NUTRIZIONE
(XXV, p. 85; App. IV, II, p. 631)
Nel significato attualmente riconosciuto dalla comunità scientifica il termine n. comprende lo studio della funzione biologica degli alimenti e dei loro costituenti macronutrienti (proteine, lipidi e carboidrati) e micronutrienti (vitamine e minerali). Il concetto si estende alla loro utilizzazione digestiva e metabolica, alle condizioni di vita fisiologica (accrescimento e sviluppo, efficienza fisica e comportamentale nelle differenti età) e fisiopatologica (difesa nei confronti delle infezioni, delle malattie degenerative e dei tumori).
Di conseguenza, come per l'alimentazione, con cui la disciplina specularmente s'integra, nel mettere l'una e l'altra a fuoco la risposta dell'organismo alla quantità e alla qualità del cibo assunto, le metodologie di ricerca e le conoscenze acquisite riguardo la n. si collocano al centro di un sistema reticolare all'interfaccia con problematiche inerenti ad altre scienze biomediche e non, principalmente quelle ambientali e socio-economiche. In tale contesto, poiché il tramite alimento-nutriente costituisce uno dei più importanti modulatori ambientali, l'impatto delle interrelazioni fra genotipo, fenotipo e fattori ambientali, sia favorevoli sia sfavorevoli, risulta determinante (v. fig. 1) per lo sviluppo, la salute e la speranza di vita. Chiaramente, in così vasto e articolato campo, importanti questioni sono emerse all'attenzione negli ultimi anni. Fra queste meritano particolare segnalazione le seguenti.
Metodologie di ricerca. − La questione chiave è di ''metodo'' e, pur essendo comune ad altri settori della ricerca, assume particolare significato per la n., proprio per le interconnessioni tipiche della materia. Lo sviluppo degli studi di base è essenziale per la comprensione di meccanismi e processi, tenuto conto che la n. costituisce, come accennato, solo uno, anche se molto importante, dei vari fattori ambientali in gioco. In questo senso è sempre da ricordare l'ammonimento rivolto da H. Munro (1986) ai nutrizionisti: back to basics (cioè tornate alla ricerca di base).
Tuttavia i modelli sperimentali (per es. quelli che fanno ricorso a colture cellulari, a tessuti od organi isolati, a modelli animali di laboratorio, ecc.), se consentono di testare attentamente ogni ipotesi, prescindono dall'estrapolazione dalle condizioni di vita dell'uomo. D'altro canto, i rilevamenti, le osservazioni e gli studi epidemiologici su gruppi umani in situazione di alimentazione controllata e/o di vulnerabilità, pur offrendo potenzialmente immediata evidenziazione dello stato di n. e di salute e dell'esposizione a fattori di rischio, forniscono elementi soltanto indiretti di valutazione sulle cause e sui meccanismi dei disturbi metabolici o delle malattie. Essi indicano, infatti, la semplice associazione fra agente di rischio ed eventi che coinvolgono la salute. Di conseguenza, poiché né l'uno né l'altro metodo di approccio appaiono sufficienti per sé o apparentemente prioritari perché dotati di maggiore ''densità scientifica'', è indispensabile operare affinché entrambi gli indirizzi di ricerca siano congiuntamente sviluppati e confrontati al fine di una valutazione integrata dei risultati. È da tener presente, poi, che nella complessa problematica, al di là dei classici modelli della ricerca sperimentale, particolare rilevanza ha assunto in questi ultimi anni l'applicazione alla n. della biologia cellulare e molecolare.
Essa consiste sostanzialmente nella possibilità di affrontare lo studio dei più fini meccanismi e processi che regolano le funzioni metaboliche, contribuendo quindi, singolarmente e/o complementarmente, a ottenere informazioni di particolare interesse per le importanti ricadute come: individuazione di nuovi parametri di valutazione di squilibri nutrizionali; interferenze di fattori antinutrizionali o xenobiotici; qualità nutrizionale e sicurezza d'uso (specialmente di nuovi alimenti); sintesi di particolari proteine o altre molecole con funzioni di trasporto, metaboliche o di risposta immunitaria; interazioni radicali liberi-antiossidanti, al fine della protezione dal danno ossidativo e perossidativo, ecc. (v. anche alimentazione: Sicurezza alimentare; alimenti non convenzionali; radicali liberi: Patologia, in questa Appendice).
Meccanismi di adattamento del metabolismo energetico. − Un altro fondamentale e attuale aspetto della n. umana riguarda il problema dell'energia. Lo studio dei meccanismi di adattamento, atti a raggiungere l'equilibrio energetico in differenti condizioni di bilancio, si colloca infatti al centro di un ampio spettro di interazioni e ripercussioni con la capacità di lavoro fisico; con il sovrappeso e l'obesità e le conseguenti complicanze (dalle malattie degenerative, come arteriosclerosi e diabete, al cancro); con l'efficienza e la durata della vita attiva; e infine, per quanto attiene alla politica alimentare, con la copertura delle necessità nutrizionali dei paesi in via di sviluppo, settore in cui la comunità scientifica internazionale è impegnata.
Nutrizione e invecchiamento. − Nei paesi economicamente sviluppati dell'Occidente, gli anziani tendono a divenire una frazione sempre più consistente della popolazione (si prevede da 1/5 a 1/4 della popolazione intorno al 2000). Affinché la maggiore longevità si accompagni − diversamente da quanto oggi prevalentemente si verifica − a una soddisfacente qualità di vita, fondamentale è il ruolo della n. nei processi d'invecchiamento. Lo scopo sta nell'individuare misura e variazioni delle necessità nutrizionali allorché tessuti e organi invecchiano, concentrando la ricerca sui meccanismi per cui invecchiano.
Particolare attenzione è quindi rivolta ai bisogni nutrizionali in funzione dell'avanzamento dell'età e all'influenza della dieta sui processi d'invecchiamento, seguendo linee prioritarie di studio come: 1) effetti della n. e dell'esercizio sul decadimento funzionale degli organi in rapporto all'età, con particolare riguardo al sistema nervoso centrale, alle difese immunitarie, alla prevenzione e al trattamento dei relativi disturbi; 2) interazioni fra i vari nutrienti e i farmaci più frequentemente usati sugli anziani; 3) metodi e standard da sottoporre a test specificamente in funzione dell'avanzamento dell'età per monitorare e valutare stato e necessità nutrizionali degli anziani. Infatti, anche se negli standard raccomandati − per es. le RDA (Recommended Dietary Allowances) statunitensi e i LARN (Livelli di Assunzioni giornalieri Raccomandati di Nutrienti per la popolazione italiana) − non sono ancora indicati livelli differenti di assunzione fra adulti sopra 24 anni e oltre 65, una crescente messe di osservazioni sostiene la necessità di specifici apporti nutrizionali in vecchiaia, tenuto conto della perdita di massa magra e del ridotto livello di attività. Ciò implica la diminuzione della razione energetica ma, nello stesso tempo, la necessità di una maggiore densità nutrizionale della dieta, soprattutto nelle donne, in ragione dei più bassi livelli di apporto calorico. Per quanto, poi, riguarda in particolare i micronutrienti, appare necessario un maggior apporto di vitamina D con gli alimenti, per assicurare un appropriato assorbimento del calcio e prevenire l'osteoporosi. Nella vecchiaia, infatti, si è meno esposti alla luce solare che rappresenta la principale fonte di questa vitamina, poiché ne stimola la sintesi cutanea. I vecchi sembrano inoltre richiedere più vitamina B6 o comunque risultare più sensibili alla sua deplezione, i cui effetti neurologici e immunologici risultano reversibili dopo somministrazione, appunto, di supplementi di tale vitamina. Per di più, dato che il 30% della popolazione sopra i 65 anni soffre di gastrite atrofica (tale percentuale raggiungerebbe il 40% sopra gli 80 anni), la ridotta acidità gastrica che ne consegue interferirebbe sulla biodisponibilità di nutrienti chiave − come vitamina B12, acido folico, calcio e ferro − e appare necessario arricchire la dieta di questi fattori.
Diverso è il caso della vitamina A, per la quale vale la regola ''il meno è meglio che il troppo''. Nei vecchi la scomparsa di vitamina A dal sangue e dai tessuti è infatti rallentata. Di conseguenza, apporti superiori ai fabbisogni potrebbero risultare nocivi. Risulterebbe vantaggioso, per contro, un maggior apporto di vitamine E e C, entrambe fattori antiossidanti. Per la prima è stato dimostrato un effetto positivo sul sistema immune, anche se non è chiaro se lo stimoli o ne prevenga il declino. Un più elevato apporto di vitamina C, a sua volta, sembra aumentare la protezione nei confronti dello sviluppo di cataratta e innalzare il colesterolo HDL ad azione protettiva (v. colesterolo, in questa Appendice). In definitiva, per prevenire turbe nutrizionali, particolarmente in situazioni di alimentazione povera (provocata da condizioni sociali come solitudine e basso reddito, oltre che dal declino dell'acutezza dei sensi come odorato e gusto e, quindi, da scelte alimentari incongrue), appare effettivamente conveniente innalzare la densità nutrizionale della dieta in vecchiaia.
Biodisponibilità dei nutrienti. − L'ipotesi che il valore nutrizionale di un alimento o di una dieta possa essere espresso sulla base del rispettivo contenuto in nutrienti, analizzato con puri metodi chimici, appare oggi confutata dalla constatazione del divario esistente tra il contenuto totale del nutriente ingerito e la misura in cui esso è effettivamente utilizzato dall'organismo. Di fatto, condizione indispensabile perché un nutriente sia in grado di essere utilizzato − e quindi considerato fisiologicamente disponibile- è che esso sia presente nella dieta o in forma di molecola assorbibile talquale (per es. glucosio, aminoacidi) attraverso la mucosa intestinale, o in forma di molecola assorbibile dopo digestione in senso stretto (per es. amido, proteine) e che, infine, il nutriente sia assorbito in una forma utilizzabile nel normale metabolismo. La nozione di assorbimento non è quindi sinonimo di biodisponibilità, perché alcuni costituenti, pur assorbiti, non entrano nel metabolismo (per es. lo xilitolo) e quindi sono nutrizionalmente ininfluenti.
La biodisponibilità di un nutriente si definisce quindi come la percentuale di nutriente ingerito che può essere digerito, assorbito e utilizzato. È così evidente come la sua conoscenza sia fondamentale ai fini della valutazione del fabbisogno dei nutrienti e per la corretta indicazione dei relativi livelli di assunzione, costituendo l'obiettivo centrale nello studio della relazione tra composizione della dieta e risposta nutrizionale dell'organismo.
Il termine ''disponibile'' fu introdotto inizialmente per distinguere quelle classi di carboidrati idrolizzati dagli enzimi dell'apparato digerente dell'uomo (zuccheri solubili, amido e destrine) da quelle che non vengono idrolizzate (emicellulose, cellulosa, pectine) e che sono costituenti della fibra alimentare (questa era infatti definita come "l'insieme dei polisaccaridi e della lignina non digeriti dagli enzimi dell'apparato digerente umano"). Estesa alle proteine, o meglio all'azoto contenuto e ai singoli aminoacidi, mediante la messa a punto di specifiche metodologie in vivo e in vitro, tale impostazione ha reso possibile valutarne la biodisponibilità sia in alimenti singoli sia in diete, con particolare riguardo alla lisina che, per le sue caratteristiche chimiche, nel corso soprattutto dei processi termici, può andare incontro a reazioni che ne modificano in misura sovente notevole l'utilizzazione biologica.
Il divario tra contenuto totale ingerito e quantità effettivamente utilizzata dall'organismo appare, d'altro canto, particolarmente elevato per i minerali: si calcola infatti che per i modelli alimentari di tipo occidentale i valori di biodisponibilità si collocano appena fra il 10÷20% per il ferro, il 20÷40 % per lo zinco, il 30÷40% per il calcio. L'intera problematica comunque è ancora aperta per quanto riguarda sia i meccanismi in gioco sia le metodologie di studio. Tra l'altro, alle tecniche tradizionali della fisiologia intestinale e metabolica della digestione in vitro sembra affiancarsi l'uso di modelli di cellule intestinali in coltura, il che, ai fini della predittività rispetto alla situazione in vivo, e in particolare a quella umana, offre interessanti prospettive.
La biodisponibilità è quindi un processo molto complesso che dipende sia dai fattori relativi all'alimento sia dai fattori relativi all'individuo. Tra i primi rientrano la forma chimica e il contenuto minerale, l'interazione con altri nutrienti, la presenza di fattori inibenti o stimolanti l'assorbimento, i trattamenti tecnologici subiti dall'alimento; tra i secondi rientrano tutti quei fattori più specificamente biologici che regolano l'assorbimento e la successiva utilizzazione del nutriente e che comprendono l'equilibrio nutrizionale della molecola in esame, le condizioni fisiologiche (accrescimento, gravidanza, ecc.) e, quindi, lo stato di salute. È chiaro perciò che la biodisponibilità di un nutriente, essendo fortemente dipendente dalle interazioni che hanno luogo nella fase precedente l'assorbimento, non è una proprietà del singolo componente nell'alimento, ma della dieta mista consumata.
In conclusione, i progressi della ricerca sulla n. hanno in larga misura ampliato i confini della materia, investendo, in particolare, le interazioni con altre branche della biologia e della medicina. In ogni caso, al di là della semplice copertura dei bisogni nei confronti di contingenti carenze, la n. viene oggi riconosciuta come uno dei fattori più importanti per la salute. In questo senso particolare significato assume lo studio del bilancio fra energia e nutrienti nei confronti di rischi da eccessi o squilibri.
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