Nuove fonti di energia per il lavoro
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Conosciuto fin dall’antichità, il mulino si diffonde nel Medioevo, divenendo il simbolo della meccanizzazione del lavoro. I continui perfezionamenti dal punto di vista tecnico ne consentiranno l’impiego nei più svariati campi di applicazione, dalla fabbricazione della birra a quella della carta, liberando l’uomo da molti dei lavori più pesanti.
Friedrich Klemm
Sviluppo tecnologico nel Medioevo
Il Medioevo è infatti più ricco di progressi tecnici di quanto comunemente si supponga. In particolare il Medioevo riuscì a rendere utilizzabile la forza bruta degli animali, dell’acqua e del vento in misura assai maggiore di quanto non era riuscita a fare l’antichità, che si era giovata in massima parte del lavoro degli schiavi. L’utilizzazione dell’energia del vento nei mulini era rimasta sconosciuta agli antichi, salvo forse per un progetto del I secolo d.C: dovuto a Erone di Alessandria, che aveva impiegato il vento per azionare la pompa di un organo. La trasformazione avvenuta nel Medioevo nel campo dell’utilizzazione delle fonti di energia significò un progresso tecnico di portata assai ampia, che si può paragonare, in tempi più moderni, soltanto all’introduzione della macchina a vapore nel XVIII secolo e all’utilizzazione dell’energia nucleare ai giorni nostri. Le conquiste tecniche del Medioevo, che gettavano le basi per lo sviluppo tecnico attuale, non possono essere qui illustrate da documenti dell’epoca. Tecnica vuol dire attività creatrice, e non sempre questa attività ha trovato descrizione in opere letterarie. Proprio per le questioni che più ora ci interessano manchiamo di sufficienti fonti scritte per il periodo del primo e dell’alto Medioevo. Dobbiamo pertanto utilizzare come fonti alcune rappresentazioni figurative dell’epoca.
F. Klemm, Storia della tecnica, Milano, Feltrinelli, 1959
Dal punto di vista della tecnologia meccanica il Medioevo non ha modificato la classificazione degli antichi fondata sui cinque elementi di base, leva, cuneo, vite, argano e carrucola, cui poi viene aggiunto il piano inclinato; in età ellenistica, alle diverse combinazioni tra questi dispositivi viene fatto risalire lo schema di tutte le macchine il cui funzionamento è riconducibile al principio della leva e alla teoria dei cerchi. Nell’Occidente medievale il vero mutamento avviene nel campo di una più efficace distinzione tra le macchine azionate dall’uomo e quelle messe in funzione da altre fonti di energia. Integrando sapientemente i meccanismi di base della tecnologia ellenistica, gli artigiani del Medioevo avviano il processo che avrebbe portato alla progressiva meccanizzazione della bottega dell’artefice.
Simbolo di questa rivoluzione è il mulino idraulico. L’antichità aveva già conosciuto questa macchina, cantata da Antipatro di Tessalonica, il quale celebrava la forza dell’acqua che aveva liberato le donne dal faticoso lavoro della macina.
Si trattava di un mulino a ruota verticale, presumibilmente come quello visto e descritto da Strabone nel palazzo reale di Mitridate, a Cabira nel Ponto. Più antico di questo era il mulino nel quale una costruzione in legno era collocata a cavallo di un piccolo corso d’acqua che faceva girare una ruota orizzontale il cui asse metteva in moto la macina. Il mulino descritto da Vitruvio nel decimo libro del De architectura era del tipo a ruota verticale e per funzionare aveva bisogno, rispetto al precedente, di un ingranaggio: la ruota esterna è solidale a un asse orizzontale che va a finire dentro il mulino, al di sotto di esso. Questo albero motore porta una seconda ruota dentata che si incastra in una lanterna, formata da due dischi di legno collegati da pioli. La coppia ruota dentata-lanterna trasmette il movimento di rotazione dal piano verticale della ruota a quello orizzontale della mola della macina permettendo, tra l’altro, di moltiplicare la velocità. Apparentemente più complicato da costruire, il mulino con la ruota verticale offre il vantaggio di poter essere colpito dall’acqua dall’alto, a un livello medio e anche dal basso. Le pale, dritte, curve oppure oblique, possono essere in numero e dimensioni variabili come anche la ruota che le porta. La più significativa costruzione di questo tipo è il complesso di Barbegal, vicino Arles, risalente alla tarda antichità: l’acqua vi giungeva portata da un acquedotto per poi essere separata in due canali che alimentavano altrettante file parallele di otto ruote l’una. Il dislivello era di oltre 18 metri per un’inclinazione di 30 gradi. Ogni mola macinava da 150 a 200 kg di grano l’ora. Si tratta di cifre di tipo industriale che non devono comunque farci dimenticare la contemporanea esistenza di molti mulini azionati da animali oppure da schiavi.
L’alto Medioevo non dimentica questa macchina: a Roma vi erano dei mulini sul Gianicolo, azionati dall’acqua portata dall’acquedotto di Traiano. Sono ancora in funzione nel 537, quando Belisario viene assediato dagli Ostrogoti, che li mettono fuori uso; raccontano le cronache che i tecnici di Belisario trasportarono ingranaggi e macine su una sponda del Tevere e, legate tra di loro due barche, vi posero in mezzo la ruota creando mulini galleggianti destinati a lunghissimo avvenire sui corsi dei fiumi maggiori e minori d’Europa.
Diffondendosi con buona velocità, il mulino ad acqua diviene uno dei segni caratteristici del paesaggio del Medioevo. Nella zona di Rouen nel XIII secolo vi sono oltre duecento mulini e il Domesday Book, una specie di censimento redatto all’epoca di Guglielmo I, riferisce per l’anno 1086 la presenza di 5624 mulini in Inghilterra, perlopiù concentrati lungo il Trent e la Severn.
Benché datato al XIII secolo, il documento in cui san Bernardo descrive i molteplici impieghi dell’acqua nel monastero di Clairvaux (Descriptio Monasterii Clarae vallis, Migne, Patrologia Latina, CLXXXV, coll. 570-571) getta luce sul raggiunto livello di meccanizzazione del lavoro: il fiume irrigava i campi e consentiva la manutenzione dei vivai; opportunamente deviato verso la parte del monastero in cui si trovavano le botteghe azionava la ruota del mulino mettendo in funzione le macchine per la produzione di birra, le gualchiere, le concerie e altre officine per poi uscire dal monastero portandosi via gli scarti delle varie lavorazioni.
Con fondamentali accorgimenti tecnici il movimento circolare del mulino viene trasformato in moto alternato: in questo modo l’energia dell’acqua viene impiegata non solo per macinare i cereali, ma anche per operazioni come follare le stoffe, produrre la birra, ridurre in polvere la corteccia della quercia, forgiare il ferro e fabbricare la carta. Dal punto di vista tecnico, l’intuizione di base è nella camma, il meccanismo grazie al quale nel lavoro del fabbro, per esempio, il martello veniva sollevato e poi lasciato ricadere sull’incudine, trasformando un movimento in partenza circolare in uno alternato. Probabilmente la tarda antichità aveva già conosciuto la camma, presente nella segheria di marmo azionata dalla corrente della Mosella e descritta da Ausonio nell’omonimo poema. È però in questo periodo che la camma entra nell’uso comune, portando alla meccanizzazione di una serie di attività in precedenza svolte da braccia umane.
La natura, grazie al sapiente utilizzo dell’energia idraulica, solleva l’uomo da lavori pesanti, assegnandoli alla tecnica. Proprio la fiducia riposta nella tecnica è alla base del progetto dei primi mulini a marea, detti “a ricircolo”.
Per funzionare dovevano essere installati nelle zone la cui conformazione permetteva di sfruttare fenomeni evidenti di alta e bassa marea. Un’area particolarmente felice da questo punto di vista era la laguna di Venezia, dove i primi mulini a ricircolo risalgono al Mille.
Girolamo Zanetti (Dell’origine di alcune arti principali appresso i Veneziani, 1758) ricorda gli “acquimoli” dei Veneziani, mulini costruiti su isole situate tra due bassifondi in modo da sfruttare l’alta e la bassa marea. Di questo tipo era anche uno dei mulini menzionati nel Domesday Book e situato all’entrata del porto di Dover. Costruiti in buon numero sulle coste dell’Atlantico, i mulini a marea venivano messi in funzione con l’ausilio di dighe a chiudere un’insenatura invasa dal flusso dell’acqua: quando il bacino era pieno la diga veniva chiusa e la marea discendente azionava le ruote.
Resta da dire, infine, del mulino a vento. Il vento nell’antichità classica sembra essere stato sfruttato esclusivamente come fonte di energia per le imbarcazioni. È vero che Erone di Alessandria immagina e descrive la costruzione di un mulinetto che, azionato dal vento, consente a un organo di suonare, ma non pare che questa intuizione abbia avuto seguito.
Prima che finisca il secolo XII il mulino a vento prende piede in Gran Bretagna, in Portogallo, nelle Fiandre, in Provenza, nella Francia del nord. Rispetto al mulino ad acqua, dal cui studio probabilmente scaturisce, quello a vento presuppone una diversa concezione da parte dei costruttori. Del mulino ad acqua restano la coppia delle mole e la ruota dentata che combina con la lanterna; il mulino a vento inverte questo schema e la mola viene spinta dall’alto invece che dal basso. La ruota a pale oblique costituisce il modello di partenza: le quattro pale cominciano a girare colpite dal vento solo ed esclusivamente se esse sono in quella posizione rispetto al piano. Poiché l’intensità del vento è varia, le pale venivano ricoperte da tele in modo da ampliare la superficie a seconda delle condizioni meteorologiche, non diversamente da quello che facevano i marinai con le vele delle imbarcazioni. Anche nei confronti dei repentini cambiamenti di vento si doveva porre rimedio. Il mulino a vento nasce con uno schema di base assai semplice, che ricalca in qualche modo il più antico tipo di mulino ad acqua.
La cabina di legno con le pale, infatti, è montata su una struttura di base robusta, ma tale da essere libera di ruotare, cosa che avviene grazie all’inserimento di una grossa trave fissata alla costruzione nel lato posteriore. È proprio agendo su questa trave che il mugnaio, imitando la funzione del timone girevole da poco introdotto nella navigazione, riesce a orientare il tutto secondo necessità. Nel complesso, il mulino a vento è un’opera di falegnameria dalla struttura semplice e funzionale che evolverà in alcune varianti. Alla fine del XIII secolo prenderà piede il mulino a torre con le mole posizionate all’interno di una costruzione cilindrica in pietra chiusa alla sommità da un tetto conico. Sono queste le due forme di base del mulino a vento, a partire dalle quali saranno introdotte ulteriori varianti regionali che non muteranno i principi che ne determinano il funzionamento.