DORIA, Oberto
Nacque prima del 1230 a Genova da Pietro e Mabilia Casiccia, primogenito di quattro figli.
Durante la giovinezza del D., negli anni della lotta tra il Comune e Federico II di Svevia, suo padre non si impegnò nell'appoggio al partito ghibellino (al quale era tradizionalmente legata la famiglia) e poté continuare i suoi traffici in città; la ditta guidata da lui e dal socio Poncio Riccio costitui una delle più floride imprese commerciali sulla piazza genovese: una ideale scuola non solo mercantile, ma anche politica, in quanto fondata su una attenta conoscenza dei difficili e cangevoli equilibri d forze nel Mediterraneo e su una sensibilita acuta per gli interessi del populus genovese.
Il D. trascorse la sua giovinezza a fianco del padre, collaborando con lui nella gestione della ditta ed agendo, in seguito, autonomamente.
Alcuni documenti esemplificano la sua attività mercantile, non ancora esplorata a fondo. Nel 1250 stipulò un cambio monetario con Armanno Penello, impegnandosi a consegnargli 400 lire di genovini alla fiera di Lagny (20 dicembre); l'anno seguente risulta proprietario della nave "Leopardo", il cui equipaggio raggiungeva le novanta unità, che si affiancava alla flotta posseduta dal padre (1º luglio); finanziò Percivalle, figlio di Guglielmo Doria, consegnandogli in commenda due sporte di lacca da vendere a Ceuta, sulla costa africana (11 novembre); nel 1253 si imbarcò per Tunisi, portandovi merci e capitali liquidi, raccolti in città tramite commende; la nave "Leopardo" fu noleggiata anche ad altri mercanti (14 aprile). Nel maggio risulta assente da Genova, poiché furono lo zio Tommaso ed il padre ad occuparsi dei suoi affari, ricevendo il guadagno proveniente da commende fatte in precedenza dal D. e nominando gli esattori incaricati di riscuotere la gabella del sale nel Finale, appaltata dalla famiglia (docc. del 3 maggio e del 22 maggio). Anche negli anni seguenti egli prosegui la sua intensa attività commerciale, collaborando sia col padre, sia col socio Poncio Riccio, sia col figlio di quest'ultimo, Lanfranco, succeduto al padre dopo la morte, avvenuta prima del 1258.
Nello stesso tempo il suo apprendistato politico fu completato con la partecipazione ad alcuni accordi stipulati dal Comune, in qualità di consiliator, affiancandosi al padre Pietro ed al nonno Oberto (il capo del ramo familiare fino alla morte, avvenuta verso il 1255), entrambi membri del Consiglio maggiore. Già nel 1252, ancora giovanissimo, assistette all'accordo tra gli uomini di Brehl ed il Comune (22 marzo); due anni dopo fu teste all'atto in cui Enrico del Bisagno venne scelto come ambasciatore a Firenze (15 luglio 1254); nel 1256 approvò gli accordi con gli uomini del castello di S. Igia, in Sardegna (17 novembre). Non si dimentichi, inoltre, che a lungo il podestà genovese fu ospitato nel palazzo di Oberto e poi di Pietro, dove abitava anche il D., che poté in tal modo conoscere da vicino il funzionamento della macchina amministrativa del Comune.
Negli anni che seguirono la caduta di Guglielmo Boccanegra, il governo guelfo (a capo del quale vi erano le famiglie Fieschi e Grimaldi) si dimostrò esitante, privo di una linea politica autonoma rispetto alla potenza angioina ed incapace di cogliere la gigantesca opportunità che il trattato di Ninfeo, voluto dal Boccanegra, aveva creato per il commercio genovese nel Mediterraneo orientale. In difficoltà davanti alla reazione di Venezia, irritata per l'appoggio concesso alla città rivale dall'imperatore bizantino, il Comune finì coll'essere spinto in un pericoloso allineamento sulle posizioni di Carlo d'Angiò, minacciando di rompere quella difficile neutralità internazionale che era indispensabile per garantire la crescita dei traffici commerciali. Proprio a seguito dei ripetuti insuccessi negli scontri coi nemici Veneziani (particolarmente grave fu la sconfitta patita da Lanfranco Borborino nelle acque di Trapani il 23 giugno 1266), il D. ottenne il suo primo comando in mare.Benché gli Annali genovesi lo ricordino come "homo valde famosus", la sua popolarità non dovette essere originata da precedenti imprese militari, ma dalla sua attiva partecipazione alla vita economica cittadina. I grandi mercanti, gli armatori, i banchieri, i finanziatori del commercio, costituenti il nerbo del populus (cresciuto nel corso del secolo XIII con sempre maggiore consapevolezza dei propri diritti e deciso ormai a contare anche nella guida del governo), dovettero guardare con simpatia al D. ed alla sua famiglia (o, meglio, al ramo creato dal nonno Oberto), che aveva fatto le sue fortune in città e che agli interessi economici cittadini legava strettamente i propri. Del resto, il ramo di Oberto, pur facendo parte dell'oligarchia tradizionalmente al potere, che nel 1264 si era spartite le cariche pubbliche, non aveva ancora indirizzato i suoi sforzi nell'acquisto di possessi nelle Riviere o nelle isole tirreniche, subendo così richianii centrifughi; in questo stava la differenza rispetto ad altri membri della famiglia e rispetto ai Grimaldi o ai Fieschi, e, viceversa, la sua consonanza col populus.
Nel 1266, a soli cinque giorni dalla sconfitta del Borborino, venne allestita una flotta di 25 galere, affidate al comando dei Doria. Salpato da Genova ai primi di agosto, egli si pose alla caccia del convoglio veneziano, proveniente dall'Oriente, e per questo incrociò allo sbocco dell'Adriatico, dove, tuttavia, dovette limitarsi alla cattura di qualche piccolo legno. Giunta la notizia che la partenza delle navi veneziane era stata rinviata, il D. si diresse verso Creta, dove assalì ed occupò La Canea, dando alle fiamme il palazzo del Comune e la rocca. Ripreso il largo, il D. si imbatté presso Modone nella flotta nemica, guidata da Marco Zeno e superiore di numero, per cui egli preferì evitare lo scontro. Dopo aver spartito il bottino a Messina, il D. fece ritorno a Genova. La campagna navale (il cui obiettivo primario - la cattura del convoglio veneziano - era fallito) contribuì, tuttavia, a rincuorare una città, da tempo rassegnata alla sconfitta.
Negli anni seguenti il D. riprese la sua attività commerciale e dovette preoccuparsi di rafforzare la sua flotta privata; nel 1269 ottenne dall'abate del monastero di S. Fruttuoso di Capodimonte l'autorizzazione a costruire una nave sulla spiaggia di Portofino (16 luglio).
Nel frattempo, la politica comunale, diretta dai guelfi, finì sempre più coll'allinearsi sulle posizioni angioine. Carlo, con la sua fulminea avanzata nella penisola, stava attanagliando la città, togliendole i tradizionali centri di rifornimento granario (Sicilia, pianura padana) ed obbligandola ad una alleanza, che avrebbe posto fine alla sua fruttuosa neutralità. L'accordo tra il Comune e l'Angiò (maggio 1269), in cui Genova rinunciò ad una delle conquiste più accanitamente difese nel corso della sua storia, la possibilità di nominare autonomamente il podestà; il dirottamento della crociata di Luigi IX, cui prese parte un nutrito contingente genovese, spinta da Carlo all'assedio di Tunisi, tradizionale alleato del Comune ligure; il pericolo che la scelta di campo filoangioina incrinasse il favore concesso da Bisanzio ai traffici commerciali genovesi: furono questi i motivi di malcontento che fermentarono in città e che spinsero il populus ad insorgere contro il governo guelfo.
La "rivoluzione" del 28 ott. 1270 (giorno dei Ss. Simone e Giuda) e l'inizio della diarchia costituiscono uno dei momenti cruciali della storia medievale genovese, perché contribuirono in modo decisivo a proteggere la crescita demografica, economica, politica di una città destinata a collocarsi in prima fila tra le potenze mediterranee. In quell'instancabile crogiuolo istituzionale che fu la Genova medievale, sempre alla ricerca di nuove soluzioni di governo capaci di salvaguardare gli interessi delle famiglie e delle fazioni di volta in volta dominanti, la formula che uscì vittoriosa nel 1270 garantì una tranquillità interna, durata per più di quindici anni, che era destinata a restare momento irripetibile nella storia di Genova, almeno fino al regime di Andrea Doria agli inizi del Cinquecento. Questo straordinario successo fu dovuto ad una alleanza apparentemente atipica (quella tra le due famiglie appartenenti all'oligarchia tradizionalmente al potere, i Doria e gli Spinola, ed il populus), ma molto più comprensibile, se si pensa che almeno il ramo familiare cui appartenne il D., non ancora giunto al possesso di una signoria rivierasca, vedeva i suoi interessi coincidere con quelli del populus. Non solo: l'eccezionale tranquillità interna fu anche dovuta alla intelligenza con cui i due capitani (il D. ed Oberto Spinola) riuscirono a garantire possibilità di guadagno ed alto tenore di vita anche ai ceti meno abbienti, grazie all'abilità con cui spalancarono ai traffici cittadini l'intero Mediterraneo ed allo sforzo continuo per assicurare alla città l'approvvigionamento cerealicolo, anche nel momento più acuto del conflitto con Carlo. In tal modo si impedì che la massa di manovra, costituita dai ceti minuti, fosse utilizzata dalla parte sconfitta, pronta a sfruttarne il malcontento, come capiterà nei secoli successivi.
A volere e ad imporre il colpo di Stato fu certamento il populus: non a caso, esso si darà una propria struttura (forse anche militare) con la "Societas beatorum apostolorum Simonis et Iudae", sancendo anche nel titolo il valore sacro della rivolta, non a caso, ancora, l'atto formale che segnò la nascita del nuovo regime fu il conferimento dei pieni poteri (temporanei e non perpetui) da parte del populus (cui tutti dovevano il giuramento di fedeltà) al D. ed al suo collega come "Capitanei Communis et Populi", stabilendo in tal modo la coesistenza di due organismi distinti, il Comune ed il Popolo. I poteri loro affidati, almeno all'inizio, furono assoluti: essi non erano vincolati neppure dagli statuti cittadini; anche l'elezione del podestà venne sospesa. Il primo obiettivo dei capitani fu quello di evitare una rottura traumatica con Carlo d'Angiò, che poteva in qualunque momento usare contro il nuovo governo il ricatto della chiusura dei mercati meridionali ai traffici genovesi. Con abile lavorio diplomatico, i capitani riuscirono ad arrivare allo scontro, senza provocare fratture in città, presentando la guerra (che avrebbe creato ovvie difficoltà al populus ed ai ceti inferiori) come voluta pervicacemente dal nemico e dai guelfi fuorusciti, accusati di tramare contro gli interessi collettivi genovesi.
Particolare attenzione fu posta nel garantire alla città il fabbisogno granario, mentre Carlo minacciava di interrompere il flusso dai tradizionali centri di approvvigionamento. Nel 1276, nel momento più critico per il rifornimento di cereali, a causa del blocco angioino e della carestia, che stava infuriando nell'Italia settentrionale, i capitani si adoperarono con grande energia per trovare grano in altre zone del Mediterraneo e per scoraggiare la speculazione. Con orgoglio, l'annalista Doria poté ricordare che, nonostante le difficoltà, le porte di Genova rimasero aperte, per accogliere i profughi provenienti dalle regioni colpite dalla fame. Nel 1272, approfittando del tentativo compiuto dai Grimaldi di far insorgere la città (ma il progetto doveva essere noto da tempo), si lavorò abilmente per presentare all'opinione pubblica interna l'atteggiamento guelfò come un pericolo per tutta la cittadinanza.
I capitani riuscirono così ad arrivare all'inevitabile scontro con Carlo su posizioni di forza: sicuri dell'appoggio del populus e della simpatia dei ceti inferiori, in buoni rapporti col Papato, non costretti a ricorrere ad alleanze scomode. Apertesi le ostilità nel 1272, gli alleati di Carlo, guidati dai Fieschi, attaccarono le Riviere, in modo particolare quella orientale, nel cui entroterra la famiglia nemica possedeva numerosi castelli. Fu il D. a guidare la fulminea campagna militare: nel settembre pose l'assedio a Castelnuovo, costringendo i nemici a rifugiarsi nella rocca di Godano. Caduto anche questo centro, dopo soli tre giorni il D. poté ritornare in città. L'ordine di Carlo di catturare i mercanti genovesi presenti nel Regno, contravvenendo agli accordi intercorsi tra il Comune e l'Angiò, fu la dichiarazione di guerra. L'anno seguente la morsa guelfa si chiuse sulla città, attaccata nuovamente nelle Riviere. Ancora una volta fu lo stesso D. a guidare la risposta armata, che portò, nel marzo, alla conquista del castello della Spezia e di altre roccaforti fliscane; occupata anche Brugnato, il D. poté far rientro trionfale a Genova il 2 aprile. Approfittando della sua spedizione, egli provvide ad organizzare una nuova podesteria, quella di Carpena, destinata a consolidare la presenza genovese nella Riviera, attirando uomini dal retroterra, ancora in gran parte controllato dai Fieschi. Nel distretto orientale il sistema delle podesterie, che era stato costruito pazientemente nel corso del secolo, creando ex novo o rinforzando centri costieri, per accogliervi uomini dalle vallate, divenne proprio in questi anni elemento basilare per la solidità dello Stato genovese. Infatti, le enormi potenzialità economiche offerte dal mercato cittadino crearono una saldatura di interessi tra cives e distrettuali, ponendo fine ad una lunga ostilità reciproca e creando nelle Riviere un serbatoio di manodopera e di forza militare, che si rivelò indispensabile per la crescita del mercato e della potenza genovesi.
Diventato più allarmante il pericolo guelfo, soprattutto nel Ponente, dove Monaco costituiva una roccaforte imprendibile, il governo fu costretto ad avvicinarsi allo schieramento ghibellino (cui le due famiglie al potere erano tradizionalmente legate), senza che ciò lo spingesse, almeno per il momento, a venir meno alla sua neutralità. Infatti, pur aiutando Alfonso X di Castiglia nel suo intervento in Italia e pur alleandosi con le ghibelline Pavia ed Asti, Genova riuscì a salvaguardare la sua libertà di iniziativa. L'unione tra il populus e i capitani non fu incrinata neppure dall'abile mossa di Carlo, che fece balenare la possibilità di riaprire il Regno al commercio genovese, in caso di cambiamento di regime in città. Nel luglio del 1274 il D. con la flotta tentò di attaccare Mentone, occupata dai guelfi, ma fu costretto a ritornare in fretta a Genova, minacciata dalla flotta angioina. L'interdetto, scagliato nello stesso anno dal papa contro la città, su pressione del card. Ottobono Fieschi, non creò serie difficoltà al governo, che, anzi, poté superare la fase di emergenza costituzionale, riprendendo la nomina di un podestà.
Le operazioni militari finirono coll'esaurirsi; Carlo intavolò trattative di pace, che portarono all'accordo del 18 giugno 1276. Il governo dei capitani fu riconosciuto dal re, che abbandonò alla loro sorte i fuorusciti guelfi; essi ottennero di poter ritornare in città, ma furono ben presto di nuovo allontanati, mentre il Regno era riaperto al commercio genovese. L'accordo sancì un trionfo per la Repubblica, che vide spalancarsi tutto il Mediterraneo ai suoi traffici, diventando contemporaneamente elemento di equilibrio nel complesso scacchiere internazionale.
Approfittando della ritrovata pace esterna, i capitani si impegnarono in una politica di opere pubbliche (nel 1276 si incominciò a costruire la darsena, detta il "Mandraccio") ed in un programma di allargamento territoriale dello Stato, con particolare interesse alle località costiere e a quelle montane, collocate in posizione strategica. Questo allargamento fu perseguito con un enorme esborso di capitali ed a spese della nobiltà guelfa sconfitta. Nel 1276 Niccolò Fieschi dovette vendere al Comune i suoi feudi nell'entroterra della Riviera orientale per 25.000 lire genovine (24 novembre); l'anno seguente i fratelli Malaspina cedettero per 10.000 lire genovine le loro quote su Ovada, Rossiglione e Tagliolo (16 aprile); il 15 gennaio era stata comperata da Tommaso di Ponzone una quota di Varazze; il 10 marzo fu acquistata Albisola. Nel 1278 i Malaspina cedettero Arcola per 7.000 lire genovine e, quattro anni dopo, fu perfezionato l'acquisto di Ovada. Tuttavia, queste iniziative furono dettate non da un progetto consapevole teso a dare omogeneità territoriale al distretto genovese, per creare uno Stato regionale, ma dall'esigenza più immediata di togliere capisaldi alle forze nemiche, approfittando delle loro difficoltà economiche. Del resto, come si vedrà, proprio in questi anni il D. si creò una signoria personale nella Riviera occidentale.
Nel frattempo, all'interno il governo cominciò ad assumere un aspetto più definito. Non sappiamo quali accordi siano intercorsi tra i due capitani; tuttavia, per almeno 15 anni nessuna seria divergenza dovette manifestarsi tra loro. I poteri dei capitani, comunque, furono più limitati di quanto possa apparire dalla lettura degli Annali: non solo accanto a loro agirono un podestà non genovese, cui fu demandata l'amministrazione della giustizia, ed il Consiglio degli anziani, ma col 1276 si aggiunse la figura dell'Abbas populi, come segnale di volontà di un maggior controllo sull'operato dei capitani.
Dopo la pace con Carlo, ad opporsi al governo rimasero solo le forze feudali locali ed i fuorusciti guelfi, che nel 1278 tentarono un ultimo colpo di coda. I Malaspina, guidati da Moroello, attaccarono alla fine di marzo Chiavari e la saccheggiarono, ma vi furono assediati dal D.; i ribelli riuscirono a stento a salvarsi, mentre il capitano, occupata la città, si spinse nel territorio che era appartenuto ai Fieschi, ma non ancora sotto controllo genovese, e poi assediò i Malaspina ad Arcola. Essi furono costretti alla resa e a cedere, come si è detto, il castello. Seguirono alcuni anni di relativa tranquillità, grazie alla politica accorta dei capitani, che impedirono un rovesciamento degli equilibri mediterranei, contribuendo a far fallire il tentativo angioino-veneziano di abbattere l'imperatore bizantino Michele VIII (1281).
Parallelamente a questa intensa attività pubblica, il D. usò la sua posizione per crearsi un vasto possesso nella Riviera di Ponente. Questa scelta gli fu suggerita sia da motivi econoinici (l'investimento immobiliare rimase l'obiettivo ultimo per il grande mercante anche in questi anni di espansione), sia politici (costruirsi basi territoriali per mantenere il controllo sulla città), sia militari (creare riserve di uomini per la propria flotta). Già nel 1263 (ma il'documento originale non ci è pervenuto) il D. avrebbe acquistato Loano dal vescovo d'Albenga, ma solo nel 1289 vi costruì un castello; nel 1270 coniperò da Lanfranco Borborino (l'ammiraglio esiliato dopo la sconfitta di Trapani) e dal figlio Leonardo due parti indivise della "villa" di Dolceacqua (due anni dopo il Borborino poté ritornare a Genova); il possesso, però, fu perfezionato solo nel 1276 con l'acquisto della terza parte cedutagli da Oberto, conte di Ventimiglia (9 aprile). Si iniziò in tal modo il processo di feudalizzazione anche del ramo dei D., che portò inevitabilmente la famiglia a divaricare i propri interessi da quelli del populus. Per questi anni, abbiamo poche notizie sull'attività privata del D.: nel 1272 (27 aprile) incaricò un suo procuratore di prendere in enfiteusi dal vescovo di Aiaccio (suffraganeo dell'arcivescovo di Pisa) terre in quella diocesi; tuttavia, la veste privata del D. fu dovuta alla opportunità di non creare sospetti nella città rivale, perché le terre furono poi affidate a coloni genovesi, che vi fondarono Castel Lombardo. Il 23 genn. 1279 i due capitani, come privati cittadini, insieme con altri mercanti, costituirono una società per scavare metalli a Ponzolo, in Lunigiana.
Nel frattempo, l'espansione genovese finì inevitabilmente coll'urtare l'altra grande città tirrenica, Pisa. Costretta alla difensiva, minacciata nei suoi interessi economici dalla vitalità e dalle iniziative genovesi, Pisa ruppe una tregua che durava da almeno vent'anni ed iniziò una politica di provocazioni, per arrivare allo scontro. L'obiettivo era il controllo della Corsica e della Sardegna, vitali per Pisa come per la famiglia Doria, un cui ramo (quello di Nicolò) si era da tempo ritagliato una cospicua signoria nel Giudicato turritano, mentre lo stesso D., col fratello lacopo, vantava diritti sul centro corso di Calvi. L'abilità politica del D. rifulse anche in questa circostanza: egli riuscì a mobilitare una città, i cui interessi coincidevano con la pace e con la tranquillità dei traffici (non a caso, i Pisani chiamavano sprezzantemente i loro rivali "Bramapace"), per una guerra "santa" (come la presentò Iacopo Doria nei suoi Annali) contro la nemica. La scintilla fu costituita dalla rivolta di Sinucello Della Rocca in Corsica contro la presenza genovese; nel 1282 fu armata una flotta, guidata da Niccolino Spinola e dal D., per dissuadere la rivale dal continuare il suo appoggio al ribelle ed anche per intavolare trattative in qualunque momento; arrivata a Porto Pisano, la flotta fu affrontata da quella nemica, ma evitò lo scontro, anche perché la stagione ormai inoltrata sconsigliava il proseguimento delle operazioni militari.
Nello stesso anno il governo si decise a proclamare il divieto di navigazione, per mobilitare tutte le navi, comprese quelle commerciali; su ordine del Consiglio di credenza (una magistratura straordinaria creata per l'occasione) si proibirono sostituzioni tra gli arruolati, obbligando genovesi e distrettuali ad imbarcarsi, ed impedendo che la flotta fosse formata da sostituti, spesso montanari o di origine padana, ignari del mare e destinati a costituire un grave ostacolo in caso di battaglia. Queste misure, certamente impopolari, in quanto bloccavano le iniziative commerciali in un momento di grande espansione, furono tuttavia accettate, segno del consenso esistente tra popolazione e governo. Con il varo di 50 nuove navi in pochi giorni, venne compiuto anche un notevole sforzo armatoriale.
La campagna militare ebbe nel saccheggio pisano di Alghero (città in cui si concentravano gli interessi commerciali dei Doria) l'episodio più significativo. Un attacco nemico a Portovenere fu bloccato dal pronto intervento della flotta del D., costretto, tuttavia, a sospendere le operazioni, perché la stagione della vendemmia spingeva i marinai ad un rapido ritorno nelle Riviere. Pisa decise un ulteriore sforzo: chiamato a podestà il veneziano Alberto Morosini (nella speranza infondata che Venezia intervenisse al suo fianco), nel luglio del 1284 le sue navi iniziarono un attacco in grande stile, dirigendosi su Albenga. A Genova fu subito allestita una flotta al comando del D.; egli si ancorò al largo di Sturla, per attirare in un tranello i nemici, che avrebbero potuto attaccare il porto di Genova, credendolo sguarnito. La trappola non funzionò; il D. cercò invano di intercettare la flotta pisana al largo di Portofino e decise poi di inseguirla nel viaggio di ritorno verso Porto Pisano. Congiuntosi con la flotta guidata da Benedetto Zaccaria e pervenuto all'isolotto della Meloria, egli schierò le navi a battaglia secondo la tradizionale ripartizione topografica della città (ogni quartiere forniva una galera), con l'aggiunta, come ammiraglie, della nave "S. Matteo" dei Doria e di quella degli Spinola.
Questa presenza legittimava di fatto l'esistenza di due contrade, abitate dalle famiglie al potere, distinte dai vecchi rioni cittadini. In tale ottica deve essere letta l'indicazione fornita da I. Doria, secondo cui sulla galera "S. Matteo" si imbarcarono 250 Doria. Il dato deve essere riferito non ad effettivi componenti della famiglia (dando vita a gravi fraintendimenti, come la ricostruzione di una presunta lista di personaggi che avrebbero preso parte alla battaglia), ma a membri della consorteria, abitanti del quartiere di S. Matteo o clienti della famiglia.Il 6 agosto avvenne lo scontro decisivo. Secondo il racconto annalistico, accettato tradizionalmente, la flotta nemica, ormeggiata a Porto Pisano, cadde nel tranello tesole dal D. e dallo Zaccaria, che si era nascosto con le sue 30 navi dietro la prima schiera. Egli attese che la flotta nemica, ritenendosi superiore, uscisse dal porto, per assalirla a sua volta, capovolgendo gli equilibri in gioco. Questa versione dei fatti (che presenta alcune incongruenze) è stata rimessa in discussione: Pisa accettò battaglia consapevolmente, nel tentativo di giocare il tutto per tutto, come dimostra l'accanimento con cui si combatté e l'altissimo prezzo pagato da entrambe le parti.
Anche se il significato della vittoria genovese non deve essere sopravvalutato (Pisa continuò ad esercitare la sua egemonia in Sardegna), è innegabile che il colpo inferto alla città tirrenica fu enorme. La sua flotta venne distrutta; catturati o uccisi migliaia di uomini; lo stesso podestà Morosini ed alcuni membri dell'aristocrazia pisana portati a Genova come prigionieri. Pur restando una potenza tirrenica importante, Pisa fu costretta a rinunciare ad un ruolo politico più vasto. La Meloria rappresentò anche il momento di massima concordia nel blocco di forze, che si era coagulato a Genova: il populus, i ceti inferiori, gli stessi distrettuali (che contribuirono in modo determinante alla vittoria) sotto la guida di due famiglie dell'oligarchia. La battaglia era destinata a restare simbolo del periodo aureo della Genova medievale, segnato da un impetuoso sviluppo del mercato interno, da una crescita consistente del benessere sociale, da un'enorme espansione dei traffici nel Mediterraneo (dove in breve nacquero "atre Zenoe"), da un aumento quantitativo e qualitativo del settore artigianale.
Tuttavia, paradossalmente, nel momento in cui terminava lo scontro della Meloria, iniziarono a manifestarsi quei dissensi che mineranno di lì a poco la pace interna della città. Mentre il D. si apprestava ad infliggere il colpo di grazia a Pisa entrando nel suo porto, trenta galere abbandonarono la flotta, per dirigersi su Genova. Il D. fu perciò costretto a rinunciare al suo attacco e a ritornare in città, la vigilia di S. Lorenzo. Qui il trionfo venne celebrato senza ostentazione: il numero elevatissimo di vittime anche tra i vincitori sconsigliò manifestazioni di giubilo. L'anno seguente fallì la campagna voluta da Oberto Spinola: le città toscane, alleate di Genova, non si mossero, per cui la flotta fu costretta a ritornare in città, nell'agosto. Il mese dopo il D. ed i suoi figli abbandonarono clamorosamente Genova per la loro villa di Rapallo, comunicando la decisione del D. di rinunciare alla carica di capitano per i restanti tre anni previsti dal suo mandato.
I motivi di questa decisione, che segnava la rottura di una concordia interna che durava da 15 anni, sono oscuri, anche per la reticenza con cui ne parla I. Doria. Forse furono divergenze di opinioni con l'altro capitano (responsabile del mancato attacco a Porto Pisano e favorevole al fallimentare accordo con le città guelfe toscane) a provocare tale gesto, ma è anche possibile che in città cominciasse a diffondersi un clima favorevole all'accordo con Pisa, tale da non ostacolare i traffici commerciali, ma urtando in tal modo con gli interessi doriani, che premevano per un colpo definitivo alla città rivale.
La crisi istituzionale fu superata con una riedizione della diarchia, formata questa volta dallo Spinola e da Corrado, figlio del Doria. Tuttavia, il prestigio politico di quest'ultimo rimase enorme, nel 1287 assistette il ramo "sardo" della famiglia nella firma di alcune convenzioni col Comune genovese (20 dicembre); l'anno seguente accrebbe la sua signoria rivierasca, acquistando dagli eredi di Simone Zaccaria le "ville" di Perinaldo e Giunco; nel 1290, in un momento di grave crisi nella coalizione sociale che aveva retto la città, fu chiamato nella commissione incaricata di riformare gli statuti, aprendo la strada alla nomina di un capitano non genovese; nel 1292 fu incaricato dal Comune di trattare col conte Lotto Della Gherardesca, prigioniero a Genova e disposto ad intervenire in Sardegna contro Pisa; nel 1294, d'accordo col fratello Iacopo, cedette al Comune i suoi diritti su Calvi, ma non sappiamo quando e perché li avesse ottenuti.
Scoppiate le ostilità con Venezia, nel 1295 il D. fu eletto ammiraglio di una imponente flotta contro la città nemica; tuttavia l'enorme sforzo economico e militare fallì il suo obiettivo. Infatti il D., direttosi a Messina, con la speranza di annientare la flotta veneziana, preferì ritornare indietro senza concludere nulla. La condotta del D. è apparsa inspiegabile; solo venti navi veneziane si opponevano ad un suo eventuale attacco contro il porto nemico; forse fu il timore di rivolgimenti interni a farlo desistere dal tentativo. Nel 1297, insieme con Giorgio De Mari, egli acquistò gli importanti centri di San Remo e Ceriana, creando una vasta signoria rivierasca. Nel 1301 fu teste all'accordo tra il suo Comune e Carlo II d'Angiò.
Nel frattempo l'alleanza tra i Doria e gli Spinola si incrinò sotto la spinta di alcuni avvenimenti (la rinuncia di Corrado Doria al capitanato per la carica di ammiraglio del Regno di Sicilia, alla fine del 1297; l'elezione di Porchetto Spinola ad arcivescovo di Genova l'anno seguente), che crearono forti malumori tra le due famiglie, mentre anche al loro interno si manifestavano lacerazioni e rivalità.
Il D. fu per alcuni anni a capo del clan doriano uscito sconfitto dalle lotte cittadine; ormai vecchio, ancora nel dicembre del 1305 si adoperò perché si arrivasse ad un accordo, che restituisse alla sua parte il controllo di metà delle cariche pubbliche. Opizzino Spinola (capo del ramo di Luccoli) rifiutò di accettare la proposta, obbligando, nell'Epifania del 1306, il ramo del D., sconfitto, a lasciare la città. Non sappiamo se tra gli esiliati vi sia stato anche il D., che morì prima del 6 settembre di quell'anno.
Secondo il Federici, egli sposò Giacomina Fieschi; altri ricordano come moglie del D. una Nicolosina Cibo. Tuttavia il D. certamente sposò (forse in seconde nozze) Isotta, figlia od erede di Giacomo [IV], marchese di Ponzone, ricordata in un atto del 1317 come defunta. Furono suoi figli Corrado, Raffo (o Raffaele), Simone, Andreolo e Giovannina.
Fonti e Bibl.: Manca una monografia accurata sul personaggio; prive di valore documentario ed encomiastiche sono Uberti Folietae Clarorum Ligurum elogia, Romae 1572, pp. 43 s.; Elogi di liguri illustri, a cura di L. Grillo, I, Genova 1846, pp. 176-183. Una parziale ricostruzione della vita, ma con interesse esclusivo per il ruolo pubblico del D., in C. Imperiale di Sant'Angelo, Iacopo Doria ed i suoi Annali, Venezia 1930, pp. 2, 13, 27 s., 41, 108, 111, 147 s., 150, 174-80, 185, 192 ss., 197, 199, 203 s., 206 ss., 210, 215, 221 s., 228, 236, 239 s., 245, 247-50, 253, 257 ss., 292, 294, 302, 312 s., 316 s., 325; C. Fusero, IDoria, Milano 1973, pp. 170, 172 ss., 176, 181 s., 184 s., 187-91, 193, 196-200, 202 ss., 207, 215, 224 ss., 237 s., 246. Notizie genealogiche in Genova, Biblioteca Franzoniana, Mss. Urbani, 126-29: F. Federici, Alberi geneal. delle famiglie di Genova (ms. sec. XVII), sub voce; N. Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, I, Doria, Genova 1825, p. 70.
Sulla attività commerciale del D. e sui suoi interessi privati (ancora tutti da approfondire): Genova, Biblioteca civica Berio, m.r. III, 4, 7-9: Foliatium notariorum (ms. sec. XVIII), I, cc. 441r, 470v, 491r, 497v, 503v, 504v; II, c. 24r; III, 1, cc. 17r, 135v (si citano solo gli atti usati per la biografia); Docc. inediti riguardanti le due crociate di s. Ludovico IX, a cura di L. T. Belgrano, Genova 1859, docc. CCLIV, CCLVI; Codice diplom. delle relazioni tra Genova, la Toscana e la Lunigiana ai tempi di Dante, a cura di A. Ferretto, in Atti d. Soc. ligure di st. patria, XXXI (1901-1903), ad Indicem; A. Ferretto, Docc. intorno ai trovatori Percivalle e Simone Doria, in Studi medievali, I (1904-1905), pp. 142, 149; II (1906-1907), pp. 134 s.; Docc. intorno alle relazioni tra Alba e Genova, a cura di A. Ferretto, in Bibl. della Soc. storica subalpina, XXIII, Pinerolo 1906, doc. CCCXXVIII; Docc. sulle relazioni tra Voghera e Genova (960-1325), a cura di G. Gorrini, ibid., XLVIII, ibid. 1908, ad Indicem; R. Doehaerd, Les relations commerciales entre Gênes, la Belgique et l'Outremont... aux XIIIe et XIVe, siècles, Bruxelles-Rome 1941, ad Indicem; E. Byrne, Genoese shipping in the Twelfth and Thirteenth Centuries, Cambridge, Mass., 1930, pp. 104 ss.; R. Lopez, L'attività economica di Genova nel marzo 1253…, in Atti d. Soc. lig. di storia patria, LXIV (1935), p. 236; F. Dioli-T. Leali Rizzi, S. Fruttuoso di Capodimonte, Recco 1985, pp. 45, 77.
Fonti documentarie genovesi sul ruolo pubblico del D.: Genova, Biblioteca civica Berio, Foliatium notariorum, cit., II, cc. 113v, 255v; III, 1, cc. 36r, 49v, 50, 55v, 89v, 106v; Liber iurium Reipublicae Genuensis, a cura di E. Ricotti, in Monumenta hist. patriae, VII, Augustae Taurinorum 1854, docc. DCCCXXVIII col. 1140, DCCCLV col. 1185, DCCCXCII col. 1246, DCCCXCIII col. 1249, dal doc. DCCCCLXI al MXIII (suo capitanato); IX, ibid. 1857, docc. XXVI col. 39, XXIX col. 42, XXX col. 44, XXXI col. 47, XXXII col. 49, XXXIII col. 51, XXXV col. 54, XXXVII coll. 56 ss., XLVII coll. 77-80, LI col. 90, LII col. 96, LIII col. 102, LIV col. 107, LV col. 113, CXIX coll. 305 ss., CXXX-CXXXVI coll. 331-344, CLVII col. 435, CLIX coll. 438 ss., CLXXII coll. 472 ss.; Codice diplomatico, cit., ad Indicem; Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, IV-V, a cura di C. Imperiale di Sant'Angelo, Roma 1926-1929, in Fonti per la storia d'Italia, XIV-XIV bis, ad Indices; Trattati e negoziazioni politiche della Repubblica di Genova (958-1797). Regesti, a cura di P. Lisciandrelli. in Atti d. Soc. lig. di storia patria, n.s., I (1960), ad Indicem; I registri della Catena del Comune di Savona, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, n.s., XXVI (1986), ad Ind. Il capitanato del Popolo e linee della sua espansione sono stati studiati da G. Caro, Genua und die Mächte am Mittelmeer (1257-1311), Halle 1895-1899 (trad. it. in Atti d. Soc. lig. di st. patria, n. s., XIV-XV [1974-75], ad Indices), cui si rimanda per la bibliografia delle fonti cronachistiche e documentarie non genovesi anteriori alla data di edizione dell'opera. Un'analisi approfondita della situazione mediterranea, oltreché genovese, negli anni in cui il D. fu al potere, negli studi contenuti in Genova, Pisa ed il Mediterraneo tra Due e Trecento (per il VII centenario della battaglia della Meloria), in Atti d. Soc. ligure di storia patria, n.s., XXIV (1984). Ovviamente, tutte le storie di Genova si occupano del D. come capitano del Popolo; così V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova 1955, ad Indicem; T. O. De Negri, Storia di Genova, Milano 1968, ad Indicem (ad entrambe le opere si rimanda per la bibliografia anteriore).
Cfr. inoltre G. Costamagna, Il notaio a Genova tra prestigio e potere, Roma 1970, ad Indicem; R. Lopez, Da mercanti ad agricoltori: aspetti della colonizzazionegenovese in Corsica, in Su e giù per la storia di Genova, Genova 1975, pp. 207-215; M. Balard, La Romanie génoise (XIIe-début du XVe siècle), Roma 1978, ad Indicem; A. Sisto, Genova nel Duecento. Il capitolo di S. Lorenzo, Genova 1979, pp. 85 s.; A. Liva, Il potere vescovile in Genova, in Atti del Convegno di studi sui ceti dirigenti..., I, Genova 1980, p. 62; A. Agosto, Cenni sui titoli di dignità e d'onore a Genova nel Medioevo, ibid., II, ibid. 1982, p. 232; G. Petti Balbi, Caffaro e la cronachistica genovese, Genova 1982, ad Indicem. La battaglia della Meloria e le altre campagne navali del D., oltreché nel volume ad essa dedicato e nelle opere citate, in I. Doria, La chiesa di S. Matteo in Genova, Genova 1860, pp. 8, 16, 18-22, 250; C. Manfroni, Storia della marina ital. dal trattato di Ninfeo alla caduta di Costantinopoli, I, Livorno 1902, pp. 24 s., 57 s., 111, 118, 124-27, 131, 137, 203 s.; M. Garino, Eran ... trecento, in Boll. ligustico per la storia e la cultura regionale, XV (1963), p. 73. Sulla signoria del D. nella Riviera occidentale: P. Gioffredo, Storia delle Alpi marittime, in Monumenta historiae patriae, IV (Scriptores, II), Augustae Taurinorum 1839, coll. 621, 626, 628, 632, 638 s., 655; P. Accame, Statuti antichi di Albenga, Finalborgo 1901, pp. 25, 28, 184 s.; N. Russo, Sule origini e la costituzione della "Potestacia Varaginis Cellarum et Arbisolae", Savona 1908, pp. 100 ss., 112-116, 126; A. Canepa, Vicende del castello di S. Romolo, in Atti d. Soc. lig. di storia patria, LIII (1926), pp. 125, 129 s.; N. Calvini, Relaz. medievali tra Genova e la Liguria occidentale (secc. X-XIII), Bordighera 1950, pp. 93 ss., 100, 102, 107, 109, 111; Id., Nobili feudali laici ed ecclesiastici nell'estremo Ponente ligure (sec. X-XIV), in Atti del Convegno di studi sui ceti dirigenti..., II, Genova 1982, pp. 92, 94; I. Costa Restagno, Ceti dirigenti e famiglie di Albenga..., ibid., IV, ibid. 1984, p. 150. Sugli interventi del D. nella politica genovese dopo la sua rinuncia al capitanato: E. Besta, La Sardegna medievale, Palermo 1908, ad Indicem; V. Salavert y Roca, Cerdeña y la expansión mediterránea de la Corona de Aragón (1297-1314), Madrid 1956, ad Indicem; A. Goria, Le lotte intestine a Genova tra il 1305 ed il 1309, in Miscell. di storia ligure in onore di G. Falco, Milano 1962, pp. 254 s., 258, 261. Mancano ancora indagini approfondite sullo sviluppo del mercato cittadino e, in particolare, sulla crescita dell'artigianato negli anni della diarchia; allo stesso modo, poco conosciuta è la dinarnica sociale che portò all'emergere del populus. Al riguardo, si veda G. Petti Balbi, Genesi e composizione di un ceto dirigente: i "populares" a Genova nei secoli XIII e XIV, in Spazio, società, potere nell'Italia dei Comuni, a cura di G. Rossetti, Napoli 1987, p. 100. Uno sguardo complessivo all'economia genovese medievale (con interesse per i traffici commerciali) in R. Lopez, The market expansion: the case of Genoa, in Journal of econ. history, XXIV (1964), pp. 445-464; G. Pistarino, Comune, Compagna e "Commonwealth" nel Medioevo genovese, in Atti del Convegno di studi sui ceti dirigenti…, III, Genova 1983, pp. 9-28; Id., Politica ed economia del Mediterraneo nell'età della Meloria, in Genova, Pisa ed il Mediterraneo, cit., pp. 23-50.