Nuova disciplina delle condotte riparatorie
La necessità, sempre maggiormente avvertita, di modulare risposte ordinamentali differenti rispetto a reati di differente disvalore, ha determinato l’introduzione di nuovi istituti che rivisitano il tradizionale rapporto reato/pena. Sono stati traslati nel rito ordinario istituti già noti, come quello della messa alla prova per adulti e della non procedibilità per tenuità del fatto.
In questo contesto si colloca la nuova causa di estinzione del reato per condotte riparatorie, di cui all’art. 162 ter c.p., che sembra anch’essa rispondere alla necessità di deflazionare e differenziare la risposta penale all’illecito. Il contributo che segue costituisce una prima riflessione sulle linee fondanti del nuovo istituto, evidenziandone le criticità ed indicando le questioni che, nell’immediatezza, potranno porsi all’attenzione degli studiosi e degli operatori della giurisdizione.
2.5 Il termine per adempiere 3. I profili problematici 3.1 L’accertamento e la confisca 3.2 La nozione di profitto del reato (cenni) 3.3 Confisca di denaro e conto corrente bancario 3.4 Art. 162 ter c.p. e confisca per equivalente 3.5 La disciplina transitoria
L’art. 1 della l. 23.6.2017, n. 103, introducendo l’art. 162 ter c.p., ha previsto una nuova causa estintiva generale del reato; come emerge dai lavori preparatori, essa è funzionale a recuperare i tempi ragionevoli del processo penale, senza determinare la dispersione delle garanzie del giusto processo.
Con la estinzione del reato per condotte riparatorie si riafferma il principio di sussidiarietà del diritto penale, della pena e del processo, si soddisfano esigenze di deflazione e si valorizzano profili di rieducazione dell’imputato e di ricomposizione sociale dell’illecito e del ruolo della vittima1.
Si dubita che il nuovo istituto sia riconducibile al modello di giustizia riparativa in quanto, diversamente da questo, non pare trattarsi di un procedimento in cui la vittima, insieme con il reo e/o con altri soggetti o membri della comunità, partecipi attivamente alla «questione emersa dall’illecito»2.
Non diversamente, si tende a non ricondurre la causa di estinzione in esame alla “diversion”; l’istituto in esame prevede alcuni elementi tipici di questa, come, in particolare, l’obiettivo di evitare la celebrazione del processo e la inflizione della pena, la necessità di una condotta che implichi una deviazione dall’ordinaria sequenza della serie processuale di atti, la collaborazione attiva dell’interessato, ma se ne differenzia per l’assenza di uno specifico requisito, quale quello della partecipazione dell’imputato ad un programma non penale che preveda, oltre alla prestazione riparatoria o risarcitoria, specifici interventi funzionali alla sua risocializzazione3.
La scelta legislativa è invece simmetrica alla sollecitazione degli organismi internazionali di introdurre mezzi di intervento stragiudiziali, conciliativi, nonché prassi, discipline e leggi, per fare della restituzione una possibile soluzione delle vicende penali4.
La condotta riparatoria è nell’ordinamento penale comunemente intesa come un comportamento personale e volontario dell’imputato, posto in essere entro un dato termine, contrario all’illecito e volto a risarcire il danno o ad eliminare le conseguenze dannose e pericolose del reato5.
Nel sistema, la riparazione può attenuare la pena (art. 62 bis c.p.) o estinguere il reato (art. 35 d.lgs. 28.8.2000, n. 274; art. 162 bis c.p.; artt. 20 e ss. d.lgs. 19.12.1994, n. 758; artt. 341 bis e 376 c.p.; art. 181 d.lgs. 22.1.2004, n. 42; art. 1 del d.lgs. 11.4.2002, n. 61).
Nell’ambito delle condotte riparatorie ad effetto estintivo si collocano condotte ad efficacia generale, che si riferiscono, cioè, a predeterminate indistinte categorie di reato (art. 162 bis c.p.; art. 35 d.lgs. n. 274/2000), e condotte riparatorie ad efficacia speciale, che estinguono la singola fattispecie cui si riferiscono, e che conseguono a comportamenti strumentali alla eliminazione di situazioni di pericolo, alla rimessione in pristino, alla bonifica, alla restituzione
di quanto indebitamente preso (contravvenzioni in materia di sicurezza del lavoro, reati edilizi e, più in generale, in tema ambientale, guida in stato di ebbrezza ovvero sotto l’effetto di sostanze stupefacenti).
Si tratta di ipotesi disciplinate in modo non omogeneo, quanto al contenuto della condotta, al termine entro il quale questa deve essere compiuta, al ruolo della persona offesa, al modulo procedimentale in cui la condotta opera, ai poteri del giudice.
Giova a questo punto esaminare la struttura della nuova causa estintiva del reato in connessione con le principali problematiche che, in sede applicativa, possono porsi nella fase di esordio dell’istituto.
L’art. 162 ter c.p. disciplina una causa di estinzione per riparazione ad ambito applicativo generale, in quanto riferibile a tutti i reati a procedibilità condizionata a querela di parte soggetta a remissione.
Per perseguire le finalità già indicate, il legislatore avrebbe potuto prevedere l’applicabilità dell’istituto a tutti i reati individuati con riferimento a un determinato limite edittale di pena (come è stato fatto per l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p.) prescindendo dal regime di procedibilità, ovvero modificare il regime di procedibilità (da quella d’ufficio a quella a querela di parte) per tutti quei reati nei quali l’interesse privato alla riparazione dell’offesa e del danno è considerato parallelo a quello per una rapida definizione della “vicenda”, e prevalente rispetto all’interesse pubblico alla punizione del reo.
Il Parlamento ha scelto di muovere in questa seconda prospettiva, delegando il Governo ad adottare, nel termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge, decreti legislativi per la modifica della disciplina del regime di procedibilità, prescrivendo, nel caso di specie, la procedibilità a querela, in luogo di quella d’ufficio attualmente prevista, per reati contro la persona puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a 4 anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria – fatta eccezione per il delitto di cui all’art. 610 c.p., per il quale permane pertanto la procedibilità d’ufficio – e per i reati contro il patrimonio previsti dal codice penale, salva in ogni caso la procedibilità d’ufficio qualora ricorra una delle seguenti condizioni:
i) la persona offesa sia incapace per età o per infermità;
ii) ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale ovvero le circostanze indicate nell’articolo 339 c.p.;
iii) il danno patrimoniale arrecato alla persona offesa sia di rilevante gravità.
Dall’estinzione per condotte riparatorie sono dunque esclusi non solo i reati perseguibili d’ufficio, ma anche i reati perseguibili a querela che, per ragioni politico-criminali, il legislatore abbia ritenuto di sottrarre alla possibilità di remissione della querela stessa. Attualmente ciò accade, in base all’art. 609 septies, co. 3, c.p., per il delitto di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), semplice e aggravato ex art. 609 ter c.p., e per quello di atti sessuali con minorenne (art. 609 quater c.p.), nonché per il delitto di atti persecutori «commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma» (art. 612 bis, co. 4, c.p.).
Il nuovo istituto incide invece su reati per i quali il risultato estintivo può già conseguirsi attraverso il risarcimento del danno e la conseguente remissione di querela; la peculiarità, come si dirà in prosieguo, è tuttavia costituita dal fatto che, per i reati in questione, l’estinzione del reato non è nella disponibilità della persona offesa ed anzi si produce, in taluni casi, nonostante il dissenso di quest’ultima.
Dall’assenza di limitazioni oggettive all’operatività della nuova causa estintiva – il cui ambito applicativo è, come detto, perimetrato dalla perseguibilità del reato a querela soggetta a remissione – deriva l’applicabilità dell’art. 162 ter c.p. anche a reati lesivi di beni non solo patrimoniali, ma pure più strettamente personali.
È utile evidenziare come l’originaria previsione contenuta nel d.d.l. C. 2798 prevedesse espressamente l’estensione della causa estintiva anche ad alcuni specifici reati che, pur procedibili d’ufficio, si caratterizzano parimenti per essere lesivi di interessi spiccatamente patrimoniali; si prevedeva, in particolare, l’introduzione dell’art. 649 bis c.p. al fine di estendere l’applicazione della causa di estinzione anche a specifici delitti contro il patrimonio quali le fattispecie previste dagli artt. 624, anche nei casi aggravati di cui al primo comma dell’art. 625, nn. 2-4-6-8 bis, nonché dagli artt. 636 e 638 c.p. Tale previsione è stata poi eliminata nel corso dei lavori preparatori: l’ambito applicativo dalla causa estintiva in esame è rimasto quello previsto dall’art. 162 ter c.p.
Il risultato conseguito è, da una parte, l’applicabilità del nuovo art. 162 ter c.p. anche a reati lesivi di interessi non strettamente patrimoniali e, dall’altra, la sua non applicabilità a fattispecie offensive solo di beni giuridici patrimoniali.
La prestazione riparatoria ha ad oggetto l’intera riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e la eliminazione, ove possibile, delle conseguenze dannose o pericolose del reato medesimo.
Tra le due condotte non vi è alternatività, come dimostrato dalla presenza della congiunzione “e”, dovendo tali esigenze essere entrambe soddisfatte ai fini dell’operatività del meccanismo estintivo, sempre che in concreto si siano verificate conseguenze dannose o pericolose da eliminare e vi siano danni da risarcire, dovendosi ammettere la sufficienza di una sola delle due condizioni nell’ipotesi in cui l’altra sia oggettivamente inesistente.
Rispetto ad istituti già presenti nel sistema penale, che pure valorizzano i medesimi indici, oltre alla già evidenziata previsione congiunta (e non alternativa, come invece ad es. nella circostanza attenuante comune di cui all’art. 62, n. 6, c.p.) degli stessi, l’art. 162 ter richiede l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato tout court, e non pare attribuire rilievo all’ipotesi in cui esse siano solo attenuate ma non eliminate, come invece è previsto nel già citato n. 6 dell’art. 62 c.p., o negli artt. 12 e 17 d.lgs. 8.6.2001, n. 231, sulla responsabilità ex crimine delle persone giuridiche, o ancora nella sospensione condizionale “breve” ex art. 163, co. 4, c.p.
L’estinzione del reato è subordinata alla valutazione da parte del giudice dell’esito positivo delle condotte riparatorie. Si tratta di una formula generica: l’art. 162 ter non prevede parametri specifici sulla base dei quali compiere il sindacato, ed in tal senso sembra scontare una maggiore ambiguità rispetto a quella prevista dall’art. 35 d.lgs. n. 274/2000, in cui l’effetto estintivo discende da una condotta «idonea a soddisfare le esigenze di prevenzione e di riprovazione del reato».
Si pone la questione del coordinamento della nuova causa estintiva con quella prevista dal citato art. 35 del d.lgs. n. 274/2000.
Analogo tema si è posto in relazione al rapporto tra l’art. 131 bis c.p. e l’art. 34 del d.lgs. n. 274/2000, ed ha registrato il formarsi di due orientamenti giurisprudenziali contrapposti, la cui composizione è stata rimessa alle sezioni unite della Corte di cassazione (Cass. pen., S.U., udienza 22.6.2017).
Secondo l’orientamento ampiamente maggioritario, cui paiono aver aderito le Sezioni Unite, la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131 bis c.p., non è applicabile ai procedimenti relativi a reati di competenza del giudice di pace, per i quali troverebbe applicazione soltanto la disciplina speciale dell’art. 34 del d.lgs. n. 274/2000, che si inscrive nell’ambito della «finalità conciliativa» propria della giurisdizione penale del giudice di pace.
A tale orientamento si è contrapposto consapevolmente un indirizzo minoritario, secondo cui la causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131 bis si distinguerebbe strutturalmente dall’ipotesi di esclusione della procedibilità prevista dall’art. 34 del d.lgs. n. 274/2000; le differenze fra i due istituti, ed il carattere sostanzialmente più favorevole della norma codicistica, consentirebbero di ritenere quest’ultima applicabile, nel rispetto dei soli limiti espressamente indicati dalla norma, a tutti i reati, compresi quelli di competenza del giudice di pace.
Secondo tale impostazione, peraltro, non risponderebbe al criterio di razionalità non estendere l’istituto della non punibilità per la tenuità del fatto proprio a quelle fattispecie di minima offensività devolute alla competenza del giudice di pace.
Con riferimento alle condotte riparatorie, il rapporto fra causa estintiva generale di cui all’art. 162 ter e causa speciale prevista dall’art. 35 d.lgs. n. 274/2000 pare in realtà delinearsi in modo diverso; la questione attiene al se, per i reati procedibili a querela rimettibile attribuiti alla competenza del giudice di pace, vi siano ancora margini di applicabilità per la causa estintiva speciale, che impone all’imputato oneri più rigorosi rispetto a quelli previsti dal nuovo art. 162 ter c.p., dovendo l’interessato, solo per quella prevista dall’art. 35, “riparare” il danno da reato e dimostrare anche di aver “percepito”, rispetto al fatto commesso, l’efficacia rieducativa dell’istituto al fine di prevenzione generale e speciale. In effetti, diversamente da quanto prescrive la norma più risalente, il giudice, applicando il nuovo art. 162 ter c.p., non pare poter negare l’estinzione del reato in presenza dell’integrale ristoro del danno nel caso di reato commesso con modalità che rivelino una significativa capacità a delinquere dell’imputato ed una assai ridotta rieducazione del reo6.
Il tema è peraltro slegato da quello relativo alla valutazione della integralità e della esaustività della riparazione del danno e dei rimedi esperibili nel caso di declaratoria di estinzione del reato pronunciata nonostante il dissenso della persona offesa e sulla base dell’erroneo presupposto dell’avvenuta integrale riparazione.
La questione involge inoltre rilevanti profili processuali che attengono ai limiti di impugnabilità della sentenza, all’interesse dalla persona offesa – eventualmente costituita parte civile – ad impugnare la decisione agli effetti civili, ai rapporti fra l’accertamento compiuto dal giudice penale e l’efficacia extra penale della sentenza di estinzione del reato, ai sensi dell’art. 162 ter c.p.
L’art. 652 c.p.p. prevede espressamente, al co. 1, che solo la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento abbia efficacia dì giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato o nell’interesse dello stesso, sempre che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile, salvo che sia stata esercitata l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, co. 2. Tale disciplina costituisce una deroga al generale principio di autonomia e di separazione delle diverse giurisdizioni, e coerentemente la giurisprudenza di legittimità, sia penale che civile, esclude la possibilità di applicazione analogica della stessa oltre i casi espressamente previsti dell’efficacia preclusiva della sentenza di assoluzione7.
La regola contenuta nell’art. 652 c.p.p. va interpretata nel senso che la formula assolutoria deve fondarsi su di un effettivo e positivo accertamento del merito dell’accusa. Pare dunque sostenibile che la sentenza dichiarativa di estinzione del reato per condotte riparatorie, limitandosi ad accertare la integralità del risarcimento offerto ai soli fini dell’estinzione del reato, con valutazione operata allo stato degli atti, senza alcuna istruttoria e con sentenza predibattimentale, non rivesta autorità di giudicato nel giudizio civile per le restituzioni o per il risarcimento del danno e non produca, pertanto, alcun effetto pregiudizievole e preclusivo nei confronti della parte civile8.
Ne dovrebbe derivare che non sussiste l’interesse per la parte civile ad impugnare, anche ai soli fini civili, la sentenza emessa ai sensi dell’art. 162 ter, ancorché in ipotesi fondata sull’erroneo presupposto della avvenuta integralità del risarcimento del danno.
Non è difficile tuttavia prevedere che, nonostante l’assenza di parametri normativi di riferimento, il giudice finisca per correlare la valutazione sulla riparazione del danno a criteri di proporzionalità legati al fatto-reato, al grado della colpevolezza, alla personalità del reo, alle esigenze rieducative.
Il controllo giurisdizionale sulla riparazione del danno e sulla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato non sembra in concreto agevole, ove si prescinda da incursioni sul merito del processo; tale difficoltà è acuita dal fatto che, da una parte, la norma non consente al giudice di prendere visione del fascicolo delle indagini preliminari, e, dall’altra, non sono previste, a differenza di quanto disciplinato per la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, riferimenti normativi alla disciplina dell’archiviazione della notizia di reato.
Al fine di correlare l’estinzione del reato alla valutazione della «riparazione dell’intero danno», si prevede l’ascolto delle parti e della persona offesa; l’eventuale dissenso di quest’ultima non costituisce condizione ostativa all’operatività del meccanismo estintivo.
I poteri da riservare alla persona offesa sono stati oggetto di ampio dibattito in sede di lavori preparatori; si era infatti ipotizzato di condizionare l’operatività della fattispecie estintiva al consenso della persona offesa; si è ritenuto tuttavia che un simile potere di veto da parte della parte lesa avrebbe potuto condizionare in maniera eccessiva l’operatività della nuova causa estintiva. È disciplinato anche un modulo alternativo di riparazione: si prevede che «il risarcimento del danno può essere riconosciuto anche in seguito ad offerta reale ai sensi degli articoli 1208 e seguenti del codice civile, formulata dall’imputato e non accettata dalla persona offesa, ove il giudice riconosca la congruità della somma offerta a tale titolo».
Si è osservato come, pur essendo il campo di applicazione dell’istituto in esame funzionale alla definizione dei reati procedibili a querela soggetta a remissione, cioè a fatti rispetto ai quali è costitutiva la scelta legislativa di rimettere alla vittima la disponibilità della risposta penale, il reato, proprio in ragione delle concrete modalità con cui il giudice può addivenire alla pronuncia estintiva, finisce per assumere connotazioni di officiosità gestionale, atteso che, presentata la querela, il ruolo della parte offesa pare defilato ed accessorio, essendo rimessa esclusivamente al giudice la decisione sul se continuare o meno il processo.
In tal senso, è fondato affermare che la procedibilità condizionata dell’azione assume solo una funzione di selezione iniziale dei reati estinguibili ai sensi dell’art. 162 ter c.p.
Quanto al modulo principale, quello in cui si procede con l’audizione della persona offesa, l’oggetto del contraddittorio dovrebbe attenere non tanto alla verifica del fatto oggetto dell’imputazione ovvero al se, nel caso concreto, l’istituto abbia spiegato la sua efficacia rieducativa e special-preventiva, quanto, piuttosto, alla sussistenza delle condizioni per giungere alla declaratoria di estinzione del reato, cioè all’accertamento dell’avvenuta intera riparazione del danno ed alla eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato.
L’art. 162 ter non indica le modalità con cui debba avvenire l’audizione della persona offesa, né se tale audizione sia legata alla presenza della stessa persona offesa in udienza, o piuttosto se il contraddittorio possa realizzarsi in forma diversa e cartolare; non è specificato, inoltre, se sia ammissibile una informale acquisizione documentale volta a comprovare l’entità del danno e, quindi, a giustificare l’eventuale dissenso alla declaratoria di estinzione.
È sostenibile che le dichiarazioni della persona offesa, il cui contenuto deve comunque essere documentato, siano sottratte, quanto a modalità acquisitive, alla disciplina della formazione della prova dibattimentale e, quindi, non abbiano attitudine probatoria nel caso in cui il giudice ritenga di non emettere la sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato.
La nuova disposizione non fa riferimento alle conseguenze derivanti dalla mancata audizione, né specifica se l’omesso contraddittorio vizi la sentenza e possa costituire motivo di impugnazione, come è invece previsto dall’art. 464 quater, co. 7, c.p.p.; non è richiamato, per altro verso, l’art. 129, co. 2, c.p.p., la cui applicazione, considerati l’oggetto del sindacato, la base cognitiva del giudice e il momento processuale in cui si inserisce la verifica della condotta riparatoria, pare essere di dubbia applicazione.
Non è chiaro, inoltre, se, in caso di rigetto della richiesta, sia ancora consentito all’imputato di sollecitare la definizione del processo con riti alternativi: la questione nasce dalla coincidenza tra il termine finale per adempiere alla riparazione e quelli entro i quali possono essere chiesti i giudizi speciali.
Il testo normativo non contiene nessun riferimento alla forma del provvedimento con cui il giudice rigetta la richiesta di declaratoria di estinzione del reato, se debba essere un decreto o un’ordinanza, né, posto che si tratti di una ordinanza, se la decisione sia impugnabile ed, eventualmente, quale sia il mezzo di impugnazione9.
Si tratta di aspetti problematici che devono essere risolti in modo da garantire il massimo livello di accessibilità al nuovo istituto ed il conseguimento delle finalità deflattive che gli sono proprie.
Come detto, la decisione sulla richiesta di sentenza dichiarativa di estinzione del reato è fondata su una valutazione discrezionale e legata a profili di merito.
Nel vagliare la richiesta, il giudice, seppure in base ad un accertamento sommario, anticipa, nell’ambito di una sorta di sub-procedimento, valutazioni sul fatto, sull’autore, sulle conseguenze della condotta. L’anticipazione di tali valutazioni costituisce una novità nel sistema processuale, ma allo stesso tempo manifesta i limiti di un tale «accertamento»; ciò induce a ritenere che, rispetto ad un provvedimento di rigetto della richiesta che si fondi su una valutazione del danno palesemente erronea, ovvero sulla valorizzazione pretestuosa delle informazioni provenienti dalla persona offesa, l’imputato abbia interesse a contestare il provvedimento negativo del giudice.
In considerazione della finalità deflattiva e del connesso scopo rieducativo, la prestazione riparatoria deve essere compiuta entro il termine perentorio della dichiarazione di apertura del dibattimento.
La norma non chiarisce se, nonostante decorso il termine, l’imputato possa accedere all’istituto premiale nel caso di mutata qualificazione del fatto-reato che, da procedibile d’ufficio, diventi procedibile a querela rimettibile, ovvero di nuove contestazioni, ex artt. 516, 517 e 518 c.p.p. La questione, con riferimento alla causa estintiva prevista dall’art. 35 d.lgs. n. 274/2000, è stata affrontata dalla Corte costituzionale con la sentenza 13.7.2011, n. 206; la Corte ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., del «combinato disposto» dell’art. 516 c.p.p. e dell’art. 35 citato, nella parte in cui non prevedono «che, in caso di modifica del capo di imputazione nel corso del dibattimento, anche quando la nuova contestazione concerna un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero quando l’imputato abbia tempestivamente e ritualmente proposto la definizione anticipata del procedimento in ordine alle originarie imputazioni, l’imputato possa usufruire di quello che può essere considerato un vero e proprio rito alternativo, in quanto l’art. 35 … non consente l’ammissione al rito alternativo oltre l’udienza di comparizione».
Nel caso in cui dimostri di non aver potuto adempiere, per fatto a lui non addebitabile, entro il termine a lui assegnato, l’imputato può chiedere la fissazione di un ulteriore termine, che non può essere superiore a sei mesi, per provvedere anche in forma rateale al pagamento di quanto dovuto a titolo di risarcimento; è prevista in tal caso la sospensione del processo, cui consegue la sospensione del termine di prescrizione del reato.
La previsione presenta affinità evidenti con l’art. 35, co. 3, d.lgs. n. 274/2000, da cui tuttavia si differenzia perché l’art. 162 ter c.p. sembra avere un ambito applicativo più ristretto rispetto alla norma speciale nella parte in cui, per un verso, collega la concessione del termine al mancato pregresso adempimento per un fatto “non addebitabile” all’imputato, e, per altro verso, subordina la concessione dell’ulteriore termine (non superiore a sei mesi nell’art. 162 ter, mentre l’art. 35 citato prevede al massimo tre mesi) solo al risarcimento del danno e non anche all’eliminazione delle conseguenze del reato, laddove, invece, nella fattispecie disciplinata dall’art. 35, il periodo di sospensione del processo può essere disposto per eseguire le prestazioni risarcitorie e riparatorie previste dal primo comma della disposizione.
A seguito della proroga del termine, il giudice può imporre «specifiche prescrizioni»; si tratta di una previsione che richiama il contenuto dell’art. 28, co. 2,d.P.R. 22.9.1988, n. 448, ovvero l’art. 35, co. 3, d.lgs., n. 274/2000, o, ancora, l’art. 464 bis, co. 5, c.p.p.; si è fatto notare come, da una parte, la norma non indichi in cosa debbano consistere le prescrizioni giudiziali, e, dall’altra, come le eventuali prescrizioni debbano riferirsi all’eliminazione delle conseguenze del reato e non possano assumere una valenza latamente sanzionatoria, in quanto in tal modo l’istituto verrebbe snaturato e trasformato in una forma ibrida di messa alla prova10.
La previsione di prescrizioni sembra funzionale a garantire l’effettività della volontà di adempiere e, in particolare, la serietà della richiesta di differimento del pagamento ovvero la consistenza delle modalità con cui l’imputato propone la forma rateale del versamento.
Resta sullo sfondo la questione relativa alla eventuale inosservanza delle prescrizioni imposte.
Non pare esservi dubbio che l’inadempimento grave delle obbligazioni connesse alla concessione del nuovo termine infici la possibilità di ottenere la dichiarazione di estinzione del reato; il tema invece può assumere rilievo in caso di inadempimento parziale (interruzione temporanea dei pagamenti rateali, pagamenti parziali ma tempestivi seguiti da adempimenti successivi integrali; pagamenti tardivi ma integrali) ed attiene, da una parte, al se il giudice, pur di fronte ad un inadempimento parziale minimo possa dichiarare estinto il reato, e, dall’altra, al se, davanti ad un inadempimento parziale inidoneo ai fini della concessione del beneficio, possa valorizzare la prestazione parzialmente riparatoria ai fini della commisurazione della pena con riferimento al criterio fattuale della “condotta susseguente al reato” (art. 133, co. 2, n. 3 c.p.).
Si è visto fin qui come la stringata disciplina delineata dal legislatore ponga, specie sul versante della procedura per l’applicazione della nuova causa di estinzione del reato, numerosi interrogativi all’interprete.
Altri ve ne sono, e saranno qui sommariamente delineati, relativamente alle misure di sicurezza patrimoniali ed all’innesto della nuova disciplina nell’ambito dei procedimenti già aperti nel momento della relativa introduzione.
L’art. 162 ter, co. 2, ultima parte, richiama l’art. 240, secondo comma, c.p., stabilendone l’applicabilità.
Si tratta di definire i presupposti in presenza dei quali il giudice può disporre la confisca contestualmente alla pronuncia con cui, accertato l’esito positivo delle condotte riparatorie, dichiari la estinzione del reato.
Il richiamo al secondo comma dell’art. 240 esclude la possibilità di disporre la confisca facoltativa di cui al primo comma della stessa norma. Si tratta poi di verificare la possibilità di disporre la confisca cd. di valore in presenza di una pronuncia, quella con cui viene dichiarata l’estinzione del reato per condotte riparatorie, che non contiene un accertamento della responsabilità dell’imputato in ordine al reato in relazione al quale la riparazione è compiuta.
Restano sullo sfondo almeno due questioni che incidono in maniera rilevante sull’applicazione della norma contenuta nell’art. 162 ter e che vertono: i) sulla nozione di profitto del reato, con particolare riferimento al nesso di derivazione che deve sussistere fra vantaggio ed illecito; ii) su come debba essere qualificata la confisca avente ad oggetto le somme di danaro, con particolare riguardo a quelle depositate su conto corrente, atteso che, ove la misura ablatoria fosse in tal caso considerata diretta, essa sarebbe senza dubbio possibile, mentre, nel caso in cui fosse considerata di valore, presenterebbe, per le ragioni di seguito indicate, maggiore problematicità.
Quanto alla nozione di profitto, nella giurisprudenza della Corte di cassazione, anche a sezioni unite, erano stati individuati nel tempo una serie di stabili principi:
a) il profitto, per rilevare ai fini della disciplina della confisca, deve essere accompagnato dal requisito della «pertinenzialità», inteso nel senso che deve derivare in via immediata e diretta dal reato che lo presuppone (principio di “causalità” del reato rispetto al profitto);
b) tale collegamento diretto reato-profitto esiste anche rispetto ai cd. surrogati, cioè rispetto al bene acquisito attraverso l’immediato impiego/trasformazione del profitto diretto del reato, ma tale estensione del concetto di “pertinenzialità” trova il suo limite estremo in siffatto requisito di immediatezza (del reimpiego), che – in sostanza – ne garantisce la “riconoscibilità” probatoria;
c) in virtù del “principio di causalità” e dei requisiti di materialità e attualità, il profitto, per essere tipico, deve corrispondere a un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale del suo beneficiario ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica, sicché non rappresenta “profitto” un qualsivoglia vantaggio futuro, immateriale, o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali;
d) quanto al cd. profitto risparmio di spesa, esso avrebbe potuto assumere rilievo solo se inteso non in senso assoluto ma in senso relativo, presupponendo tale concetto un ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere; anche nel caso di profitto-risparmio sarebbe stato, cioè, necessario un risultato economico positivo concretamente determinato.
In tale articolato quadro di riferimento, si colloca Cass. pen., S.U., 30.1.2014, n. 10651 in cui è stata invece recepita una nozione quanto mai estesa di profitto funzionale alla confisca, capace di accogliere al suo interno «non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa» (nello stesso senso, Cass. pen., S.U., 24.4.2014, n. 38343).
Come intuibile, il recepimento di una tale nozione di profitto conduce ad un allargamento della sfera applicativa della confisca cd. di proprietà, idonea a colpire ogni utilità, anche indiretta e riflessa, derivante dal reato.
Dalla ricostruzione estensiva della nozione di profitto, e, in particolare, dalla possibilità di far rientrare in essa ogni utilità derivante dal reato, anche indiretta e mediata, le Sezioni Unite parrebbero essersi nuovamente allontanate in tempi più recenti, con una decisione (Cass. pen., S.U., 26.6.2015, n. 31617) che, pur facendo riferimento al cd. profitto accrescitivo, sembra aver riaffermato la necessità ai fini della individuazione della nozione di profitto che il vantaggio derivi in via diretta ed immediata dal reato.
Si tratta di questione che per la sua portata non può essere trattata compiutamente in questa sede, in cui invece ci si limiterà a brevissimi cenni.
Le sezioni unite della Corte di cassazione avevano affrontato il tema del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta di somme di denaro costituenti “profitto del reato”, affermando che il sequestro deve ritenersi ammissibile sia quando la somma si identifichi proprio in quella che è stata acquisita attraverso l’attività criminosa, sia ogni qual volta vi siano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di occultare. La Corte (sent. 24.4.2004, n. 29951) ritenne che la fungibilità del denaro e la sua funzione di mezzo di pagamento non impongono che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, bensì la somma corrispondente al loro valore nominale, ovunque rinvenuta, purché sia attribuibile all’indagato; si sottolineò, tuttavia, con chiarezza, che anche per il denaro deve pur sempre sussistere il rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale, tra il “bene” sequestrato ed il reato del quale costituisce il profitto illecito (utilità creata, trasformata od acquisita proprio mediante la realizzazione della condotta criminosa). Secondo le Sezioni Unite: i) la fungibilità del bene non può sostituire il giudizio di relazione fra res e reato, che funge da presupposto per la confisca diretta; ii) per confiscare in via diretta le somme di danaro disponibili su un conto corrente bancario, occorre provare che il denaro provento del reato sia stato depositato in banca; iii) nessun automatismo può essere consentito anche nei casi in cui il profitto è costituito da un risparmio di spesa.
Si tratta di un orientamento rivisitato in senso critico dalla già citata sentenza n. 10651/2014, secondo cui, invece, quando si tratta di denaro o di beni fungibili, la confisca non è qualificabile per equivalente, ma diretta, e, soprattutto, non è subordinata alla verifica che le somme confiscate provengano dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell’indagato, in quanto il denaro oggetto di ablazione deve solo equivalere all’importo che corrisponde per valore al prezzo o al profitto del reato.
Sul tema le Sezioni Unite sono poi tornate con la pure citata sentenza n. 31617/2015, ribadendo che la confisca di somme di denaro depositate su conto corrente bancario costituenti prezzo o profitto (accrescitivo) del reato deve essere qualificata come confisca diretta.
Chiarito quindi che, allo stato attuale della giurisprudenza, la confisca di denaro deve essere considerata come confisca diretta, con conseguente possibilità di disporla anche in occasione della declaratoria di estinzione del reato per condotta riparatoria, atteso il richiamo da parte dell’art. 162 ter alla norma generale di cui all’art. 240, co. 2, c.p., il tema attiene alla cd. confisca di valore.
Sul punto, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno chiarito come tale forma di confisca assolva ad una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione, che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza.
Pare quindi assai dubbio che, in assenza dell’accertamento della responsabilità dell’imputato, possa disporsi la confisca per equivalente con la pronuncia che dichiara l’estinzione del reato ai sensi dell’art. 162 ter c.p.11.
L’art. 162 ter c.p. prevede norme di diritto transitorio volte a disciplinare l’applicazione della nuova causa di estinzione del reato nei procedimenti in corso per i quali, alla data di entrata in vigore della novella, sia già stato dichiarato aperto il dibattimento.
Si stabilisce come principio generale che le disposizioni dell’art. 162 ter si applicano anche ai processi pendenti e che il giudice dichiara l’estinzione anche quando le condotte riparatorie siano compiute oltre il termine della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.
L’imputato, nella prima udienza, fatta eccezione per quella del giudizio di legittimità, successiva alla data di entrata in vigore della l. n. 103/2017, può chiedere la fissazione di un termine, non superiore a sessanta giorni, per provvedere alle restituzioni, al pagamento di quanto dovuto a titolo di risarcimento e all’eliminazione, ove possibile, delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Nella stessa udienza l’imputato, qualora dimostri di non poter adempiere, per fatto a lui non addebitabile, nel termine di sessanta giorni, può chiedere al giudice la fissazione di un ulteriore termine, non superiore a sei mesi, per provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento.
In considerazione del dato normativo di cui ai co. 2 e 3 dell’art. 1 della l. n. 103/2017, si pone la questione del se il nuovo istituto trovi applicazione anche ai procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione.
Si potrebbe sostenere che l’avere la norma espressamente escluso la possibilità per l’imputato di chiedere un termine per provvedere sia sintomatico della impossibilità di applicare il nuovo istituto nel corso del giudizio di legittimità. Si tratta però di una interpretazione non univoca, in quanto il dato normativo non pare escludere la possibilità per la Corte di cassazione di rilevare e dichiarare la causa estintiva già integralmente realizzata, quanto, piuttosto, quella di richiedere una sospensione del processo per eseguire la condotta riparativa.
La disciplina potrebbe essere interpretata nel senso che il co. 2 dell’art. 1 della legge di riforma esplicita il principio della generalizzata applicabilità del nuovo istituto a tutti i processi in corso e, quindi, anche a quelli pendenti in Corte di cassazione al momento della entrata in vigore del nuovo art. 162 ter c.p., mentre il successivo co. 3 disciplina il modo con cui il nuovo istituto può essere applicato ai processi pendenti, e, in tale contesto, esclude, a differenza che per i giudizi di merito, che nel giudizio per cassazione l’imputato possa chiedere un termine per adempiere.
Resta sullo sfondo il tema, più generale, del se la causa di estinzione del reato possa essere rilevata anche in presenza di un ricorso inammissibile.
Non potendo in questa sede affrontare compiutamente la questione, pare sostenibile che l’inammissibilità del ricorso non precluda alla parte di dedurre la sussistenza della sopravvenuta causa di estinzione del reato a condizione che la novella sia intervenuta dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello, in tal modo rendendo applicabile la previsione dell’art. 609, co. 2, c.p.p. Su questa premessa, ove la Corte fosse in grado di apprezzare direttamente la sussistenza dei requisiti per l’integrazione della nuova fattispecie, dovrebbe rilevare l’estinzione del reato ai sensi dell’art. 129 c.p.p.
Ulteriore questione è quella del come la Corte di cassazione possa compiere la valutazione relativa all’adeguatezza delle condotte riparatorie. La problematica, invero, si è già posta in modo non dissimile con riferimento all’istituto della non procedibilità per tenuità del fatto ed è stata risolta dalla Cassazione affermando la necessità che i presupposti per l’applicabilità della causa di non punibilità emergano dall’accertamento di merito compiuto nelle precedenti fasi di giudizio12.
1 Sul tema della riparazione del danno e della causa di estinzione per riparazione, Bartoli, R., Estinzione del reato per condotte riparatorie, in Il Giudice di pace nella giurisdizione penale, a cura di G. Giostra, G. Illuminati, Torino, 2001, 378 e ss.; Donini, M., Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, in Dir. pen. cont. ‒ Riv. trim., 2015, fasc. 2; Fondaroli, D., Illecito penale e riparazione del danno, Milano, 1999, 165 e ss.; Murro, O., Riparazione del danno ed estinzione del reato, Padova, 2016.
2 In tal senso, cfr., raccomandazione n. 99 del 1999, concernente la mediazione in materia penale elaborata, dalle Nazioni Unite nel corso del X Congresso sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti.
3 Murro, O., Condotte riparatorie e estinzione del reato: verso l’introduzione dell’art. 162 ter c.p., in Marandola, A.- La Regina, K.-Aprati, R., a cura di, Verso un processo penale accelerato, Napoli, 2015, 3 ss.
4 In tal senso, raccomandazione del Consiglio d’Europa REC (2003)20 e direttiva 2012/29/UE.
5 Murro, O., Condotte riparatorie e estinzione del reato, cit., 3 ss.
6 Sul tema, quanto alla causa di estinzione prevista dall’art. 35 d.lgs. n. 274/2000, Cass. pen., S.U., 23.4.2015, n. 33864.
7 Cass. pen., S.U., 21.1.2011, n. 1768; Cass. pen., S.U., 27.5.2009, n. 12243.
8 In tal senso, con riferimento alla causa estintiva prevista dall’art. 35 d.lgs. n. 274/2000, Cass. pen., S.U., n. 33864/2015.
9 Sul tema, con specifico riferimento alla messa alla prova, Cass. pen., S.U., 31.3.2016, n. 33216.
10 Così Murro, O., Condotte riparatorie ed estinzione del reato, in Diritto on line Treccani, 2017.
11 Cfr. Cass. pen., S.U., 26.6.2015, n. 31617.
12 Cass. pen., S.U., 25.2.2016, n. 13681.