un ulteriore risvolto della resistenza alla leptina è relativo ai meccanismi di trasporto della stessa a livello della barriera ematoencefalica. Tali meccanismi sono ancora sconosciuti, ma potrebbero essere coinvolti nella sensibilità all'ormone. Infine, al momento non è ancora noto se la forma attiva della leptina sia quella libera o quella legata ad altre proteine regolatorie o di trasporto.
Meccanismi periferici di controllo della spesa energetica
La discussione sulle cause dell'obesità generalmente si focalizza sull'importanza, nell'equazione del bilancio energetico, dell'assunzione di cibo. Ciononostante, diverse evidenze sperimentali indicano come la spesa energetica sia strettamente regolata e come alterazioni inconsce della spesa energetica esercitino una potente, e forse dominante, influenza sulla regolazione del peso corporeo. Nell'uomo la spesa energetica è altamente variabile e studi prospettici suggeriscono che individui con una spesa bassa sviluppano più frequentemente obesità rispetto a individui con una spesa più alta.
Un ruolo cruciale è quello esercitato dalla termogenesi attivata non da esercizio fisico volontario, definita anche NEAT (Nonexercise activity thermogenesis), la quale descrive un soggetto con 'irrequietezza', che presenta un elevato grado di contrazione muscolare nell'espletamento delle azioni quotidiane, come il camminare o il semplice mantenere la postura. Si è potuto dimostrare come l'iperalimentazione induca guadagno di peso nei soggetti in cui la NEAT è più bassa rispetto ai soggetti in cui tale quota di spesa energetica è maggiore. Questa differenza risiederebbe in una diversa predisposizione genetica, forse a carico della funzionalità del sistema nervoso simpatico che regola il metabolismo di base.
La spesa energetica si riferisce al numero di calorie totali spese nelle 24 ore, che dipende dal metabolismo di base, dall'attività fisica e dall'effetto termico dei cibi. A differenza dell'attività muscolare connessa alla NEAT, l'esercizio fisico volontario rappresenta solo una piccola frazione della spesa energetica quotidiana. Dunque, l'esercizio fisico in quanto tale non mostra elevata efficacia nella terapia dell'obesità, anche perché l'aumentata spesa energetica che si accompagna con l'esercizio è generalmente compensata da un aumentato consumo di cibo.
La spesa energetica diminuisce significativamente in seguito a perdita di peso. Questo fatto, insieme con l'aumentata sensazione di fame, contribuisce senza dubbio all'alto tasso di ricadute che si verificano dopo interventi di restrizione dietetica. Un esempio estremo si può inferire dall'analisi degli esiti dopo interventi di chirurgia bariatrica, procedure che alterano la normale anatomia gastrointestinale per ridurre l'assunzione calorica. Sebbene i pazienti perdano una significativa quantità di peso, quasi tutti rimangono clinicamente obesi dopo l'intervento. Questa osservazione è consistente con gli studi condotti sugli animali di laboratorio, che mostrano che quelli geneticamente obesi diventano tali anche quando il loro consumo di cibo viene ridotto, pari a quello normalmente consumato dagli animali normopeso. Qualche caratteristica metabolica differenzia, dunque, gli individui obesi dai normopeso, indipendentemente dal consumo di cibo.
Tutto questo fa ritenere che la stimolazione farmacologica della spesa energetica potrebbe costituire una valida alternativa per la riduzione del peso. Gli antichi dati ottenuti con il dinitrofenolo, un disaccopiante della respirazione mitocondriale che induce perdita di peso nell'uomo, ne costituiscono una riprova. La sostanza, in grado di aumentare la spesa energetica, non venne più utilizzata per la sua marcata tossicità nell'uomo. In questa stessa direzione andava anche l'uso degli ormoni tiroidei, anch'essi però gravati da forte tossicità cardiaca.
Recenti studi hanno identificato altri geni, la cui mutazione aumenta la spesa energetica e ostacola lo sviluppo di obesità malgrado l'aumentato consumo di cibo. Tre di questi geni codificano enzimi implicati nella biosintesi degli acidi grassi acetil-CoA-decarbossilasi-2 (AAC-2), diacil-glicerolo-acetiltransferasi (DGAT) e steroil-CoA-desaturasi-1 (SCD-1). La leptina inibisce l'espressione di SCD-1; quindi l'attività dell'ormone sull'equilibrio energetico sarebbe proprio dovuta alla sua modulazione di questo enzima. Tali risultati suggeriscono che l'inibizione della biosintesi degli acidi grassi o del loro immagazzinamento porta a un secondario aumento della loro ossidazione e a una riduzione del peso.
Altre molecole che attivano la spesa energetica sono il coattivatore del PPARγ, noto con il nome di PGC-1, che è in grado di attivare la mitocondriogenesi e i programmi cellulari che promuovono la spesa energetica cellulare; il recettore nucleare PPARδ, che regola l'espressione di geni coinvolti nella termogenesi; il recettore β3-adrenergico, la cui stimolazione aumenta la spesa di energia e porta un marcato dimagrimento in numerosi modelli di obesità negli animali.
Conclusioni
Le analisi genetiche familiari e quelle condotte sui gemelli monozigoti hanno dimostrato che i geni contribuiscono allo sviluppo di obesità con gradi di ereditabilità stimati intorno a 0,7-0,8. Questo significa che la maggior parte delle variazioni nell'incidenza di obesità è attribuibile ai fattori genetici. Oltre ai deficit congeniti di leptina, sono state identificate mutazioni nei geni che codificano componenti dei circuiti neuronali implicati nella regolazione del bilancio energetico, come il recettore della leptina, il POMC (e l'αMSH) e il recettore MC-4 (il recettore dell'αMSH); tali mutazioni portano a forme di obesità ereditate come carattere mendeliano. Inoltre, è stato recentemente descritto un gruppo di bambini con alto grado di consanguineità gravemente obesi, nei quali non sono state trovate mutazioni genetiche conosciute; questo fa supporre che esistano forme mendeliane di obesità ancora ignote.
Tali risultati dimostrano in maniera definitiva che l'obesità non deriva dalla mancanza di volontà, ma da una predisposizione genetica su cui l'ambiente incide in maniera significativa. Non valgono più dunque le raccomandazioni di Ippocrate di "mangiare di meno e una sola volta al giorno e di camminare il più a lungo possibile". Il progresso in quest'area richiede che si vada ben oltre queste prescrizioni terapeutiche di 2500 anni fa e, al contrario, si sviluppino strategie basate sulla scienza del 21° secolo. Questo renderà più facile valutare l'obesità come una vera e propria patologia e identificare terapie più efficaci di quelle attuali.
Per prevenire l'insorgenza di tale malattia estremamente difficile da curare sono necessari: interventi educativi (educazione alimentare ed esercizio fisico, integrati in una strategia cognitivo-comportamentale in grado di modificare stabilmente abitudini comportamentali sbagliate), e ricerca scientifica di base per capire sempre meglio i meccanismi che regolano il bilancio energetico. Questi gli sforzi di politica sanitaria e di ricerca auspicabili nel più breve tempo possibile.
repertorio
Definizioni e sistemi di valutazione
Per obesità si intende una massa corporea eccessiva rispetto alla statura o, più specificamente, un eccessivo contenuto di grasso nel corpo. La massa corporea può essere schematizzata in vario modo. Secondo un modello molto semplice, essa può essere suddivisa in due compartimenti: la massa magra e la massa adiposa. Un soggetto adulto di età prossima ai 30 anni con un peso di circa 72 kg è costituito da una massa adiposa di circa 9 kg, equivalente più o meno al 12% del peso corporeo. Nel soggetto obeso, l'aumento del peso corporeo è dovuto in massima parte a un incremento della massa adiposa ma, in piccola parte, anche a un aumento della massa magra che accompagna sempre l'incremento del tessuto adiposo.
Teoricamente, l'aumento della massa adiposa si può realizzare attraverso due meccanismi diversi: l'incremento del contenuto dei trigliceridi presenti in ogni singolo adipocita e l'aumento del numero globale di adipociti che, presi singolarmente, contengono una normale quantità di lipidi. Queste due possibilità si realizzano dando luogo rispettivamente all'obesità ipertrofica e all'obesità iperplastica.
Le obesità di grado moderato che insorgono durante l'infanzia sono definite iperplastiche perché in alcuni periodi dell'età infantile gli adipociti possono moltiplicarsi molto attivamente e aumentare quindi notevolmente di numero. Lo stimolo per la moltiplicazione delle cellule adipose sarebbe dato dall'ingestione di cibo, cosicché un elevato aumento degli alimenti introdotti determinerebbe, appunto, un cospicuo aumento delle cellule del tessuto adiposo. Quando l'obesità ipertrofica si aggrava e supera di oltre il 75% il peso ideale, si accompagna anche a un aumento del numero degli adipociti.
Le obesità ipertrofiche, invece, sono quelle che insorgono nell'età adulta e spesso hanno una distribuzione prevalente del grasso al tronco. Il tessuto adiposo è presente soprattutto nel sottocutaneo e nel cavo addominale, intorno ai vari visceri. Frequentemente l'aumento della massa del tessuto adiposo non è uguale nei vari settori del corpo, cosicché nell'obeso la distribuzione dell'adipe può essere diversa da quella del soggetto normale. Queste modificazioni della distribuzione del tessuto adiposo possono essere molto evidenti e hanno permesso di classificare vari tipi di obesità.
La classificazione morfologica più usata divide le obesità in centrali e periferiche. L'obesità periferica è più frequente nel sesso femminile ed è caratterizzata da un maggiore accumulo di tessuto adiposo a livello dei glutei e della radice delle cosce; all'opposto, l'obesità centrale, più frequente nel sesso maschile, è caratterizzata dall'aumento di tessuto adiposo al tronco. Accanto a queste forme di obesità, che possono dirsi tutte armoniche, ne esistono altre in cui la distribuzione del grasso in eccesso è molto diversa da quella abituale; queste ultime forme vengono definite distrofiche o disarmoniche.
Per valutare correttamente l'obesità si devono, in teoria, misurare il grasso corporeo e la sua distribuzione e confrontare i dati ottenuti in un certo individuo con quelli contenuti in apposite tabelle che riportano i valori di riferimento per le varie età e per entrambi i sessi costruite sul normotipo. Nonostante possa sembrare semplice, questa procedura si rivela in realtà di non facile esecuzione, sia nel campo della ricerca sia in ambito clinico. Infatti, almeno tre fenotipi di grasso corporeo rivestono un ruolo primario (il contenuto totale di grasso corporeo, il grasso che si trova nella parte superiore del corpo, il grasso periviscerale) e tutti devono essere tenuti in attenta considerazione.
I metodi attualmente disponibili per ottenere una misura diretta o stimata del contenuto totale di grasso del corpo sono numerosi e forniscono stime abbastanza concordi tra loro e riproducibili. Tradizionalmente, la misura della densità corporea ottenuta con metodi di pesatura in immersione è considerata un'ottima procedura standard. Il metodo si basa sull'assunto che un modello bicompartimentale di composizione corporea (massa adiposa e massa magra) ben si presta a ottenere una misura valida del contenuto corporeo di grasso. Questa premessa è in realtà accettabile, purché la densità dei tessuti magri non sia soggetta a variazioni troppo ampie. Purtroppo, invece, essa può subire larghe fluttuazioni per effetto di numerose condizioni, come alcune malattie (per es. l'osteoporosi), la crescita, l'invecchiamento, l'allenamento fisico, la malnutrizione. In molte circostanze si possono quindi ottenere stime erronee, sebbene l'ampiezza degli errori che il metodo comporta rimanga relativamente contenuta (in termini di percentuale di grasso corporeo). È comunque importante sottolineare come la misura della densità corporea con tecniche derivate dalla pesatura in immersione non sia errata, mentre lo è piuttosto la sua conversione nel contenuto corporeo di grasso, suscettibile di deviazioni rispetto al postulato di base.
Per stimare il contenuto corporeo di grasso possono essere impiegati anche altri metodi: mineralometria a doppio raggio fotonico (DPA, Dual photon absorptiometry; DEXA, Dual energy X-ray absorptiometry); diluizione isotopica, che permette di valutare il contenuto di acqua all'interno del corpo; misurazione del contenuto corporeo di potassio, per determinare la massa dei muscoli scheletrici; tomografia assiale computerizzata (TAC); risonanza magnetica nucleare (RMN) e altre procedure assai complesse. Trattandosi di procedimenti molto costosi e che richiedono l'impiego di apparecchiature sofisticate, tali metodi vengono utilizzati quasi esclusivamente per scopi di ricerca.
Approcci più semplici consistono nell'uso, comune soprattutto negli studi di popolazione, di misurazioni antropometriche, quali la plicometria cutanea, la determinazione di alcune circonferenze o di indici ponderali e l'impedenziometria (BIA, Bioelectrical impedance analysis). Il più largamente utilizzato è l'indice di massa corporea (IMC o BMI, Body mass index), definito come rapporto tra il peso corporeo espresso in chilogrammi e il quadrato dell'altezza in metri (kg/m2). Individui adulti con un indice di massa corporea di 22-23 kg/m2 (normalità ponderale) sono frequenti in Africa e in Asia, mentre livelli di 25-27 kg/m2 (sovrappeso) sono prevalenti in America Settentrionale e in Europa e in alcune zone dell'America Latina, del Nord Africa e delle isole del Pacifico. L'incremento dell'indice di massa corporea riguarda soprattutto i soggetti di mezza età e gli anziani, che sono anche quelli che presentano più alto rischio di complicazioni.
Di impiego comune sono anche il peso relativo (espresso come percentuale del peso di riferimento specifico per il sesso, la statura e l'età), la formula di Broca (peso in chilogrammi calcolato come differenza tra altezza in centimetri e 100), il rapporto peso/altezza, l'indice di Sheldon (rapporto tra statura e radice cubica del peso) o il suo reciproco indice ponderale di Livi (rapporto tra radice cubica del peso e statura), l'indice di Rohrer (rapporto tra peso e cubo della statura) o il suo reciproco indice di Pirquet (rapporto tra altezza elevata al cubo e peso) e infine l'indice di Benn (rapporto tra peso e statura elevata a una potenza eguale al coefficiente di regressione del peso sulla statura, moltiplicato per il rapporto statura media/peso medio) che però, essendo specifico per la popolazione studiata, può essere usato solo retrospettivamente. Tutti questi indici si caratterizzano per essere più o meno indipendenti dalla statura e correlati con il peso.
La valutazione del grasso della parte superiore del corpo o di quello periviscerale intraddominale è complessa, soprattutto perché le relative misurazioni dovrebbero essere eseguite contemporaneamente a quella del contenuto adiposo totale. La capacità di previsione delle stime del grasso periviscerale ricavate da semplici misurazioni antropometriche (circonferenza della vita, diametro sagittale dell'addome ecc.) è mediocre a livello individuale, ma migliora se applicata a gruppi di popolazione.
Data l'importanza della distribuzione anatomica del tessuto adiposo per le complicanze metaboliche e cardiovascolari dell'obesità, è opportuno distinguere tra grasso viscerale e sottocutaneo (ovvero tra distribuzione di tipo centrale e di tipo periferico). A questo scopo si usano alcuni semplici indicatori, quali il rapporto tra le circonferenze della vita e dei fianchi (rapporto W/H, Waist-to-hip ratio) o quello tra le pliche della parte superiore e della parte inferiore del corpo. Per una valutazione rapida del BMI e del rapporto vita/fianchi possono essere utilizzati dei nomogrammi.
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Peso corporeo e spesa energetica
La maggior parte delle persone solitamente mantiene un peso corporeo stabile adattando spontaneamente l'introduzione di calorie con la dieta a fluttuazioni della spesa energetica entro un intervallo piuttosto ampio. Questo equilibrio si ottiene attraverso un fine controllo dei meccanismi elementari che presiedono alla regolazione dell'introduzione di cibo e alla spesa energetica.
È importante a questo proposito chiarire da un punto di vista terminologico il significato di appetito, fame e sazietà. L'appetito è rappresentato solitamente dal desiderio di assumere un particolare tipo di cibo non sempre connesso a un suo reale bisogno e la cui ingestione si accompagna a sensazione di piacere, mentre la fame può essere definita come la sensazione che spinge un individuo a ingerire del cibo senza alcuna predilezione ed è solitamente accompagnata da sensazione di leggera sofferenza. I meccanismi che scatenano la sensazione di fame non sono stati ancora ben chiariti, ma l'osservazione che sia nell'animale da esperimento sia nell'uomo una lieve riduzione dei livelli glicemici precede l'ingestione di cibo fa ritenere possibile l'esistenza di un glucosensore in stretta connessione con i centri di integrazione ipotalamici. Con il termine di sazietà spesso ci si riferisce a due distinti momenti che si susseguono a distanza dal pasto: una fase precoce, che termina con la cessazione del pasto dovuta essenzialmente alla quantità di cibo ingerito, e una fase tardiva postprandiale, caratterizzata dall'assenza di fame. I meccanismi che regolano la seconda fase sono profondamente diversi da quelli che accompagnano la prima fase e implicano l'intervento di sistemi integrati di controllo situati a livello del sistema nervoso centrale.
Dalla concezione dualistica di un centro che sovrintendeva al senso di fame, identificato anatomicamente nell'area ipotalamica laterale, e di un centro della sazietà, localizzato nel nucleo ventromediale, si è arrivati a definire un modello di controllo molto più evoluto e complesso coinvolgente molte altre strutture cerebrali come la corteccia frontale e l'amigdala, le strutture troncomesencefaliche e il talamo. Segnali di varia natura e origine come impulsi nervosi vagali afferenti, ormoni e variazione della concentrazione dei substrati circolanti, informano costantemente questi centri sullo stato energetico dell'organismo. Numerosi neuropeptidi regolano l'introito alimentare e tra questi il neuropeptide Y (NPY) gioca verosimilmente il ruolo più importante.
Segnali di origine metabolica possono contribuire alla regolazione del senso di sazietà e di fame. È stato visto infatti che l'entità del metabolismo ossidativo dei maggiori macronutrienti può ridurre il senso di sazietà; ciò è stato osservato non solo per i carboidrati, ma anche, in particolari condizioni, per gli acidi grassi. Gli studi di fisiologia hanno potuto tuttavia assegnare ai vari macronutrienti una diversa priorità nell'indurre tale senso: carboidrati e proteine, somministrati sia per bocca sia per via parenterale, possiedono il maggior potere saziante, mentre i lipidi non mostrano una simile capacità.
La spesa energetica consta di tre principali componenti: la spesa energetica basale, l'energia usata per sostenere l'esercizio fisico e la termogenesi indotta dagli alimenti. Negli ultimi decenni l'uso della calorimetria indiretta, che permette la stima degli scambi respiratori in continuo per più o meno lunghi periodi di tempo, ha definitivamente chiarito che la spesa energetica è, in termini assoluti, più elevata nel soggetto obeso rispetto al soggetto normopeso. Ciò sarebbe dovuto essenzialmente alla maggiore spesa energetica basale ascrivibile a un aumento della massa magra che rappresenta la parte del corpo metabolicamente più attiva. Infatti, quando i dati calorimetrici vengono normalizzati per la quantità di massa magra, non si osservano più differenze tra individui obesi o individui normopeso.
Una misura della termogenesi dovuta all'attività fisica che si può svolgere nella vita di tutti i giorni è stata ottenuta con metodiche radioisotopiche piuttosto complesse come l'acqua doppiamente marcata. Con tale approccio sperimentale è stato visto che la spesa energetica dovuta all'attività fisica è ridotta nel soggetto obeso indicando chiaramente che uno stile di vita sedentario può essere chiamato in causa nella genesi dell'aumento ponderale.
Come accennato sopra, gli effetti a lungo termine di variazioni del peso corporeo mostrano un certo grado di adattamento della spesa energetica e avvengono in una direzione che tende a riportare il soggetto nella condizione ponderale iniziale; così a un aumento del peso corrisponde solitamente un incremento della spesa energetica, mentre a riduzioni ponderali corrispondono paralleli decrementi della spesa energetica. È degno di nota il fatto che soggetti che hanno ottenuto un calo ponderale in seguito a un regime dietetico ipocalorico mostrano una riduzione del fabbisogno calorico per il mantenimento del nuovo peso rispetto ai soggetti dello stesso peso, ma che non sono mai stati in sovrappeso e non si sono mai sottoposti ad alcun trattamento dietetico restrittivo. Risulta evidente che questi cambiamenti della spesa energetica rappresentano un meccanismo omeostatico che tenta di limitare l'incremento o il calo ponderale.
Si è già affermato che conservare costanti peso e composizione corporea implica il mantenimento non solo di un adeguato bilancio energetico, ma anche di un analogo utilizzo dei principali substrati nutritivi a scopo energetico o di deposito. Quest'ultimo aspetto è di cruciale importanza poiché i singoli macronutrienti sono solitamente utilizzati o immagazzinati in compartimenti separati e la trasformazione di un substrato in un altro a scopo di deposito è un processo di scarso rilievo fisiologico. In particolare, si pensa che solo una minima percentuale dei carboidrati presenti nella dieta possa essere convertita a livello epatico in acidi grassi rilasciati dal fegato come lipoproteine a bassissima densità ricche di trigliceridi. È stato possibile stimare che in situazioni di iperalimentazione a base di carboidrati, indipendentemente dall'apporto di grassi nella dieta, la quantità di lipidi derivanti dalla cosiddetta 'lipogenesi de novo' non eccedeva i 10-12 g al giorno. In simili condizioni di nutrizione il deposito di lipidi a livello del tessuto adiposo non può avvenire sino a che la sintesi non superi la velocità di ossidazione lipidica. La conversione di substrati glucidici in lipidi è inoltre un processo che richiede energia, per cui circa un quarto del contenuto energetico del materiale glucidico viene convertito in calore. Al contrario, il deposito dei trigliceridi nel tessuto adiposo richiede una spesa energetica molto bassa ed è per tale motivo che quest'ultima via biosintetica risulta preferenziale poiché conveniente in termini energetici. Mentre un pasto ricco di carboidrati è comunemente associato all'aumento della loro ossidazione, la risposta metabolica a un pasto ricco di grassi è essenzialmente destinata al loro deposito a livello del tessuto adiposo, senza sostanziali modificazioni della loro ossidazione. Solo un pasto particolarmente ricco di lipidi induce un modico aumento dell'ossidazione degli stessi, oltre al loro preferenziale stoccaggio nel tessuto adiposo. Il mantenimento dell'equilibrio nel metabolismo energetico dei carboidrati e, almeno nel breve periodo, degli aminoacidi è prioritario per l'organismo. Ciò implica che nell'adulto variazioni del bilancio energetico dell'organismo non possano derivare che da cambiamenti del metabolismo dei lipidi. L'incremento ponderale può derivare perciò da un aumento del deposito dei lipidi della dieta nel tessuto adiposo a causa della ridotta capacità di ossidazione degli stessi. Pertanto i sistemi che controllano l'ossidazione dei lipidi sono di cruciale importanza per comprendere la regolazione del peso corporeo. È stato osservato che la misura in cui carboidrati e lipidi vengono ossidati è legata alla loro rispettiva concentrazione. Infatti quando i livelli di acidi grassi liberi aumentano, come nell'obesità, aumenta di conseguenza la loro ossidazione a livello del muscolo a detrimento dell'ossidazione dei glucidi. I meccanismi che sottendono questi fenomeni sono complessi e prevedono l'inibizione da parte di prodotti intermedi o finali del metabolismo ossidativo degli acidi grassi di enzimi chiave del metabolismo dei carboidrati.
Il peso corporeo raggiunge comunque nel soggetto obeso un punto di nuovo equilibrio nonostante il continuo surplus energetico e, in particolare, nonostante l'aumento dell'introduzione di grassi con la dieta. Sono stati descritti almeno due meccanismi omeostatici che sono correlati con le variazioni della composizione corporea allorché un individuo aumenta di peso. L'incremento della massa magra che si associa all'espansione del tessuto adiposo viene accompagnato da quello della spesa energetica basale e perciò della spesa energetica totale. Segue un aumento del rilascio in circolo degli acidi grassi liberi e della loro ossidazione periferica. L'aumento dell'ossidazione degli acidi grassi nei soggetti che hanno guadagnato peso potrebbe essere interpretato come un meccanismo lipostatico. Questo nuovo sistema di adattamento metabolico permetterebbe all'ossidazione degli acidi grassi di crescere fino a un livello tale da pareggiare l'introito di grassi con la dieta limitando perciò l'ulteriore incremento ponderale.
Nell'individuo adulto le modificazioni del peso corporeo sono dovute essenzialmente a variazioni della quantità di tessuto adiposo; in generale, l'incremento si attua per i tre quarti attraverso la deposizione di adipe e per un quarto con l'aumento consensuale della massa magra. Durante la fase in cui il tessuto adiposo cresce, si deve attuare un bilancio lipidico positivo dovuto al fatto che l'introduzione di lipidi eccede l'ossidazione degli stessi. Inoltre un incremento del tessuto adiposo può essere determinato dal depositarsi in questa sede di più trigliceridi di quanti ne vengano rimossi attraverso i processi lipolitici, ciò a causa di un eccesso di calorie che si depositano sotto forma di lipidi o di un regime di vita sedentario.
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Dati epidemiologici
L'obesità ha raggiunto nel mondo proporzioni epidemiche, con 1 miliardo di adulti in sovrappeso, di cui almeno 300 milioni obesi (nel 1995 gli obesi adulti erano 200 milioni e i bambini al di sotto dei 5 anni in sovrappeso 18 milioni). Le aree maggiormente interessate sono l'America del Nord e l'Europa: la dimensione del problema negli USA è doppia rispetto all'Europa, dove però il tasso di aumento è più elevato (nell'ultimo decennio fino a punte del 50%). Il fenomeno obesità, tuttavia, attualmente è diffuso anche in aree dove prima non era presente se non in minima entità: India, Cina, Giappone, Australia, isole del Pacifico, e alcune regioni dell'Africa e del Sud America, compresi alcuni paesi in via di sviluppo, dove l'obesità coesiste spesso con la denutrizione. I livelli attuali di obesità vanno dal 5% circa in Cina, Giappone e alcune nazioni dell'Africa fino a più del 75% nelle zone urbane dell'arcipelago di Samoa.
Anche l'obesità infantile può essere considerata epidemica in alcune aree e in crescita in altre. Si stima che, a livello mondiale, 17,6 milioni di bambini sotto i 5 anni di età siano in sovrappeso. Negli Stati Uniti, per es., dal 1980 a oggi i bambini in sovrappeso sono raddoppiati e gli adolescenti triplicati; in particolare, nella fascia di età che va dai 12 ai 17 anni si è passati dal 5% al 13% nei maschi e dal 5% al 9% nelle femmine. In Thailandia, invece, i livelli di obesità nei bambini da 5 a 12 anni sono aumentati dal 12,2% al 15,6% in soli due anni.
Per quanto riguarda l'Europa, l'European health report 2002, pubblicato dall'Ufficio regionale europeo dell'OMS, riferisce che "più della metà della popolazione adulta si trova al di sopra della soglia di sovrappeso e circa il 20-30% degli individui adulti rientra nella categoria degli obesi. L'obesità infantile è in continuo aumento e, in molti paesi europei, un bambino su cinque è affetto da obesità o sovrappeso. Un preoccupante dato di fatto è rappresentato dalla persistenza dell'obesità infantile nell'età adulta, con conseguente aumento dei rischi per la salute. Un altro aspetto del problema è quello delle ripercussioni psicologiche: infatti, l'obesità infantile comporta spesso una diminuzione dell'autostima e persino sindromi depressive".
Anche il Ministero della Salute italiano ha messo in rilievo soprattutto il problema dell'obesità infantile: nel 1999-2000 la percentuale di bambini e adolescenti (per un campione di età compresa tra i 6 e i 17 anni) in sovrappeso è risultata circa il 20%, mentre era pari al 4% la quota degli obesi. Il problema interessa soprattutto la fascia di età 6-13 anni e il sesso maschile. La regione con più alta presenza di bambini e adolescenti con eccesso di peso è la Campania (36%), quella con la presenza più bassa è la Valle d'Aosta (14,3%). In generale il problema dell'obesità infantile è più grave nelle regioni meridionali.
I principali fattori di rischio dell'eccesso di peso dei ragazzi con età compresa tra i 6 e i 17 anni sono stati individuati nella familiarità (in presenza di entrambi i genitori in sovrappeso o obesi, la percentuale di ragazzi nella fascia di età esaminata che presentano lo stesso disturbo è di circa il 34%, mentre la quota scende al 18% se nessuno dei due genitori lamenta un eccesso di peso; la percentuale è di circa il 25% se a pesare troppo è solo uno dei genitori; inoltre, se in famiglia c'è almeno un adulto obeso, senza tener conto del grado di parentela, i bambini tra i 6 e i 13 anni con problemi di peso sono il 42,1%), nella sedentarietà come stile di vita (il basso dispendio energetico conseguente alla mancanza di ogni attività fisico-sportiva incide più dell'assunzione di cibi molto calorici) e nello status socioeconomico (la percentuale dei ragazzi tra i 6 e i 17 anni di età con eccesso di peso è del 26,6% nel caso in cui il giudizio sulle risorse economiche della famiglia è negativo, mentre scende al 23,1% se le disponibilità economiche familiari vengono considerate ottime o comunque adeguate; inoltre la percentuale di bambini e adolescenti con eccesso di peso è del 25,9% nel caso in cui la madre ha la licenza elementare o nessun titolo di studio, del 25,1% nel caso in cui la madre sia in possesso di una licenza di scuola media inferiore, del 22,5% quando il titolo di studio della madre è una laurea o un diploma di scuola media superiore).