Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del XIX secolo la famiglia del sistema solare si accresce enormemente. Viene scoperto un ottavo pianeta, Nettuno, sei nuovi satelliti e alcune centinaia di corpi minori, immediatamente battezzati pianetini e oggi noti con il termine di asteroidi.
Il XIX secolo si inaugura con l’importante scoperta di un monaco italiano, Giuseppe Piazzi, allora direttore dell’Osservatorio astronomico di Palermo: la notte del 12 gennaio 1801, mentre è intento alla compilazione di un catalogo stellare, osserva al telescopio un debole astro, non osservato in precedenza, nella costellazione del Toro. Piazzi torna a osservarlo nelle notti seguenti, registrandone posizioni leggermente differenti e il 23 gennaio si rende conto di aver scoperto un nuovo corpo celeste, appartenente al sistema solare, che battezza con il nome di Cerere nel momento in cui rende pubbliche le sue osservazioni.
Il matematico tedesco Carl Friedrich Gauss, abile calcolatore di orbite celesti, dimostra che Cerere si muove su un’orbita ellittica a una distanza intermedia tra Marte e Giove, mentre William Herschel , il più grande osservatore del XVIII secolo, dopo aver puntato su Cerere il suo potente telescopio, ne stima il diametro in appena 160 miglia. Cerere è dunque un membro del sistema solare ma di minuscole dimensioni, un “pianetino” come verrà chiamato in seguito e per lungo tempo (oggi viene definito, più propriamente, “asteroide”).
Il 28 marzo 1802, da Brema, Heinrich Wilhelm Matthias Olbers osserva un secondo pianetino, al quale dà il nome di Pallade: come dimostrano i primi calcoli, anche Pallade si muove alla stessa distanza di Cerere. Il 12 settembre 1804, Karl Harding scopre un terzo pianetino, poi denominato Giunone, mentre il 29 marzo 1807 ancora Olbers ne scopre un quarto, Vesta. Nella mente di questi studiosi si fa strada l’idea che i nuovi piccoli pianeti siano i frammenti di un pianeta più grande, esistito in un’epoca primordiale, poi spaccatosi nel corso di un immane cataclisma.
Questa ipotesi, subito condivisa dalla comunità astronomica internazionale, rimarrà in auge fino alla seconda metà del Novecento.
Per gli astronomi del XIX secolo, la scoperta dei pianetini sembra una brillante conferma di una legge empirica, stabilita nel 1771 dall’astronomo tedesco Johann Elert Bode – e che da lui prende il nome – secondo cui, ponendo uguale a dieci la distanza della Terra dal Sole, le distanze medie dei pianeti dal Sole crescono secondo una successione del tutto sorprendente. Le distanze medie assumono infatti i seguenti valori: Mercurio = 4,Venere = 7, Terra = 10, Marte = 16, Giove = 52, Saturno = 100, ovvero Mercurio = 0+4, Venere = 3+4, Terra = 6+4, Marte = 12+4, Giove = 48+4, Saturno = 96+4 e questo significa che i valori aggiunti al quattro sono in rapporto doppi l’uno rispetto all’altro, tranne il primo, nullo.
Del resto, anche la scoperta di Urano (1781) da parte di Herschel aveva collocato il nuovo pianeta a una distanza che risultava in perfetto accordo con tale successione (196 = 192+4).
Tuttavia, la successione si interrompe misteriosamente proprio tra Marte e Giove, dove avrebbe dovuto trovarsi un pianeta a una distanza pari a 28, cioè 24+4; ma con la scoperta dei pianetini, che si collocano a una distanza media dal Sole di poco inferiore al valore 28 della successione, la legge di Bode sembra uscirne ulteriormente confermata, facendo sospettare l’esistenza di un ordine armonico celato nella disposizione dei pianeti. Ben presto, però, questa curiosa regolarità viene contraddetta dalla scoperta dell’ottavo pianeta del sistema solare: Nettuno.
Nella prima metà dell’Ottocento, la previsione delle posizioni dei pianeti, della Luna e degli altri corpi del sistema solare è ormai giunta a un elevato grado di precisione. Dopo i notevoli progressi compiuti dalla meccanica celeste nel secolo precedente, gli astronomi dispongono finalmente di potenti e affidabili metodologie di calcolo per determinare con soddisfacente anticipo le traiettorie future di ogni corpo orbitante.
L’unica eccezione è rappresentata dal pianeta Urano. Da quando era stato scoperto (1781), infatti, gli astronomi non erano riusciti a effettuare una previsione dei suoi parametri orbitali che risultasse valida per più di dieci anni. Due le possibili spiegazioni: o la legge di gravitazione non agiva come stabilito fino a quel momento, e diventava quindi necessario qualche termine correttivo, oppure la legge manteneva immutata la sua validità generale e le anomalie di Urano dovevano essere imputate all’azione perturbatrice di un altro pianeta del sistema solare, rimasto sconosciuto fino a quel momento.
La maggior parte degli astronomi propende per questa seconda ipotesi: sin dai tempi di Newton, la legge di gravitazione aveva inanellato troppi successi perché a metà Ottocento si potesse ancora dubitare della sua universalità. D’altra parte, con la scoperta di Urano i confini del sistema solare si ampliavano enormemente e nulla ormai poteva impedire di pensare che i domini del Sole fossero ancora più estesi, e che un ottavo pianeta potesse muoversi oltre la già lontana orbita di Urano, influenzando la traiettoria di quest’ultimo. Del resto, la recentissima scoperta dei pianetini tra Marte e Giove suggeriva la possibilità di nuove scoperte, addirittura entro i limiti del sistema planetario conosciuto.
Alla ricerca del nuovo pianeta si dedica, in Francia, il giovane astronomo Urbain-Jean-Joseph Le Verrier. Il primo giugno del 1846, presentando un lavoro all’Accademia delle Scienze di Parigi, egli indica in quale posizione del cielo si sarebbe trovato il pianeta sconosciuto. Le Verrier, tuttavia, non ha modo di verificare se la posizione prevista è effettivamente occupata da un nuovo corpo celeste, perché non riesce a persuadere i suoi colleghi degli osservatori francesi a intraprendere un sistematico lavoro di ricerca. Così, il 18 settembre, Le Verrier scrive all’astronomo berlinese Johann Gottfried Galle (1812-1910) che immediatamente, nella prima notte d’osservazione – il 23 settembre 1846 – con l’aiuto del giovane studente Heinrich Louis D’Arrest, identifica il nuovo pianeta, poi battezzato Nettuno su proposta dello stesso Le Verrier e del Bureau des Longitudes (istituzione composta da studiosi responsabili del progresso delle osservazioni astronomiche e delle misurazioni geodetiche). Il nuovo membro del sistema solare appare al telescopio come un irrilevante puntino luminoso di ottava magnitudine, disperso fra una miriade di puntini analoghi, ma la sua scoperta è possibile confrontando la zona di cielo osservata con rilievi precedenti della stessa zona.
Prima della sua scoperta il pianeta viene cercato anche in Inghilterra: nel settembre 1845 il giovane astronomo John Couch Adams (1819-1892) mostra un lavoro a James Challis (1803-1882), suo professore di matematica e astronomia a Cambridge, indicando in quale posizione del cielo dovrebbe trovarsi il pianeta sconosciuto. La posizione è sorprendentemente analoga a quella che Le Verrier indica autonomamente, alcuni mesi più tardi, nella sua memoria all’Accademia delle Scienze di Parigi. Sfortunatamente Challis consiglia al proprio allievo di rivolgersi al direttore dell’Osservatorio di Greenwich, Sir George Biddell Airy, che trascura le insistenze di Adams ad avviare un serio programma di osservazioni, nutrendo molti dubbi sulla possibilità di rilevare la posizione del pianeta sconosciuto. Solo nell’agosto del 1846, quando i Francesi sono ormai vicini alla soluzione, Airy incarica Challis di cercare il pianeta, ma quando questi inizia a lavorare è ormai tardi per recuperare il tempo perduto.
Abbastanza curiosamente, alcune delle ipotesi condotte da Le Verrier e Adams sulle tracce di Nettuno sono errate; tra queste l’idea che il nuovo pianeta si trovi a una distanza dal Sole in accordo con la legge di Bode (Urano è in realtà più vicino di quanto prevede questa legge empirica). Tuttavia, grazie a una certa dose di fortuna, le loro previsioni non sono troppo sbagliate; in effetti la posizione del pianeta, al momento della scoperta, dista meno di un grado da quella calcolata, e questo fatto viene immediatamente salutato come il più grande trionfo ottenuto della meccanica celeste dai tempi di Newton e come la migliore conferma della validità generale della legge di gravitazione.
Nello stesso anno in cui Nettuno (1846) viene individuato, intorno al nuovo pianeta si osserva anche il suo satellite maggiore, Tritone. Il merito della scoperta va all’astronomo inglese non professionista William Lassel (1799-1880) che nel 1851, intorno a Urano, scopre i satelliti Ariel e Umbriel, i quali andranno a aggiungersi a Titania e Oberon, scoperti da Herschel nel 1787.
Anche la famiglia dei satelliti di Saturno si ingrandisce gradualmente: ai sette satelliti già noti all’inizio dell’Ottocento, ovvero Titano (Huygens, 1655), Giapeto (Cassini, 1671), Rea (Cassini, 1672), Dione e Teti (Cassini, 1864), Mima ed Encelado (Herschel, 1789), si aggiunge il satellite Iperione, scoperto nel 1848 dallo statunitense William Cranch Bond (1789-1858) in collaborazione con il figlio George Philips. Quarant’anni dopo, nel 1898, William Henry Pickering (1848-1938) scopre Febe.
Intanto, nel 1862, l’astronomo statunitense Asaph Hall (1829-1907) scopre i due satelliti di Marte, Deimos e Phobos; curiosamente la loro esistenza e il loro numero erano già stati ipotizzati nel Settecento, poiché era sembrato ragionevole pensare che, se la Terra ha un satellite e Giove quattro (quelli scoperti da Galilei nel 1610), Marte ne dovesse avere due.
Ma è proprio nell’Ottocento che i satelliti di Giove salgono a cinque: nel 1892 l’astronomo statunitense Edward Emerson Barnard scopre Amalthea, che si aggiunge così a Io, Europa, Ganimede e Callisto, i satelliti medicei di galileiana memoria.
Nel frattempo vengono scoperti moltissimi altri pianetini. Dopo che nel 1845 l’astronomo non professionista Karl Ludwig Hencke (1793-1866) scopre il quinto pianetino, Astrea, le scoperte si succedono a un ritmo sempre maggiore: nel 1890 sono noti già 300 pianetini, ma la vera svolta si ha nel 1891, quando il tedesco Maximilian Franz Joseph Wolf (1863-1932) introduce per la prima volta il metodo fotografico nella ricerca dei pianetini.
Tale metodo consiste nell’applicare una macchina fotografica al fuoco di un telescopio che segue il moto diurno apparente della sfera celeste: sulla lastra le stelle appaiono come immagini puntiformi, mentre eventuali pianetini appaiono come piccoli segmenti luminosi, a causa del loro moto proprio rispetto alle stelle. Con questo metodo Wolf scopre più di 200 pianetini.