DALL'ORTO (de Orto), Oberto
Nacque probabilmente a Milano all'inizio del XII secolo; non è altrimenti nota la provenienza sociale della famiglia, né sappiamo ove abbia acquisito i fondamenti della scienza giuridica, in cui doveva in seguito eccellere. Tra il 1133 ed il 1137 aveva raggiunto una certa fama di giurisperito se Lotario III, prima re e poi imperatore, gli concesse, con il missatico, la dignità di giudice imperiale, funzioni che egli esercitò per tutta la vita, sottoscrivendosi nelle sentenze con la formula "Ego Obertus iudex ac missus domini Lotarii tercii imperatoris".
La solida preparazione giuridica ed il riconoscimento ufficiale del sovrano permisero al D. di intraprendere ben presto la carriera politica entro la magistratura consolare di Milano. Il 21 ag. 1140 sottoscrisse infatti, come console del Comune, una sentenza relativa ad una controversia tra Locarno da Besozzo ed i conti dei Seprio a proposito dei possesso del fodro regio, del districtus e dell'arimannia sui luoghi di Mendrisio e di Rancate. Giacché le due parti in lite asserivano che i loro diritti derivavano da "unum dorninum", cioè dall'imperatore, il D., con i colleghi Gualtiero ed Ottone, anch'essi giudici e missi imperiali, deferì al tribunale regio la causa. Due anni dopo il D. ricopriva nuovamente la carica di console del Comune e, con i già menzionati giudici Gualtiero ed Ottone, pronunciò una sentenza nella controversia che opponeva gli stessi conti del Seprio agli abitanti di Mendrisio sul problema del pagamento del fodro regio (20 maggio 1142).
Poiché gli uomini di Mendrisio si rifiutavano di pagare, adducendo di non essere mai stati sottoposti al fodro e che l'imposizione era dovuta ai conti solo dagli arimanni del luogo, i giudici, vista l'incapacità della famiglia comitale a provare che il suo diritto si estendeva su tutti gli abitanti della località, chiesero ai rappresentanti di Mendrisio di giurare che essi non avevano mai pagato la tassa e che non avrebbero dovuto pagarla. La sentenza colpiva gli interessi del gruppo comitale diminuendo le basi economiche e giuridiche del potere dei conti in un territorio su cui si estendeva da tempo l'espansionismo politico del Comune milanese.
Nel 1147 il D. fu per la terza volta console di Milano e nella sua duplice veste di magistrato del Comune e di giudice imperiale spttoscrisse due sentenze consolari.
Nel primo processo (13-27 maggio 1147), che opponeva i capitanci da Carcano all'arciprete dei decumani in relazione alla proprietà di una peschiera posta sul lago Maggiore, il D. negò valore alle deposizioni rese dai testimoni dei da Carcmo ed accettò, invece, la versione dei testi dell'arciprete, suffragata da un documento di donazione effettuata dall'arcivescovo Ariberto. Anche nel secondo processo (23 ott. 1147) - una lite tra il vescovo di Lodi ed i rustici di Cervignano, raccolti attorno all'istituzione del commune loci per il possesso di un vasto bosco lungo il corso dell'Adda - il D. rifiutò le testimonianze dei villani ma accettò quelle della Chiesa, le quali miravano a dimostrare che l'episcopato aveva sulla foresta "tam dominium, quam possessionem.". In entrambi i casi poi la decisione consolare a favore degli enti ecclesiastici avvenne dopo che l'advocatus ecclesiae ebbe pronunciato il giuramento con cui si affermava il dominio e la proprietà sul bene immobile.
Nell'agosto 1148 sottoscrisse, con Gerardo Cagapesto e con altri giudici milanesi, un consilium richiestogli dal patriarca di Aquileia Pellegrino e dal cardinale Guido da Crema, legato papale in Lombardia, giudici nella causa che opponeva i canonici della Chiesa veronese ai conti di Ronco, o di San Bonifacio, per il possesso del districtus e dei diritti signorili sulla curtis di Cerea.
I conti richiedevano il possesso della corte, affermando che era un loro feudo ereditario, ma l'arciprete di Verona fu in grado di dimostrare, con numerosi privilegi imperiali e papali, che il possesso della medesima località apparteneva alla canonica. L'ecclesiastico affermava inoltre, in base a documenti scritti, che i canonici avevano affittato per ventinove anni ad un tal Isnardo i diritti signorili per un censo annuo di cento soldi veronesi; costui a sua volta aveva ceduto il diritto di affitto al duca Bonifacio, padre della contessa Matilde, la quale in seguito aveva anche ottenuto per feudum la medesima corte da un vescovo veronese. E sempre per feudum hereditarium - madi ciò non esisteva documentazione - il possesso era giunto nelle mani dei conti di Ronco, a cui era stato tolto da non molti anni con una sentenza del legato papale. Il consiglio del D., primo firmatario, escluse ogni possibilità di possesso o di richiesta di possesso per i conti; era infatti chiaro che questo era stato attribuito dagli imperatori alla canonica. Circa poi la questione dell'investitura feudale il D. fu perentorio: non vi erano prove che vi fosse stata investitura, né che fosse stato reso un servitium per questa e, giacché il feudo per consuetudine consisteva in entrambi gli atti, era chiaro che non vi era stato rapporto feudale. Inoltre era ugualmente assodato che la contessa Matilde aveva tenuto la corte per diritto di locazione e pertanto non poteva concederla in feudo ad altri. La conclusione fu che la controversia non doveva essere esaminata secondo l'uso e la consuetudine feudale, come chiedevano i conti, ma secondo la leggeromana, per la quale il diritto di possesso spettava ai canonici.
Nel 1150 il D. ricoprì per la quarta volta la carica di console del Comune di Milano e sottoscrisse con Gerardo Cagapesto tre sentenze consolari, due delle quali sono molto interessanti, giacché riguardano la problematica della signoria fondiario-territoriale, o dominatus loci.
Nella prima (3 giugno 1150) il D., insieme con Gerardo e Robasacco giudice, salvaguardò i diritti dei Comune rurale di Linate contro coloro che ivi detenevano la signoria, in rapporto all'uso del bosco e alla nomina del "campariuni", o ufficiale di polizia comunale. Solo su un punto i consoli di Milano si espressero contro la tesi dei rustici: questi ultimi chiedevano che gli uomini dei domini, o masnada, fossero o non abitanti sul territorio di Linate, giurassero di difendere la località. I consoli invece riconobbero, in base ormai ad una concezione territoriale della struttura amministrativa, che tale obbligo competesse solo ai masnadieri abitanti sul territorio di Linate. E proprio nel senso di una affermazione territoriale della giurisdizione signorile si colloca anche la successiva sentenza (iq dic. 1150), che risolse una controversia tra l'arciprete della chiesa di S. Giovanni di Monza e due abitanti di Centemero, una località posta entro i confini della curtis di Bulciago, il cui districtus spettava all'ente ecclesiastico. I due rustici negavano che le loro case appartenessero alla giurisdizione della corte di Bulciago, non perché fossero state edificate su di un territorio di un'altra curtis, ma perché essi avevano partecipato all'incastellamento di Trivoli e avevano probabilmente delle caneve in quel castrum. La soluzione data dal D. fu precisa: se i rustici avessero abitato nel luogo di Centemero, o entro i suoi confini, sarebbero stati sottoposti alla giurisdizione dell'arciprete, ma se si fossero stabiliti nel castello di Trivoli, o si fossero trovati in esso, allora sarebbero caduti sotto il potere giurisdizionale del signore del castrum, anche perché avevano partecipato alla sua costruzione.
Nella primavera del 1151 il D. si recò nel territorio veronese, ove era stato eletto arbitro nella lite che opponeva l'abate di S. Zeno al Comune di Ferrara, rappresentato da Salinguerra Torcilo, in relazione al dibattuto problema del castello di Ostiglia, da poco ricostruito dai Veronesi e di cui i Ferraresi chiedevano la distruzione, giacché era stato edificato - secondo il loro parere - su terra del loro coniitato e della loro diocesi.
Dopo aver preso atto della documentazione ed aver ascoltato ben centonovantasci testimoni, il D. pronunciò il 31 maggio una definitiva sentenza con cui si respingevano le richieste dei Ferraresi e si affermava che il castello, posto su terra allodiale di S. Zeno, era sotto la signoria del medesimo monastero entro i confini del comitato e della diocesi di Verona. La decisione arbitrale fu riconfermata, probabilmente il 28 genn. 1172 o 1173, da papa Alessandro III con una lettera all'arcivescovo di Magonza, legato apostolico in Lombardia.
Ritornato a Milano ricoprì di nuovo per il 1152 la carica di console del Comune ed in questa veste, nonché con la solita qualifica di "iudex et missus", fu costretto a pronunciare, con Gerardo Cagapesto, una sentenza che assolveva gli uomini di Piuro dalle richieste del Comune di Chiavenna (8 maggio 1152).
In questo caso il problema in discussione riguardava questioni di natura politico-istituzionale ed avrebbe interessato ancora non solo il D. (14 apr. 1154), ma anche suo figlio Anselmo (29 giugno 1155). Chiavenna e Piuro avevano costituito un unico Comune con una rappresentanza consolare fissata in proporzione ai loro abitanti, così che i tre quarti dei consoli dovevano essere di Chiavenna ed il restante quarto di Piuro. Anche le spese, attuate a vantaggio dei due centri abitati, avrebbero dovuto essere sopportate in egual proporzione. Il problema si pose quando gli abitanti di Piuro rifiutarono di partecipare per il loro quarto a sariare dei debiti contratti- come essi sostennero - ad esclusivo interesse di Chiavenna. Risultava dunque importante stabilire chi avrebbe deciso, in caso di contrasto, se le spese fossero di comune vantaggio o non. Affidare la delibera alla maggioranza dei consoli era irrazionale, poiché la rappresentanza di Chiavenna era preponderante, per cui il D., in accordo con il collega Guercio, stabilì che in casi simili si sarebbe dovuto accettare il parere della maggioranza dei consoli solo se in essa fossero presenti anche dei rappresentanti di Piuro. Era una soluzione di compromesso, ma serviva a calmare le tensioni in uno dei centri nodali della rete viaria tra la Germania e la. pianura padana.
L'ascesa al trono imperiale nel 1152 di Federico I aveva creato seri problemi all'espansionismo politico milanese e reso guardinga la compagine consolare, che proprio nel 1154 aveva preferito creare una magistratura specifica per dirimere le cause giudiziarie: il consolato di Giustizia. Già il fatto che in precedenza molti consoli fossero - come il D. - anche iúdices e missi del sovrano è stato giustamente interpretato dal Bognetti nel senso che il loro intervento era necessario da un punto di vista giuridico per legittimare in qualche modo l'ordinamento cittadino e gli atti amministrativi che da esso derivavano. La città ed i suoi consoli, pur affermando di voler seguire - soprattutto in rapporto alla materia feudale - usi e consuetudini particolari, non si ritenevano autonomi rispetto all'ordinamento generale dell'Impero, a cui era sempre riservata la iurisdictio. Tuttavia le menti più coscienti dell'amministrazione cittadina da tempo si erano sforzate di dare una organizzazione sistematica alle consuetudini, in modo che il diritto, con cui era retta la città, assumesse una fisionomia autonoma rispetto alla legge generale dell'Impero e al medesimo Corpus iuris. Ne è la prova la redazione dei Libri feudorum, di cui due parti (l. II, tit. 1-21; l. II, tit. 22-24) sono state sicuramente scritte dal D. sotto forma di lettere al figlio Anselmo, quando quest'uffimo si trovava a Bologna per studiare giurisprudenza. E proprio nel preambolo della prima lettera il D., dopo aver affermato che le cause possono essere risolte in base al diritto romano, alla legislazione dei Longobardi o alle consuetudini dei luoghi, differenti a seconda delle diverse città, aggiunge, con piena coscienza, che per quanto grandi siano il valore e l'autorità delle leggi romane, esse non possono tuttavia vincere usumaut mores. Si tratta di un voluto capovolgimento del Codex, in cui al contrario si sostiene che per quanto grande possa essere il valore della consuetudine, quest'ultima non può vincere la legge. Sono parole scritte attorno agli anni Cinquanta dei XII secolo e sono significative per intendere la posizione ideologica di Milano di fronte all'imperatore, per sostenere la legittimità delle proprie consuetudini. E non era solo un problema ideologico: la città concepiva come redditi propri le entrate che un tempo erano appartenute alla corte regia e poi al vescovo e che ora costituivano una delle basi economiche dei gruppi sociali dei capitanei, dei valvassori e dei cives piùricchi, i quali si identificavano con la medesima istituzione comunale. Ma le due lettere, sollecitate dal figlio perché i maestri bolognesi fingevano di ignorare il diritto feudale, mostrano lo sforzo del D. per dare una sistemazione ad una materia giuridica in costante evoluzione e trasformazione.
La prima tratta dei modi con cui possono essere acquisiti i feudi, della forma e dell'effetto dell'investitura, della capacità di concedere e di ricevere i feudi, della loro trasmissione ereditaria e dei diritti e dei doveri di chi investe e di chi è investito di un feudo. La seconda, scritta qualche tempo dopo la prima, discute le cause di perdita o di riversione del feudo. Esse sono anteriori non solo al 1158, anno della costituzione sui benefici feudali di Federico I, non citata in esse, ma anche al 1155, quando Anselmo aveva già concluso gli studi a Bologna e ricopriva a Milano la carica di console di Giustizia; tuttavia sono posteriori al 1136, giacché il D. conosce e cita la costituzione sui feudi di Lotario III. Le due lettere ebbero immediata diffusione e un anonimo collettore le aggiunse ai precedenti trattatelli di materia feudale, formando così un primo abbozzo di Corpus iuris feudorum, in seguito conosciuto anche come redazione obertiana delle Consuetudines feudorum, che furono poi glossate da Gerardo Cagapesto, da Ariprando, mantovano e da Vaccella mantovano. Di recente il Brancoli Busdraghi ha sottolineato l'originalità e l'importanza che il D. ebbe nell'evoluzione del concetto giuridico di feudo lombardo, inserendo l'istituto nella categoria dei diritti reali. La definizione di feudo, data dal D., fa leva sul dualismo, caratteristico del diritto di usufrutto, fra la proprietà, di cui rimane titolare chi concede l'investitura (dominus o senior), e l'usufrutto ereditario in perpetuo dell'oggetto concesso al vassallo, su cui grava la condizione di obblighi vassallatici. In diretta derivazione da questa definizione il D. riconosce al vassus la legittimazione processuale attiva, la capacità ed il potere cioè di rivendicare, quasi fosse un proprietario, il beneficio di fronte a terzi che se ne fossero per caso impadroniti, nonché di difendersi in giudizio qualora altre persone volessero privarlo del medesimo beneficio. Prima dello scritto dei D. il vassallo non poteva legittimare il beneficio di fronte ai terzi, ma poteva solo convocare il senior davanti al tribunale dei pari di Curia, nel caso che lo stesso senior avesse alienato ad altre persone la realtà già data in feudo al vassallo. Una simile concezione del feudo come iusin re, unita ad una crisi e ad una decadenza del servizio vassallatico, che proprio in questi anni cessò di essere prestato in modo effettivo e si ridusse ad una pura prestazione pecuniaria periodica, permise il diffondersi delle alienazioni di beni feudali sotto la forma giuridica del livello, la quale, sia nella realtà, sia negli scritti del D., fu intesa come una vera e propria compravendita, in cui il livellario, o meglio il compratore, non subentrava negli obblighi vassallatici del dante causa, che continuavano ad incombere solo sul vassallo. Nel caso che quest'ultimo fosse morto senza eredi maschi o avesse refutato il feudo o lo avesse perso per tradimento, la concessione livellaria si estingueva automaticamente. Contro queste velate alienazioni di beni beneficiali reagì la costituzione di Federico I del 1158. Tuttavia, giacché i Comuni lombardi si identificavano - ed il D. ne era pienamente cosciente - con i tre ceti dei capitanei, dei vassalli e dei cives, questi ultimi mercanti e possidenti non militari, e giacché tutti costoro avevano a che fare, o meglio fondavano una parte della loro ricchezza sulla compravendita dei feudi, anche su questo punto, che insidiava il valore normativo delle consuetudini, era inevitabile lo scontro con il sovrano.
È interessante notare che il D., la cui carriera di uomo politico è già stata in parte delineata, partecipò in prima persona allo scontro ideologico con il Barbarossa. Milano lo inviò, infatti, con Gerardo Cagapesto alla prima Dieta di Roncaglia nel novembre 1154 col compito di chiedere al sovrano di accettare l'egemonia della città su Lodi e Como, o meglio, come affermano le fonti tedesche e lodigiane, con l'incarico di accompagnare la richiesta con l'offerta di 4.000 marche d'argento. Di fronte al diniego di Federico I, motivato dall'affermaziene giuridicamente inattaccabile che il sovrano non poteva riconoscere valore a guerre compiute senza l'assenso regio, i due giuristi si trovarono in difficoltà e compresero che lo scontro scendeva ormai sul piano delle armi. Quando il 6 dicembre Federico abbandonò Roncaglia e volle raggiungere i ponti del Ticino per passare con l'esercito nei territori dei conti di Biandrate e ciel marchese di Monferrato, chiese ai due consoli milanesi di guidarlo sino al fiume. Il Cagapesto ed il D. pensarono di allontanare le milizie imperiali dalla loro città ed indicarono al sovrano una strada per luoghi incolti e deserti, in cui non si trovò cibo né per gli uomini, né per i cavalli. Quando finalmente il 10 dicembre gli Imperiali giunsero a Rosate, l'odio verso i due milanesi esplose in modo inconsulto e l'imperatore ordinò, come misura di rappresaglia, la distruzione di quel castello e di quelli di Galliate, Trecate e Momo, centri in cui Milano esercitava la giurisdizione.
A Roncaglia tuttavia, prima dello scontro, il D. dovette aver modo di ottenere dall'imperatore il riconoscimento della sua qualifica di iudex regio; infatti il 29 genn. 1155, proprio negli ultimi giorni del suo mandato consolare (la carica scadeva il 2 febbraio), egli pronunciò e sottoscrisse una sentenza contro i conti di Castelseprio con la formula "Ego Obertus iudex domini Frederici regis". L'analisi dell'atto processuale mostra come il D. non solo attribuisca valore alla consuetudine, ma si sforzi - in contrapposizione a quelli che saranno più tardi gli intendimenti imperiali - di non riconoscere valore alle antiche circoscrizioni amministrative comitali. I conti di Castelseprio pretendevano che i vicini del luogo di Ronago pagassero il fodro regio, come avrebbero dovuto fare tutti gli abitanti dell'antica contea del Seprio; i rustici invece si opponevano a tale richiesta affermando di non aver mai pagato. Giacché le parti non erano in grado di fornire prove accettabili, il D. cercò di chiarire se i conti possedessero sulla località honorem et districtum e, saputo che essi non erano titolari della signoria, assolse i rustici dal pagamento dei fodro, a patto che dodici di essi giurassero di non aver mai corrisposto ai conti il tributo.
Lo scontro avuto con l'imperatore determinò una certa crisi nella carriera politica del D., ma le basi del suo potere rimasero sostanzialmente inalterate, poiché il figlio Anselmo fu console di Giustizia nel 1155 e nel 1157 e console del Comune nel 1162, nel momento drammatico della distruzione e dell'assedio della città.
Durante il periodo della dominazione imperiale Anselmo accettò dal vicario dell'imperatore, Marcoaldo di Grumbach, di far parte della commissione cui competeva l'incarico di formare i ruoli per la riscossione dei tributi destinati all'Impero (inverno 1164-1165). Tale ufficio lo rese odioso ai Milanesi e da quel momento Anselmo non ricoprì più cariche politiche nelle magistrature cittadine, ma il suo posto fu preso dal D., che esercitò di nuovo la magistratura consolare nel 1169, al momento della ricostruzione della città. A lui si deve la stesura di due libelli per la difesa degli interessi milanesi nella controversia per la definizione dei confini con Como a proposito della spartizione tra le due città dei territori degli antichi comitati del Seprio e di Lecco. Due anni più tardi (1171) il D. fu per l'ultima volta console e con i colleghi ordinò la ricostruzione delle mura, delle torri e delle porte. di Milano; i cittadini immortalarono il suo nome su di una lapide che fu posta sul muro di porta Romana.
Morì il 16 apr. 1175; la notizia è confermata nel verbale d'una causa civile, discussa il 16 luglio del medesimo anno, tra l'abate di S. Ambrogio ed i consoli dei pascoli di porta Vercellina: i giudici ricordarono infatti una sentenza del "quondam Obertuin iudicem. qui dicebatur de Orto".
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