numero
All'accezione più comune, secondo la quale il termine designa una cifra, vanno ricondotte 'quasi tutte le occorrenze della Vita Nuova, con riferimento pressoché esclusivo al n. nove (v.). A parte il fatto ‛ maraviglioso ' che nell'elenco di sessanta le più belle donne di Firenze in alcuno altro numero non sofferse lo nome de la mia donna stare se non in su lo nove (VI 2), considerato il frequente ricorrere de lo numero de lo nove nella Vita Nuova, e l'importanza che ne la sua [di Beatrice] partita cotale numero pare che avesse, D. si propone di spiegare per che questo numero fue a lei cotanto amico (XXVIII 3): Nel capitolo successivo avanza l'ipotesi che questo numero fue amico di lei per dare ad intendere che ne la sua generazione tutti e nove li mobili cieli perfettissimamente s'aveano insieme [XXIX 2; un'altra occorrenza nello stesso paragrafo]... ma più sottilmente pensando... questo numero fue ella medesima, secondo una similitudine fra lo numero del tre che è la radice del nove, e la Trinità: onde si conclude che ella era uno nove, cioè uno miraculo (§ 3, dove il termine ricorre altre due volte; al § 1 lo perfetto numero è il dieci).
Ancora in quest'accezione le occorrenze di Cv II III 17, XIV 2, 3 e 4; si aggiunga il sintagma ‛ esser sul n. di ' per indicare il posto che si occupa in una data serie: quella ch'è sul numer de le trenta (Rime LII 10), cioè al trentesimo posto, sarebbe la " donna del primo schermo " (Barbi-Maggini, che respingono l'interpretazione del Di Benedetto, il quale intenderebbe n. come " gruppo "; vedi tutta la nota ad l., anche in relazione al passo di Vn VI 2, citato; cfr. inoltre " Bull. " IV [1896-97] 160, e IX [1901-02] 30). Anche in Pd XXVIII 36 il termine vale " numero d'ordine " (Scartazzini-Vandelli); ognuno dei cerchi rappresentanti i cori angelici più tardo si movea, secondo ch'era / in numero distante più da l'uno.
In Cv II XIII 16 li loro subietti sono tutti sotto alcuno numero considerati, e ne le considerazioni di quelli sempre con numero si procede, D. si riferisce ai " subietti delle scienze del Trivio e del Quadrivio [che] sono appunto considerati sotto il numero tre e quattro, e quindi sotto il sette... A sua volta nella considerazione e trattazione dei singoli subietti si procede con numero di divisioni, sottodivisioni di libri, capitoli... ecc. " (Busnelli-Vandelli). Nelle altre occorrenze dello stesso capitolo, n. assume valori diversi: lo corpo mobile... ha in sé ragione di continuitade, e questa ha in sé ragione di numero [" quantità "] infinito; e la sua considerazione... è considerare li principii de le cose naturali, li quali sono tre, cioè materia, privazione e forma, ne li quali si vede questo numero [" cifra ", § 17]. Non solamente in tutti insieme, ma ancora in ciascuno è numero... per che Pittagora... [considerava] tutte le cose esser numero (" entità matematica ", come nell'occorrenza precedente, § 18; altre due volte al § 19). Si veda anche III IX 6, dove il n., come " quantità ", è compreso fra le cose che sensibili [comuni] si chiamano, cioè la figura, la grandezza... lo movimento e lo stare fermo.
In Cv IV II 6 D. riferisce la definizione aristotelica di tempo: Lo tempo, secondo che dice Aristotile nel quarto de la Fisica, è " numero di movimento, secondo prima e poi "; e " numero di movimento celestiale ", dove n. sta per " atto del misurare, del numerare " (cioè la numeratio). In Phys. IV 11, 219b 1-2 Aristotele così definisce il tempo: " Hoc est enim tempus, numerus motus secundum prius et posterius ", cioè la " numerazione " o " misura " del movimento di traslazione nel suo succedersi secondo un prima e un poi. Il movimento di traslazione secondo cui si misura il tempo è quello delle sfere celesti; di qui la seconda definizione del tempo come " misura " del moto celeste (cfr. Phys. IV 14, 223b 12 ss.).
Con preciso riferimento alla natura ‛ infinita ' del n., nell'immagine dell'avaro, il quale non s'accorge che desidera sé sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere (Cv III XV 9; cfr. Rime CVI 72 Corre l'avaro... / oh mente cieca, che non pò vedere / lo suo folle volere / che 'l numero, ch'ognora a passar bada, / che 'nfinito vaneggia!).
In parecchi altri casi il termine si lega più esplicitamente a un concetto di quantità: del numero de li cieli... diversamente è sentito da molti, Cv II III 3, e XIII 2; di tutti questi ordini [angelici] si perderono alquanti tosto che furono creati, forse in numero de la decima parte... Li numeri, li ordini, le gerarchie narrano li cieli mobili, V 12. Del n. delle Intelligenze motrici si parla ancora in II IV 8, 12 e 15; V 5 manifesto è a noi quelle creature [essere] in lunghissimo numero, " numerosissime ", e 7 lo numero in che sono le gerarchie e quello in che sono li ordini; così al § 15. Lo stesso riferimento in Pd XIII 97 non per sapere il numero in che enno / li motor di qua sù (cfr. Mn III III 2 theologus... numerum angelorum ignorat), n. tanto grande, che più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla (Pd XXVIII 92, cui va accostato per il concetto XXIX 131; cfr. ancora XXV. 125, XXIX 135).
Con altri riferimenti: dice Salomone [Cant. 6, 7]: " Sessanta sono le regine, e ottanta l'amiche concubine; e de le ancille adolescenti non è numero. .. ", Cv II XIV 20; IV VI 8 e XII 4; Vn XXV 4 non è molto numero d'anni passati, che...; Cv III VIII 2 pochi perfetti uomini in tanto numero [nella " schiera " così vasta degli effetti de la divina sapienza, § 1] sono; con chiaro valore partitivo in I I 4 de li uomini lo maggior numero, la maggior " parte ". Per il passo di I II 9 ciascuno con ampia misura cerca lo suo mal fare e con piccola cerca lo bene; si che 'l numero e la quantità e 'l peso del bene li pare più che se con giusta misura fosse saggiato, Busnelli-Vandelli rimandano ad Agost. Super Gen. ad litt. IV 3 " mensura omni rei modum praefigit, et numerus omni rei speciem praebet, et pondus omnem rem ad quietem ac stabilitatem trahit ", ricordando che anche per s. Tommaso " la ragione del bene... consiste appunto in queste tre cose; numero o specie; quantità o misura o modo; peso o ordine " (cfr. Sum. theol. I 5 5, dov'è citato il passo di Agostino; II 85 4; Verit. XXI 6).
Alcune occorrenze di n., infine, riguardano problemi di retorica e di metrica: ne le cose rimate, dice D., sono connesse alcune adornezze, vale a dire la rima e lo ri[tim]o e lo numero regolato (Cv I X 12), il quale, " secondo le Artes medievali... riguarda particolarmente il numero delle sillabe d'ogni verso e dei versi rimanti tra loro " (Busnelli-Vandelli). Il sostantivo dunque indica qui un'entità matematica; e così in XIII 6 lo volgare... più stabilitade non potrebbe avere che in legar sé con numero e con rime (" numero così delle sillabe di ciascun verso, come dei versi ", Busnelli-Vandelli); II XI 3 lo numero [delle sillabe] che a la nota è necessario, e 9; cfr. VE II ne 4, dov'è detto che l'ars cantionis consiste circa tria, e cioè circa cantus divisionem... circa partito: habitudinem [" proporzionata disposizione ", Marigo]... circa numerum carminum et sillabarum.
L'uso del plurale crea qualche difficoltà ad accettare questo stesso valore in Cv IV II 12 rima... s'intende per tutto quel parlare che 'n numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade. Nessun dubbio sulla lezione, nonostanti i tentativi del Giuliani di ricondurla a numero, come notano Busnelli-Vandelli; i quali, in base all'equivalenza comunemente accettata dai trattatisti medievali tra rithmos greco e numerus latino, suppongono che D., " parlando di numeri, avesse in mente il ritmo, e usasse il plurale pensando alla varietà dei ritmi... Ma non è da escludere che col suo plurale volesse, sì, alludere al numero-ritmo o, forse meglio, ai numeri-ritmi, ma insieme anche al numero matematicamente inteso, in quanto è matematicamente fisso sia il numero di versi de' singoli tipi di strofe, e il numero delle suddivisioni di esse, e il numero dei versi di ogni suddivisione, sia il numero totale dei versi di certi componimenti poetici ". Alla lezione 'n numeri si è arrivati attraverso il Moore, che adottò in numeri in sostituzione di con numeri: quest'ultima era la lezione più diffusa nel secolo scorso, " dopo che gli Editori Milanesi così avevano corretto, di su la prima edizione del Convivio, la inintelligibile vulgata ‛ che numeri ' " (Busnelli-Vandelli).
Il numero nelle opere di Dante. - Considerato una delle componenti essenziali del simbolismo allegorico dagli esegeti biblici (" sumitur allegoria... quandoque a numero ", Pietro Comestore Historia Scholastica, Patrol. Lat. CXCVIII 1053), e uno dei tre elementi fondamentali gli altri essendo la mensura e il pondus, come ricavati dal Liber Sapientiae (XI 21 " omnia in mensura, et numero, et pondere disposuisti ") della stessa ‛ fattura ' dell'universo, more arithmetico dalla tradizione medievale, il n. è uno dei principia individuationis anche della forma mentis del poeta e della stessa architectoniché della Commedia e viatico all'allegoresi, in una con i restanti simbolismi matematici: musica, geometria e astronomia.
D., infatti, mostra di conoscere alla perfezione e di fondere, sincretisticamente e, spesso, originalmente innovando, i sistemi del " symbolism abstrait " (Réau) che i filosofi dei secc. XII e XIII avevano elaborato riattualizzando quelle norme che l'acribia agostiniana e cassiodoriana avevano consegnato al Medioevo, e che l'esegesi biblica aveva variamente incrementato fino a Ugo da San Vittore che le codificò nel De Scripturis et Scriptoribus Sacris Praenotatiuncula (Patrol. Lat. CLXXV 13), così come quelle che l'aritmologia - risalente ai Theologoumena arithmeticae attribuiti sia a Giamblico che a Nicomaco di Gerasa (100 d.C.), compendiata nel . De Nuptiis Philologiae et Mercurii di Marciano Capella (testo divulgatissimo, dopo il sec. IX, a opera del celeberrimo Commentum in Martianum Capellam di Remigio d'Auxerre, ediz. Lutz), resa normativa nel Liber numerorum (Patrol. Lat. LXXXII 87) di s. Isidoro - aveva, a sua volta, enucleato fino a Rabano Mauro che le raccolse nel De Universo (cfr. in particolare il cap. XV, De Numero, Patrol. Lat. CVII 669 ss.). A questi due filoni, confluenti nelle norme teorico-pratiche contenute nei due più famosi ‛ scolastici ', la già citata Historia Scholastica di Pietro Comestore, le Theologicae Regulae di Alano da Lilla (Patrol. Lat. CCX 80), i Commenti biblici di Ugo di Santo Caro e di. Nicola da Lira, e l'enciclopedico Speculum di Vincenzo di Beauvais sarà da aggiungere quello, non meno suggestivo per arcane rispondenze, dei liturgisti del XII e XIII secolo, il Rationale (Explicatio) divinorum Officiorum (Patrol. Lat. CCII 53) di Giovanni Beleth, il Mitrale, Summa de Oiciis ecclesiasticis (CCXIII 122) di Siccardo da Cremona e il Rationale divinorum oficiorum (Lugduni 1562) di Guglielmo Durand.
La Vita Nuova si apre con un duplice riferimento numerico: Nove fiale già appresso lo mio nascimento, ed Ella era in questa vita già stata tanto... sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono (II 1-2), che sarà sottolineato da un secondo riferimento già ‛ numerologico ' per l'impiego insistito sull'ora canonica in cui accadde il dolcissimo salutare: L'ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno (III 2). Su questa ora canonica del dolcissimo salutare e su quella non meno fondamentale della morte, e poi nella Commedia quella della parousia di Beatrice, è indispensabile appuntare il nostro sguardo perché è, insieme con i correlati simbolismi, la varia clavis lecturae offertaci dal poeta per ‛ aprire ' il simbolo e scoprire sottilmente ' l'intentio Dantis. L'ora, se è ‛ cristologica ', con D., cioè, fermo ancora alla tradizione, rafforza i precedenti allusi riferimenti simbolici già sollecitati dal nome della donna - la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare (II 1; ove compare l'impiego della formula già paolina, ma codificata da s. Isidoro, della nominum interpretatio, tradizionale nell'esegesi biblica e dal poeta felicemente esperimentata per s. Domenico e per s. Francesco nella Commedia) -, dal cromatismo della veste - di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno (§ 3) e che diventerà bianchissimo (III 1) nella seconda apparizione - e soprattutto dalla triplice formula litanica - Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi, Apparuit iam beatitudo vestra, e, infine, Heu miser, quia frequenter impeditus ero deinceps!, II 4-6 (che sarà ripresa nella triplice formula che saluterà la parousia di Beatrice nella Commedia: Veni, sponsa, de Libano, Benedictus, qui venis, e Manibus, oh, date līlïa plenis, Pg XXX 11, 19 e 21) -, sì che il tutto, nel suo insieme, concorre a inscrivere in una sigla soteriologica quel dolcissimo salutare e per conseguenza tutto il libello. Questo impiego opimo di simbolismi, conflati insieme armoniosamente - numerologici, cromatici e liturgici -, già diventati forma mentis, ancor più chiaramente si vedrà nelle rationes offerte per giustificare l'equazione numerologica Beatrice = 9 '. Nel ‛ figurare ' numerologicamente Beatrice, D. non ricorrerà soltanto all'impiego della formula già consacrata dei ‛ n. figurati ' trasmessa " au Moyen Age, surtout par Boèce et par Macrobe " (De Bruyne, I, p. 15), come per la gentile donna schermo de la veritade (Vn V 3: donna = 30) alla tradizione degli ordines dei fedeli (30 = ‛ coniugati ' e/o ‛ laici ') ma anche, mescidando diverse tradizioni già al primo annuncio - E presi li nomi di sessanta le più belle donne... maravigliosamente addivenne... in alcun altro numero... se non in su lo nove (VI 2: si pensi alle " sexaginta reginae " del Cantico di Salomone) - alle formule teologiche di Ugo da San Vittore e a quelle di Marciano Capella nell'elaborazione analitica delle Theologicae Regulae di Alano fondate sulla numeratio o iteratio, che erano retaggio agostiniano.
Infatti, procedendo con sempre più serrata gradatio, dopo aver promesso nel cap. XXVIII di spiegare perché molte volte lo numero del nove ha preso luogo tra le parole dinanzi, perché ne la sua partita cotale numero pare che avesse molto luogo, e perché questo numero fue a lei [Beatrice] cotanto amico, nel cap. XXIX, con audacissimo sincretismo, D. offrirà la sottile sua ragione. Infatti ciò che è apparso un " enimma numerico-soteriologico " (Curtius) da trascurarsi perché " estraneo " o " allotrio " (Barbi e Croce) alla poesia, si traduce gradualmente e sottilmente si svela un simbolismo tipologico trinitario, fondato come appare sulle tradizioni degli aritmologi e dei teologi (e l'aggettivo sottile e l'avverbio sottilmente erano normativi negli esegeti biblici e impiegati in relazione ai sensi spirituali, e particolarmente l'allegoria, diventando nel nostro caso sicura spia), con l'impiego successivamente dei seguenti simbolismi: 1) cronologico: Io dico che, secondo l'usanza d'Arabia, l'anima sua nobilissima si partio ne la prima ora del nono giorno del mese; e secondo l'usanza di Siria, ella si partio nel nono mese de l'anno, però che lo primo mese è ivi Tisirin primo, lo quale a noi è Ottobre; e secondo l'usanza nostra, ella si partio in quello anno de la nostra indizione... in cui lo perfetto numero nove volte era compiuto in quello centinaio... terzodecimo; 2) astronomico-astrologico: con ciò sia cosa che, secondo Tolomeo e secondo la cristiana veritade, nove siano li cieli che si muovono, e, secondo comune oppinione astrologa, li detti cieli adoperino qua giuro secondo la loro abitudine insieme... ne la sua generazione tutti e nove li mobili cieli perfettissimamente s'aveano insieme; 3) aritmologico e teologico: lo perfetto numero nove volte era compiuto, e più sottilmente pensando, e secondo la infallibile veritade, questo numero fue ella medesima; per similitudine dico... Lo numero del tre è la radice del nove, però che, sanza numero altro alcuno, per se medesimo fa nove... tre via tre fa nove. Dunque se lo tre è fattore per se medesimo del nove, e lo fattore per se medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna... era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade (cap. XXIX).
Orbene, se si traguarda la sottile ragione addotta da D. per mezzo dei simbolismi enucleati, ci si rende conto, sulla scorta della tradizione e degli autori più rappresentativi, che i calcoli sollecitati quali prove sono il prodotto di una forma mentis e di una dispositio simbolica già mature. Sotto la sottile ragione, infatti, sentiamo non soltanto il problema della plenitudo temporis - che la concordantia temporum sollecitata dai Vangeli, Augustino discente, aveva additato alla tradizione e ad autori più o meno illustri, come Beda il Venerabile (De Temporum ratione, Patrol. Lat. XC 293) o il ripetitore, Rabano Mauro (il già citato De Universo), fino a Gioacchino da Fiore, a Vincenzo di Beauvais, as. Alberto Magno e a s. Tommaso (che opera la grande sintesi nell'Expositio continua dei Vangeli, più comunemente nota come Catena Aurea) - ma anche l'impegno arditissimo di figurare Beatrice a simbolo tipologico, a typus Trinitatis gerens. Ma per arrivare a tanto (Beatrice, non lo si dimentichi, dovrà completare la triade delle donne benedette) D. non esita a ricorrere all'audacissima serie cronologica che non è soltanto prova culturale ma anche e soprattutto l'unico modo per fondere l'idea della resurrezione il cui sacro n. è l'8 con la necessità di salvare il 9 che nel cap. XXIX viene ripetuto ‛ nove ' volte. Così la prima ora del nono giorno, secondo l'usanza d'Arabia, essendo la prima ora dopo il calar del sole - " nota a Dante, come quella di Siria, attraverso una versione latina dell'astronomo arabo Alfragano ", come ci ricorda il Contini (Letteratura, p. 328) - è insieme ora e giorno ‛ cristologico ' perché a cavallo tra l'ottavo e il nono (" dies octava resurrectionis Dominicae obtinet sacramenlum ", Rabano Mauro, cit., col. 289), mentre il nono mese dell'anno, secondo l'usanza di Siria, diventa ‛ paracletologico ' perché contando nove mesi a partire da ottobre si arriva non alla Pasqua (aprile) ma alla Pentecoste (giugno), mentre l'anno secondo l'usanza nostra permetteva al poeta d'impiegare il perfetto numero - 10 - (perfetto " secundum numeri computationem " per la quinta regola del già citato Ugo da San Vittore) e il nove " secundum multiplicationem " (impiegando a suo modo la sesta regola, sempre di Ugo) per arrivare al 1290. I due simbolismi, astronomico e astrologico, poi, integrandosi diventano anch'essi teomimetici perché richiamano quella perfezione dei cieli e quella plenitudo temporis quale si ebbe alla nascita del Cristo che, per la manifesta analogia cristologica, impongono a D. più sottilmente pensando, e secondo la infallibile veritade di dover avanzare l'argomentum analogiae - per similitudine dico -, volgendo la categoria dialettica in mimetica secondo la norma della tipologia. Di qui la necessità degli altri simbolismi, teologico e aritmologico, anch'essi mescidati e incrociati, e fondati sulle norme di Rabano Mauro - Lo numero del tre... cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, " Ternarius ergo numerus ad Trinitatis mysterium pertinet " (De Numero, col. 490) -; di Marziano Capella, ma attraverso il Commentum di Remigio d'Auxerre - tre via tre fa nove, " perfectus est ternarius, quod id est eo quod, prima triplicatio numeri subaudis ternarii, id est novenarius... Tria enim ter novem fiunt " (ediz. Lutz, r 148) -; di Ugo da San Vittore, la già citata regola sesta ." secundum multiplicationem " e, infine, di Alano di Lilla - per similitudine dico... questa donna... era uno nove, cioè uno miracolo... e lo fattore per se medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, cioè la mirabile Trinitade, " In divinis autem non proprie, sed per similitudinem potest assignari personalis status, ut personalis proprietas ", e " Ut testatur Augustinus, numerus memorialis est eiusdem rei iteratio, quae quodammodo gerit imaginem numeri; ubi enim repetitio, ibi videtur esse numeratio, ut si dicam: Sol, Sol, Sol; Deus, Deus, Deus... et talis iteratio dicetur memorialis numerus " (Theologicae Regulae, 51a e 103a, Patrol. Lat. CCX 613, 676-677) - per cui, concludendo, Beatrice, solo in questo modo, angiola giovanissima e beata, veniva tipologicamente assunta a typus Trinitatis gerens, con la fusione dei simbolismi cristologici e paracletologici nella formula trinitaria, e quindi a simbolo soteriologico, pronta ad affiancare nella Commedia al tempo stesso le due ‛ guide ' - Virgilio e s. Bernardo - e a completare, con la Vergine e s. Lucia, la triade gloriosa.
E se il poeta ha sentito la necessità di aggiungere, al cap. XXIX, l'explicit (Forse ancora per più sottile persona si vederebbe in ciò più sottile ragione; ma questa è quella ch'io ne veggio, e che più mi piace) che è apparso a più di un commentatore una prova ex professo dell'inutilità di ‛ aprire ' i crittogrammi di D., noi crediamo che sia stato fatto non solo per offrirci una mirabile prova di forza culturale (perché egli è costretto a muoversi nell'ambito di tradizioni varie e ugualmente consacrate - per es., per la ‛ terza ' regola di Ugo da San Vittore " secundum modum porrectionis " il " novenarius ante denarium " significa " defectum intra perfectionem ", senza contare il ben più dibattuto problema delle ‛ perfezioni ' umane e angelologiche), ma per mostrarci la via e offrirci la chiave per ‛ aprire ' l'allegoresi teologica, chiave indispensabile per tutti i simbolismi numerologici di cui è ricca la sua opera, e massime la Commedia nella quale il poeta deve affidare la sottile ragione non al commento suo in prosa, come nella Vita Nuova e nel Convivio, ma all'acribia dell'interprete e al reticolato dei ‛ segni ' inchiusi in uno o in più versi.
Nel Convivio sono da porre in rilievo anche le non poche citazioni relative ai soli ‛ n. mistici '; tra questi il n. 6, nella complessa innovazione dell'ora sesta come ora della morte del Cristo, e il 35 come n. della plenitudo aetatis, meritano una specialissima menzione perché fondamentali nel sistema numerologico e nella stessa ‛ fattura ' della Commedia (si pensi alla problematica età del poeta all'inizio del viaggio, al n. delle vocali e consonanti - 35 - che compongono l'incipit del salomonico Liber Sapientiae: " Diligite iustitiam qui iudicatis terram " e al derivato simbolismo zoologico dell'Aquila-typus Christi [Pd XVIII] e, soprattutto, al sotteso problema della plenitudo aetatis dell'uomo dopo il giudizio universale, a resurrezione avvenuta: problema, tra gli altri, che fu di notevole impegno per gli scolastici), per non parlare del 2, del 5, del 10, del 14, del 20 e dei multipli fino al 1.000 e, al tempo stesso, dei rapporti tra i n. e le figure geometriche, in modo particolare l'equazione 5 = pentangulo (Cv IV VII 14-15) che rappresenta insieme un ricupero e un'innovazione, sulla scorta di Marciano Capella e del matematico Fibonacci, detto anche Leonardo Pisano (1170), di fronte alla grande tradizione vittoriana da D. ben conosciuta e seguita quando necessario.
Se è difficile, allo stato attuale, dal momento che il Convivio ci è giunto quale lo leggiamo, affermare o negare che la struttura finale dell'opera dovesse riflettere l'intentio dichiarata e cioè quella di ordinare la vivanda... di quattordici maniere... cioè quattordici canzoni sì d'amor come di vertù materiate (Cv I I 14), tuttavia ciò che più conta è che, già nell'esposizione dell'intentio, ci troviamo di fronte a un suggerimento numerologico - 14 - che sottende una ‛ composizione ' o un piano strutturale nel quale le sottolineate dicotomie di corpo e anima, amor e vertù, bellezza e bontade e, soprattutto, allegorica esposizione e litterale istoria potrebbero essere ricondotte o alla bifarietà nel n. 14, , cioè 7 + 7, qual era stata acquisita sulla scorta di s. Isidoro (" Denarius quaternarius numerus, quia ex duobus septenariis constat, gemitum nobis insinuat, sive hunc temporalem... sive illum aeternum "), o alla sua unitarietà in diretta relazione al glorioso exemplum paolino, sempre nel testo isidoriano: " Paulus... apostolus post annos quatuordecim ad evangelizandum ascendit in Ierusalem... Idem quatuordecim Epistolis praedicationis suae sermonem conclusit " (Liber numerorum, Patrol. Lat. LXXXII 194). Interrotta o no, l'opera presenta una sua ‛ composizione ' numerologicamente compiuta, organata come appare sempre sul n. 7 nella tradizionale bifarietà di 4 (trattati in prosa) + 3 (canzoni) che nei testi sia dei mistici che degli aritmologi fino a s. Bonaventura e a s. Tommaso rappresentava ‛ vita umana ' e ‛ universalità ' come di microcosmo (4 = corporeità e 3 = spiritualità) a macrocosmo. Bifarietà, universalità e impegno morale che si possono desumere dal testo stesso quando nel I trattato (I 2), dopo l'incipit - Sì come dicé lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere -, D. affermerà che dentro da l'uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l'uno. da la parte del corpo, l'altro da la parte de l'anima (§ 3), sì da far considerare la rimozione di questi impedimenti da l'abito di scienza la prima e fondamentale teologica intentio del Convivio. E poiché il ‛ nome ' della canzone terza e ultima, Le dolci rime d'amor ch'i' solia, è quello ben allusivo di Contra-li erranti... tolto per essemplo del buono frate Tommaso d'Aquino, che a uno suo libro, che fece a confusione di tutti quelli che disviano da nostra Fede, puose nome Contra-li-Gentili (IV XXX 3), per venire a un exemplum numerologico e a una sottile teleologica intentio, si ponga mente al fatto, non casuale, che il n. dei libri del De Veritate catholicae Fidei contra Gentiles è proprio di 4 come i Vangeli, e che l'incipit dell'Aquinate è ancora apoftegmatico e tratto anch'esso da Aristotele (" Multitudinis usus, quem in rebus Philosophus censet 2. Topic. cap. 1 communiter obtinuit quod sapientes dicantur qui res directe ordinant... Unde inter alia quae homines de sapiente concipiunt, a Philosopho ponitur in proem. Metaph. cap. 11 quod sapientis est ordinare "), sì che i 4 trattati del Convivio potrebbero quodammodo adequarsi ai 4 libri del testo dell'Aquinate. Se così fosse, noi troveremmo una giustificazione valida sia per l'interruzione, quasi voluta in un punto numerologicamente completo, sia per la ragione della modifica dell'iniziale ‛ composizione ' sotto l'imperio di più categorica necessità avvertibile nel distacco perfino stilistico che separa i primi tre trattati dal quarto e ultimo.
Non sarà certo un caso, di fronte a questa ipotesi di ‛ composizione ' numerologica, che proprio la prima menzione del termine n. nel Convivio sia tratta dal Liber Sapientiae (11, 21 " omnia in mensura et numero et pondere disposuisti "), e liberamente translitterata in si che 'l numero e la quantità e 'l peso (Cv I II 9), che era la formula su cui si erano fondati, come si è visto, i simbolismi numerologici della tradizione teologica. Né va taciuto, a riprova, che sempre nel Convivio compaiono insieme e il nome di Pitagora e la derivata formula - Non solamente in tutti insieme [li principii de le cose naturali], ma ancora in ciascuno è numero, chi ben considera sottilmente; per che Pittagora, secondo che dice Aristotile nel primo de la Fisica, poneva li principii de le cose naturali lo pari e lo dispari, considerando tutte le cose esser numero (II XIII 18) - su cui si era fondata la tradizione sia aritmologica sia teologica.
E come già nella Vita Nuova la serie numerologica è tutta in funzione di Beatrice, così, in rapporto analogico-antitetico, nel Convivio la serie numerologica è in funzione della Filosofia, e intesa a illustrare i rapporti plurimi che legano i n. ai cieli, comparati alle arti e alle scienze, ai pianeti e agli angeli, movitori di quelli, e agli auctores (per es. Boezio e Cicerone e Aristotele), movitori di quelle, per arrivare al termine del ‛ computo ' col n. 10, considerato, con tutta la tradizione, perfetto numero - Ancora: lo Cielo empireo per la sua pace simiglia la Divina Scienza, che piena è di tutta pace; la quale non soffera lite alcuna d'oppinioni o di sofistici argomenti, per la eccellentissima certezza del suo subietto, lo quale è Dio... Di costei dice Salomone: " Sessanta sono le regine... ". Tutte scienze chiama regine e drude e ancille; e questa chiama colomba perché è sanza macula di lite, e questa chiama perfetta perché perfettamente ne fa il vero vedere nel quale si cheta l'anima nostra (Cv II XIV 19-20). L'impiego, nella conclusione, dell'exemplum tratto dal Cantico (già esperimentato nella Vita Nuova nella ‛ figurazione ' di Beatrice = 9 tra le sessanta le più belle donne), così come la formula tratta dal Liber Sapientiae acquistano una nuova dimensione quando vengano calati nel più ampio contesto culturale dal momento che su di essi si sono fondate le teorie estetiche sia del sec. XII - il Cantico - sia del sec. XIII - il Liber Sapientiae -, e chiamano quindi, nella ricerca delle fonti, il commentatore a sforzi non indifferenti onde render giustizia al poeta, e massime quando ricupera passate tradizioni riattualizzando o contaminando o innovando.
Così non sorprende se il II trattato del Convivio è ricco, come abbiam già fatto rilevare, di riferimenti numerologici: puntualizzando il numero de li cieli (III 3), contro Aristotele; disputando sul n. degli angeli (IV 8, 12 e 15) e definendoli in lunghissimo numero e quasi innumerabili (V 5) sull'autorità dei Vangeli (Matt. 26, 53; Luc. 4, 10-11) e della sposa [del nostro Salvatore] e secretaria Santa Ecclesia, trattando del n. degli angeli ribelli, in numero de la decima parte (II V 12), considerando la loro relazione con la Trinità e la funzione di ‛ movitori ' dei cieli (§§ 6, 7- e 12); soffermandosi sui Troni, in numero non grande, ‛ movitori ' del cielo di Venere (ma nella Commedia, sulla scorta di Dionigi l'Areopagita, D. di questo errore farà solenne ammenda), ai quali è indirizzata la prima canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete, la cui bellezza è grande sì per costruzione, la quale si pertiene a li gramatici, sì per l'ordine del sermone, che si pertiene a li rettorici, sì per lo numero de le sue parti, che si pertiene a li musici. Le quali cose in essa si possono belle vedere, per chi ben guarda (XI 9; e non sarà casuale che la canzone sia divisa in 3 parti e il numero dei versi sia di 90 - ma su questo si tornerà più oltre nella discussione sul De vulg. Eloq.) e, infine, concludendo con la comparazione de li cieli a le scienze e insistendo soprattutto nella comparazione tra il cielo del Sole e la Arismetrica, baconianamente considerata " clavis et ianua " e isidorianamente - " tolle numerum omnibus rebus et omnia pereunt " - definita quella di cui tutte s'illuminano le scienze, però che li loro subietti sono tutti sotto alcuno numero considerati, e ne le considerazioni di quelli sempre con numero si procede (Cv II XIII 16), fino ai limiti grossatestiani, ma innovati nella formula trinitaria - li principii de le cose naturali, li quali sono tre, cioè materia, privazione e forma, ne li quali si vede questo numero (§ 17) - e pitagorici, già citati - Non solamente in tutti insieme, ma ancora in ciascuno è numero, chi ben considera sottilmente: per che Pittagora, secondo che dice Aristotile nel primo de la Fisica, poneva li principii de le cose naturali lo pari e lo dispari, considerando tutte le cose esser numero. L'altra proprietade del Sole ancor si vede nel numero, del quale è l'Arismetrica: che l'occhio de lo 'ntelletto nol può mirare: però che 'l numero, quant'è in sé considerato, è infinito, e questo non potemo noi intendere (§§ 18-19) -, e, soprattutto, nella comparazione del Cielo stellato con la Fisica - se bene si guardano sottilmente questi tre numeri, cioè due e venti e mille (XIV 2) - dove la grande lezione della numerologia si esalta. In questo passo, infatti, come negli altri già citati, D. mostra in che modo la dimensione astrologica abbracci e fonda in uno la prima (Arismetrica) e l'ultima (Astrologia), cioè pervenga alla reductio della quadripartizione (Arismetrica-Musica-Geometria-Astrologia) alla Matematica, tradizionale e al tempo stesso ribadita al poeta dal maestro Brunetto nella Rettorica, allargando il computo fino all'Empireo come decimo cielo, o cielo della divina scienza, la teologia, che chiude il cerchio della perfezione del dieci intorno ai capisaldi sia della tradizione aritmologica sia di quella teologica. E la prova più probante del vario e sicuro dominio delle fonti da parte di D. è la sottile interpretazione offerta dei tre n., cioè il 2, il 20 e il 1.000. La spiegazione che il poeta ci offre certamente oltrepassa quel " riscontro (anche un suggerimento?) nel Comm. Physic.,1.8, lect. 14 dell'Aquinate " (Busnelli-Vandelli, I 215 n.), in tanto in quanto ricupera la più vasta lezione degli aritmologi e dei teologi, data per scontata nel testo dell'Aquinate, ma da D. riportata alla luce come i diversi colori nello spettro, non traducendo più o meno direttamente da s. Tommaso, ma liberamente translitterando o mettendo a frutto la lezione di altri autori, da individuarsi solo per mezzo di un'attenta ‛ auscultazione ' in quella che si dimostra di necessità una splendida contaminatio. Nel passo in questione, infatti - Ché per lo due s'intende lo movimento locale, lo quale è da uno punto ad un altro di necessitade. E per lo venti significa lo movimento de l'alterazione; ché, con ciò sia cosa che, dal diece in su, non si vada se non esso diece alterando con gli altri nove e con se stesso, e la più bella alterazione che esso riceva sia la sua di se medesimo, e la prima che riceve sia venti, ragionevolemente per questo numero lo detto movimento significa. E per Io mille significa lo movimento del crescere; ché in nome, cioè questo ‛ mille ', è lo maggiore numero, e più crescere non si può se non questo multiplicando (Cv II XIV 3-4) -, se i termini di movimento locale e movimento de l'alterazione appartengono alla tradizione aristotelica, l'exemplum del diece risale direttamente a Isidoro (" Binarius numerus prima numerorum procreatio, prirnaque est forma... motusque primi... Denarius vero ultra omnes habendus est numerus; quia omnes numeros diversae virtutis ac perfectionis intra se continet... in quo tantus fit complexionis terminus, ut ultra numerus nequaquam procedat, sed denuo ad unitatem recurrat, sicque deinceps pro infinita numerorum multitudine habeatur ", Liber numerorum, cit., coll. 181, 190) e alle regole di Ugo da San Vittore (sia la quarta " secundum formam dispositionis ", sia la quinta " secundum numeri computationem " sia la sesta " secundum multiplicationem ", quest'ultima per il principio più generale, quelle perché basate sul " denarius " per sé stesso preso e per la presenza del n. nel 100 e nel 1.000 secondo l'" ordo positionis " e la " forma dispositionis ", De Scripturis et scriptoribus..., Patrol. Lat. CLXXV 22), i termini punto e nome, invece, sottendono altre fonti e relazioni, il primo tra l'aritmetica e la geometria e il secondo, per la teoria isidoriana della nominum interpretatio, quello tra l'aritmetica e il Trivio. La prima relazione (a parte la nozione della Physica aristotelica di ‛ moto locale ') aveva trovato in Marziano Capella, sempre attraverso il Commentum di Remigio d'Auxerre, il suo più convinto assertore e formulatore nella prosopopea di Aritmetica: " Nam mihi id est Arithmeticae, in primo versu monas adest id est principium, illi id est Geometriae, in signo id est in puncto, principium scilicet est... Quod valent X puncti in arithmetica, hoc una linea in geometria; sic mille in arithmetica quemadmodum altitudo in geometria. Hic punctus et hoc punctum dicimus ", e ancora più oltre, " quae omnes rationes scilicet multiplicationum et partium, inter duos fines hoc est inter duos numeros. Nulla enim proportio minus quam in duobus numeris consideratur aut certe inter duos fines, id est in ipso binario ", per arrivare alla conclusione sull'inseparabilità delle due Arti, " proprie enim illi videtur inhaerere quia numeri arithmeticae ex figuris geometriae et figurae geometriae ex numeris arithmeticae constant " (Commentum II 198, 216). Questa relazione (ribadita anche dal Fibonacci nel Liber Abbaci), e non solo questa perché estesa anche alle altre Arti, sarà da D. ulteriormente elaborata nella polimorfa immagine dei cerchi trinitari, sottolineandola con la grande metafora del geometra, nell'ultimo canto del Paradiso, ma qui a noi interessa perché riappare in altro passo del Convivio: che 'l cento si è parte del mille, e ha ordine ad esso come parte d'una linea a tutta linea, su per la quale si procede per uno moto solo, e nulla successione quivi è né perfezione di moto in parte alcuna (IV XIII 3) e ancor meglio nella formula dell'homo pentagonalis, opposto all'homo quadratus della tradizione vittorina, che è da considerare innovazione rispetto al testo aristotelico, e ai suoi Commenti, da cui D. pur muove: Ché, sì come dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima, le potenze de l'anima stanno sopra sé come la figura de lo quadrangolo sta sopra lo triangolo, e lo pentangulo, cioè la figura che ha cinque canti, sta sopra lo quadrangolo (VII 14). L'innovazione non consiste soltanto nell'impiego di una contaminatio tra Aristotele (Anima II 3), " che... non nomina il pentagono, come non lo nomina neppure Averrois ", e " l'Aquinate (Comm. De anima, 1.2, lect. 5, n. 295) che lo nomina " (Busnelli-Vandelli, ad l.), ma anche nell'aggiunta di quella chiosa - cioè la figura che ha cinque canti - la cui duplice funzione è quella di fondere le due Arti e, soprattutto, di fondare sul n. 5 la ‛ perfezione umana ', antecedente necessario della circumscriptio numerologica di Salomone, di Rifeo e dello stesso DXV nella Commedia.
Allo stesso modo, con un'altra non meno elaborata innovazione, l'astrologia e la numerologia liturgica sono fuse nel computo dell'ottima disposizione del cielo e della terra (da cui ricavare l'argumentum, impiegato nella Monarchia, della provvidenzialità di Roma e dell'Impero) per la venuta del Figliuolo di Dio: ottima disposizione... come ancora per virtù di loro arti li matematici possono ritrovare (Cv IV V 4-7) e che si vede nel fatto che a una ora in Siria suso e qua in Italia (§ 9) tale venuta fu preparata da Dio. Qui, però, li matematici non significa soltanto " applicazione post factum de' principii astrologici genetliaci fatta dai matematici, o seguaci dell'astrologia di cui ragiona S. Agostino, De doctr. christ., l. 2, c. 21: ‛ ... qui... nunc autem vulgo rnathematici vocantur ' " (Busnelli-Vandelli, ad l.), ma voluto impiego del tutto - matematica - per la parte - astrologia -, e molto di più della sola " ammissione che di simili calcoli Dante s'intendeva " (Busnelli-Vandelli; per cui la ‛ fonte ' agostiniana appare da sola insufficiente), perché siamo di fronte a una sicura dimestichezza con l'insegnamento magistrale, divenuto poi canonico, di Beda il Venerabile, autore sia del già citato De Temporum ratione, dove troviamo insieme con la meccanica del computo anche la lista varia e la nomenclatura dei mesi (e quindi anche il precedente del computo esperimentato nell'offrirci la ‛ ragione ' cronologica relativa alla morte di Beatrice, in Vn XXIX 1), sia del De Temporibus liber, dove troviamo la successione delle età, e nel cui incipit leggiamo la definizione: " hora finis est temporis " (Patrol. Lat. XC 279), destinata, insieme con le norme del computo, a diventar tradizionale da Rabano Mauro fino a Vincenzo di Beauvais.
E del resto l'argumentum cronologico, coi suoi simbolismi, è uno dei problemi fondamentali del pensiero dantesco, per cui una sua presenza nel Convivio quale riprova della relazione delle Arti inseparabiles con l'astrologia e con la numerologia liturgica, e insieme sigla dell'armonia provvidenziale del cosmo, diventava punto focale. Accennato nel III trattato del Convivio e affrontato con sicuro dominio della tradizione esegetica, il problema cronologico apparirà dimostrazione della volontà innovativa da parte del poeta dal momento che, teste Luca, egli sosterrà, contro la più diffusa tradizione, che l'ora cristologica per eccellenza, la nona, debba mutarsi in sesta onde derivarne una nuova concordantia temporum che abbracci mirabilmente in uno l'ora della caduta di Adamo con quella della morte del Cristo-nuovo Adamo, e segni arcanamente e simbolicamente l'ora dei soli typi Christi, cioè gl'imperatori (più complessa, come si vedrà, sarà la tipologia dei pontefici), e ancor più esalti la conclusione della Commedia, proprio all'ora sesta fondendo in uno il problema della plenitudo temporum con quello della plenitudo aetatis nell'ora mirabile della resurrezione.
L'argomento centrale e la dimostrazione di questa nuova concordantia temporum si'trovano nel IV trattato del Convivio, ove si fa esplicito richiamo al passo del III trattato in cui già una prima volta il problema era stato posto: Intorno a le parti del giorno è brievemente da sapere che, si come detto è di sopra nel sesto del terzo trattato, la Chiesa usa... [le ore] del di temporali... e però che la sesta ora, cioè lo mezzo die, è la più nobile di tutto lo die e la più virtuosa, li suoi offici appressa quivi da ogni parte, cioè da prima e di poi, quanto puote. E però l'officio de la prima parte del die, cioè la terza, si dice in fine di quella; e quello de la terza parte e de la quarta si dice ne li principii (IV XXIII 15). Circolarmente chiuso tra questi due passi che si ribadiscono integrandosi, il problema dell'ora sesta, punto focale del simbolismo cronologico, in uno con quello correlato della plenitudo aetatis, cioè dell'anno della morte del Cristo - 35 contro il tradizionale 33, per non parlare del 30 avanzato da s. Agostino e ripreso da Vincenzo di Beauvais: " Resurget... unusquisque in mensura aetatis plenitudinis Christi, quia unusquisque sui corporis mensuram recipiet, quam in aetate triginta annorum habuit " (Speculum morale, 1. II, dist. III, pars 2a, col. 774) -, diventerà il leitmotiv del IV trattato (e ancor più della Commedia) che si apre con solenne citazione tratta da Aristotele: Lo tempo, secondo che dice Aristotile nel quarto de la Fisica, è " numero di movimento, secondo prima e poi "; e " numero di movimento celestiale ", lo quale dispone le cose di qua giù diversamente a ricevere alcuna informazione (IV II 6), a ripresa del concetto espresso nell'ultimo capitolo del III trattato (con lei [la Sapienza] Iddio cominciò lo mondo e spezialmente lo movimento del cielo, lo quale tutte le cose genera e dal quale ogni movimento è principiato e mosso, III XV 15), e continuato e svolto per dimostrare l'armonia provvidenziale che lega cronologicamente tutte le ‛ operazioni ' del cosmo e quindi dell'uomo (‛ ora ' ed ‛ età ') e, di conseguenza, a trattare diversa materia, se poeta, e con rima aspr' e sottile, quando la materia sia quasi un manifesto Contra-li-erranti e la rima valga per tutto quel parlare che 'n numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade (IV II 12), cosicché per la mirabile congiunzione delle causae prima e secunda, della voluntas Dei per Dantem, siano provvidenzialmente, se soteriologica e universale è la portata, generati gli effetti di quel tempo nuovo che al poeta - Et si praesaga mens mea non fallitur, Ep VI 17 - par d'intravvedere e sarà pienamente esperimentato nella ‛ milizia letteraria ' e fruito nella Commedia come ‛ fattura ' sub specie perfectionis e come profezia sub specie aeternitatis.
Così il problema dell'ora della morte del Cristo, fissata alla sesta, cioè nel mezzo die, perché è l'ora la più nobile e la più virtuosa, non è certo da considerarsi " un granchio " oppure una " curious misquotation " (come pure è incredibilmente apparso a studiosi della fama del Nardi e del Moore) ma un sottile computo inteso a dimostrare, sulla scorta della matematica e dell'esegesi scritturale, teste Luca, che al trentacinquesimo anno di Cristo era lo colmo de la sua etade (Cv IV XXIII 11), sì da rappresentare la soluzione tutta dantesca di una serie di questioni correlate, e più precisamente quella della concordantia temporum; della plenitudo aetatis e della resurrezione.
Nel De vulg. Eloq., il discorso numerologico è condotto sul filo di un'altra relazione, quella cioè della retorica con la musica. E dei 2 libri quello che più per noi conta è il secondo, anche perché i pochi riferimenti al n. contenuti nel I libro - dicimus quod in omni genere rerum unum esse oportet quo generis illius omnia comparentur et ponderentur, et a quo omnium mensuram accipiamus; sicut in numero cuncta mensurantur uno... sicut in coloribus omnes albo mensurantur (XVI 2), e Potest tamen magis in una quam in alia redolere; sicut simplicissima substantiarum, quae Deus est, in homine magis redolet quam in bruto animali... et simplicissima quantitas, quod est unum, in impari numero redolet magis quam in pari; et simplicissimus color, qui albus est, magis in citrino quam in viride redolet (§ 5) -, fondamentali per la plurima reductio ad unum, sono da considerarsi premesse seminali dell'ulteriore elaborazione e costituiscono le chiavi di volta del sistema dantesco sia nella Monarchia che nella Commedia, sulle quali, perciò, torneremo.
Nel secondo libro, dunque, i riferimenti alla relazione tra le due Arti (ma la retorica va concepita non stricto sensu ma allargata anche alle altre due componenti del Trivio, cioè alla grammatica e alla dialettica) sono già programmaticamente enunciati con il richiamo a quelli che lo legano (il volgare illustre) musicalmente col verso (cfr. I 1). Questa relazione tra le Arti riprende quell'inciso inserito nel Convivio, là dove il poeta afferma che la bellezza della canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete è palese sì per construzione, la quale si pertiene a li gramatici, sì per l'ordine del sermone, che si pertiene a li rettorici, sì per lo numero de le sue parti, che si pertiene a li musici (II XI 9), così come il valore ben pregnante del verbo ‛ legare ' (musicalmente) sarà dimostrato in altro passo sempre del Convivio da considerarsi emblematico. Sfruttando le etimologie, anche quelle più desuete, offerte dai glossari, e nel nostro caso quelle delle (Magne) Derivationes di Uguccione da Pisa, puntualmente citato, D. acutamente ricupera un verbo molto lasciato da l'uso in gramatica, che significa tanto quanto ‛ legare parole ', cioè ‛ auieo ' (Cv IV VI 3), per stabilire una differenza fondamentale, sul filo della norma paolina ma resa operante e canonica da s. Isidoro, quella cioè della nominum interpretatio, tra le etimologie del vocabolo autore (da ‛ auctor ' con o sanza quella terza lettera C). La sottile distinzione operata all'interno dell'etimologia di ‛ autore ', cercata e trovata nel testo di Uguccione (" Item invenitur quoddam verbum defectivum, scilicet Auieo... idest ligo... et inde autor, idest ligator "), permette a D. di mostrare la quasi mirabile singolarità del verbo auieo nel suo essere composto dalle cinque vocali che sono anima e legame d'ogni parole e, al tempo stesso, di s Velarci la speciale relazione che lega le vocali tra di loro: E chi ben guarda lui [il verbo auieo], ne la sua prima voce apertamente vedrà che elli stesso lo dimostra, che solo di legame di parole è fatto, cioè di sole cinque vocali, che sono anima e legame d'ogni parole, e composto d'esse per modo volubile, a figurare imagine di legame. Ché, cominciando da l'A, ne l'U quindi si rivolve, e viene diritto per I ne l'E, quindi si rivolve e torna ne l'O; sì che veramente imagina questa figura: A, E, I, O, U, la quale è figura di legame (Cv IV VI 3-4), con un'ampia immagine musicale che, mutatis mutandis, par derivata direttamente da un passo dell'Epistola De ignoto cantu di Guido d'Arezzo (Patrol. Lat. CLXXXVI 425-427). Così per mezzo dell'impiego di un verbo molto lasciato da l'uso, ma qui con scelta magistrale ricuperato, D. non solo caratterizza i poeti come coloro che con l'arte musaica le loro parole hanno legate ma anche ribadisce il principio della superiorità, sulla prosa, della poesia avendo essa maggiore stabilitade... in legar sé con numero e con rime (Cv I XIII 6), operando una sintesi tra il Trivio e il Quadrivio, con il ricorso alla musica come di parte per tutta la matematica, arditissimamente teorizzata. Su queste premesse tale superiorità è ribadita, con l'impiego dello stesso verbo, ad apertura del cap. I del II libro del De vulg. Eloq., dove leggiamo che i prosaycantes ab avientibus magis accipiunt il volgare illustre in quanto exemplar (II I 1). Introdotto in questo modo il discorso, per tutto il libro secondo D. non solo ribadirà le nozioni numerologiche ormai tradizionali ma addirittura costruirà su basi trinitarie la sua teoria poetica. Così dal momento che homo tripliciter spirituatus est, e triplex iter perambulat (II 6), tre finalità deve perseguire, che sono i tre magnalia, e cioè armorum probitas, amoris accensio et directio voluntatis (§ 8). E il poeta, quando sia atteso a doctrinae operi (IV 3), adequato il materiae pondus propriis humeris (§ 4), deve rigorosamente applicarsi nella triplice materia della tragedia, della commedia e dell'elegia con il triplice impegno, già citato, e cioè: strenuitate ingenii et artis assiduitate scientiarumque habitu (§ 10). Avviato il discorso su basi così onerose, meglio e più chiaramente si comprendono la puntuale analisi e la scelta finale dell'endecasillabo, come metro postremo - nullum adhuc invenimus in carmen sillabicando endecadem transcendisse (V 2) - e la ‛ ragione ' per definirlo di tutti superbius non solo tam temporis occupatione, quam capacitate sententiae, constructionis et vocabulorum; quorum omnium specimen magis multiplicatur in illo, ut manifeste apparet; nam ubicunque ponderosa multiplicantur, [multiplicatur] et pondus (§ 3), ma anche per il simbolismo numerologico, seguendo la formula mista aritmologico-teologica - Parisillaba... retinent enim naturam suorum numerorum, qui numeris imparibus, quemadmodum materia formae, subsistunt (§ 7) -, e infine la scelta della canzone, intesa come quel tutto unitario, quanto all'ispirazione e all'arte, che trinitariamente ancora possa esser diviso primo circa cantus divisionem, secundo circa partium habitudinem, tertio circa numerum carminum et sillabarum (IX 4). Questi passi fondamentali nel pensiero dantesco ribadiscono, richiamandosi circolarmente per entro lo stesso lavoro e tutto l'ergasterium, quanto già era stato scritto in precedenza sia nel passo già citato del libro I (et simplicissima quantitas, quod est unum, in impari numero redolet magis quam in pari, XVI 5) e nella conclusione del cap. XVI (Itaque adepti quod quaerebamus, dicimus illustre, cardinale, aulicum et curiale vulgare in Latio, quod omnis latiae civitatis est et nullius esse videtur, et quo municipalia vulgaria omnia Latinorum mensurantur et ponderantur et comparantur, § 6), sia in Cv I II 9 Onde avviene che ciascuno ha nel suo giudicio le misure del falso mercatante... sì che 'l numero e la quantità e 'l peso del bene li pare più che se con giusta misura fosse saggiato, dove, come ben può vedersi, non solo compare, tradotta e adattata, l'espressione scritturale in lode della Sapienza divina (" omnia in mensura et numero et pondere disposuisti ", Sap. 11, 21), formula di base di tutta la numerologia e. dell'estetica sapienziale, ma anche la stessa reductio ad unum, principio e cardine della ‛ fattura ' numerologica dell'universo. Questi passi, in mirabile sintesi, torneranno nella Monarchia (Item dico quod ens et unum et bonum gradatim se habent... Propter quod in omni genere rerum illud est optimum quod est maxime unum, ut Phylosopho placet in hiis quae de simpliciter ente [nella Metafisica]. Unde fit quod unum esse videtur radix eius quod est esse bonum, et multa esse eius quod est esse malum; qua re Pictagoras in correlationibus suis ex parte boni ponebat unum, ex parte vero mali plurale, ut patet in primo eorum quae De simpliciter ente, I XV 1-2), e in Pd XV 55-57 (Tu credi che a me tuo pensier mei / da quel ch'è primo, così come raia / da l'un, se si conosce, il cinque e'l sei), e soprattutto nella distinctio in'bono e in malo, principio e cardine della teologia cristiana e dell'esegesi biblica e dell'estetica del XII e XIII secolo e della stessa Commedia nella soluzione unitrinitaria dell'ultimo canto del Paradiso e in quella plurima di Lucifero nell'ultimo canto dell'Inferno.
Nella Monarchia (dove due soltanto dei passi esigono una chiosa: I XV 7 quae quidem forma, quemadmodum et aliae, una in se, multiplicatur secundum multiplicationem materiae recipientis, ut anima et numerus et aliae formae compositioni contingentes, e III III 2 theologus vero numerum angelorum ignorat, perché numerologici quanto alla ratio ontologica nel primo caso e angelologica nel secondo), ciò che più conta è la serrata reductio ad unum e quindi ad Deum nel problema della plenitudo potestatis ribadita con forza con il richiamo alla conformità della secunda alla prima causa e dimostrata con la soluzione dei ‛ tre ' problemi rispettivamente affidati ai ‛ tre ' libri, sillogizzati e secondo le norme retoriche. Sia in quest'opera sia nella Quaestio de aqua et terra (disputata in 24 articoli, che è n. altamente simbolico perché testamentario) e nelle epistole (cfr. III 2 de passione in passionem dico secundum eandem potentiam et obiecta diversa numero sed non specie, e l'epistola a Cangrande [XIII] che, divisa in 33 particulae, ripete il numero dei canti del Paradiso di cui è dedica dichiarata ma con intento ampiamente sineddotico) noi ritroviamo una chiara e forte matrice numerologica che, comprovando e ribadendo un'aperta intentio, avviano l'interprete a- considerare sottilmente la pluralità dei simbolismi numerici che arricchiscono la Commedia.
Per poter affrontare la complessa serie numerologica della Commedia, occorre ora partire dalla tradizionale struttura numerologica espressa per mezzo della formula 1+33+33+33= 100, ereditata dai primi copisti e commentatori e che il Panofsky, investigando il rapporto tra l'architettura gotica e la Scolastica, ha recentemente ribadito, come ulteriore prova della comune forma mentis medievale, richiamandosi " ai primi manoscritti, edizioni e commentatori... coscienti del fatto che la prima cantica comincia in realtà con il canto II (di modo che essa comprendeva 33 cantiche come le altre). Nel manoscritto Trivulziano del 1337, così negl'incunaboli come nell'edizione di Venezia di Wendelin di Speyer, noi troviamo: ‛ Comincia il canto primo de la prima parte ne la quale fae proemio a tutta l'opera ', e ‛ Canto secondo de la prima parte ne la quale fae proemio a la prima cantica solamente, ciò è a la prima parte di questo libro solamente ' ". Cfr. il commento di Iacopo: " In questi due primieri Capitoli... fa proemio e mostra sua disposizione... Qui [nel canto II] segue suo poema pregando la scienza che lo aiuti a trattare tale poetria, sicome è usanza delli poeti in li principii delli suoi trattati, e li oratori in li principii delle sua arenghe (Gothic architecture..., p. 98 n.) ". Contro i tentativi di soluzioni strutturali basati sui dati statistici (n. dei versi e delle terzine), approntati dal Mariotti e dal Lisio, ripresi e arricchiti recentemente da Mario M. Rossi (Problematica..., pp. 195 ss.), con acute osservazioni sulla ‛ terzina ', dobbiamo riconoscere al Singleton di aver enucleato quel gruppo centrale, di canti del Purgatorio (dal XIV al XX) nei quali si nota una serie numerica di versi - 151, 145, 145, 139, 145, 145, 151 - che allo studioso è apparsa prova di " schema numerico... al centro ", sì da poter inferire che la presenza di quei 7 canti e della successione numerica incentrata nel 7 faccia del 7 " il numero del poeta " che " dev'essere considerato come suo in un poema dove così tanti numeri sono di Dio " (The poet's..., pp. 1-10). Indipendentemente dal valore della conclusione relativa alla certezza, o meno, che proprio il 7 sia il n. del poeta - e lo è, come crediamo, se collegato al nome del profeta Natàn (v.) e. sulla scorta della teologia-politica medievale -, la validità dell'intuizione singletoniana consiste nell'aver cercato in un'area più vicina alla forma mentis di D. quello che era stato confusamente avvertito ma affrontato con superficiale improvvisazione (eccezion fatta per Curtius e Hopper) sì da screditare ogni altra ricerca intesa a portare alla luce le strutture profonde del simbolismo numerologico della Commedia. Infatti nella successione indicata dal Singleton si trova la chiave rigorosa e inequivocabile del piano trinitario e trinitariocentrico del poema arithmetico more concepito e realizzato al pari della ‛ fattura ' dell'universo. E non sarà un caso infatti che la voce n. compaia soltanto nel Paradiso, perché ivi si toccano rispettivamente questioni teologiche relative all'angelologia, al n. dei beati e soprattutto al problema gnoseologico in generale che solo in Dio, principio e misura di tutte le cose, trova il suo unico e vero principio. E ciò che nel Convivio non era dato di conoscere (cfr. II XIII 19 L'altra proprietade del Sole ancor si vede nel numero, del quale è l'Arismetrica: che l'occhio de lo 'ntelletto nol può mirare; però che 'l numero, quant'è in sé considerato, è infinito, e questo non potemo noi intendere, qui nel Paradiso è concesso e trova la sua chiave, clavis et ianua del sistema teologico di D., in XV 55-61 Tu credi che a me tuo pensier mei / da quel ch'è primo, così come raia / da l'un, se si conosce il cinque e 'l sei / ... Tu credi 'l vero, dal momento che l'uno è il fundamentum trinitario circolarmente espresso in XIV 28-30 Quell'uno e due e tre che sempre vive / e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno, / non circunscritto, e tutto circunscrive.
Con questo in mente, e soprattutto con la prova certa offerta dall'egloga II in risposta a Giovanni del Virgilio, dove il n. dei versi è ‛ contato ' (97 + 3 = 100, perfetto n. perché ottenuto dalla moltiplicazione del perfetto numero per sé medesimo, e cioè 10 X 10), tornando al rapporto che lega il n. dei versi nei canti enucleati dal Singleton, esso non è solo quello che lo studioso ha creduto (The poet's number, p. 6) e cioè l'imperfetta ratio numerologica " 1, 3, 7, 9 ", ma l'altra e più sistematica, fondata sul 3, espressa per mezzo della ratio (151 = 7, 145 = 10, 139 = 13), e quindi 7-10-13, in cui, come si vede chiaramente, il n. 3 diventa denominatore comune di una rigorosa progressione aritmetica tra la somma del n. dei versi, e dove il 13 dev'essere letto come 10 + 3, cioè il perfetto n. più il 3 trinitario - e n. di base per il 33 delle cantiche nel rapporto 10 X 3 + 3 (perché il 33 cristologico non entra nel sistema numerologico del poeta che ha disputato e sostenuto essere l'anno della morte del Cristo il 35), sulla scorta di s. Isidoro che aveva scritto: " Denarius ternarius numerus propter tria et decem designat legem, et legislatorem, Decalogum, videlicet, et Trinitatem. Competenter autem hic numerus apostolo Paulo ascribitur, qui eiusdem tenet numeri locum in ordine apostolorum " (Liber num., cit., col. 193), ingrandendo le allusività arcane, nell'uno e nell'altro caso, in un poeta la cui missione è quella di ‛ scriba Dei ' in pro del mondo che mal vive (Pg XXXII 103) -; comun denominatore il 3 che vedremo mirabilmente ripetersi nella somma di tutti i canti del poema.
La lunghezza dei canti del poema varia da un minimo di 115 versi a un massimo di 160, con una differenza, sulla comune base numerologica 100, di 45 versi che è il prodotto del moltiplicando 15 per il moltiplicatore 3, per cui riducendo all'unità il moltiplicando (15-1) otteniamo sempre la formula trinitaria 1 + 3 che è la ‛ sezione aurea ' della varia ma rigorosa lunghezza dei canti e modulo, in senso lato, della Commedia. Se, poi, raggruppiamo e ‛ computiamo ' sinotticamente i canti adequando, sulla scorta del Fibonacci, i numeri romani a quelli arabi (o " figure indorum " come si legge nel Liber Abbaci) vediamo, non casualmente certo, apparire la doppia progressione aritmetica di ‛ ragione ' 3, una diversa sequenza numerologica nelle cantiche, singolarmente considerate, e, contemporaneamente, la fondamentale presenza di tutti i numeri per se (dall'1, cioè, al 10) che comprovano la rigorosa e armonica gotica architettura del poema e il sistematico impiego delle regole del simbolismo numerologico elaborate da Ugo da San Vittore. Si veda (col n. delle ricorrenze in parentesi rotonda e della ratio nella quadra; come si vede, il 3 risulta comune ratio numerologica nell'Inferno 11 volte, nel Purgatorio 9 volte e nel Paradiso 8 volte):
Il n. 7 appare una sola volta, e precisamente nel canto XXXIII dell'Inferno, per cui D. doveva attenersi a un piano rigoroso per ottenere nell'insieme del poema la successione numerologica che si esalta proprio nella presenza del n. per sé nell'ambito del computo (e se il 7 è il n. del poeta e lo ha scelto per il canto di Ugolino, il grido di dolore del conte e la maledizione biblica su Pisa per aver messo a tal croce degl'innocenti, stabilendo questa nuova analogia Christi, sembra ancor più acquistare una dimensione autobiografica).
La tavola, inoltre, ed è basilare dal punto di vista del simbolismo numerologico, comprova l'impiego sistematico della terza regola di Ugo da San Vittore nell'altamente allusiva sequenza ‛ endecadica ' (progressione aritmetica di ‛ ragione ' 3 o suo multiplo lunga 11) nell'Inferno: " Undenarius ultra denarius, extra mensuram transgressionem ", che ben si attaglia al doloroso regno e al peccato del ribelle Lucifero, ‛ enneadica ' (9) nel Purgatorio: " Novenarius ante denarius, defectum ante intra perfectionem ", che ben corrisponde al regno dell'attesa e, infine, ‛ octoadièa ' (8) nel Paradiso: " Octonarius ultra septenarius, aeternitatem post mutabilitatem ", che ben si conviene al beato regno, perché simbolo della vita eterna.
Le strutture e i rapporti già intravvisti dalla tradizione (la parola stelle con cui terminano le cantiche; la presenza del tema politico e sua gradatio nei canti vi [ma da riconsiderare dopo quanto abbiamo scritto]; le strutture interne nell'ambito dei singoli canti e perfino degli episodi; gl'incipit degli ultimi canti delle tre cantiche che si richiamano alla liturgia in forma analogico-antitetica - tanto per citare alcuni momenti dei più evidenti -) non sono che riflessi ovvi per la loro clamorosa apparenza ma, adesso, tali da giustificare più approfondite ricerche. È in questo e solo in questo contesto che formule da considerarsi volute prove dell'intentio dantesca, come l'appello al lettore di Pg XXXIII (S'io avessi, lettor, più lungo spazio / da scrivere, i' pur cantere' in parte / lo dolce ber che mai non m'avria sazio; / ma perché piene son tutte le carte / ordite a questa cantica seconda, / non mi lascia più ir lo fren de l'arte, vv. 136-141), diventano, a dir poco, emblematiche. Se osserviamo che il n. dei versi del canto è 145, il cui prodotto (1 + 4 + 5 = 10) è il 10, lo perfetto numero, noteremo che anche l'ultimo canto del Paradiso presenta lo stesso n. di versi, che nell'economia numerologica della Commedia acquistano un preciso valore emblematico essendo proprio il 10 - lo perfetto numero... per se medesimo - il n. di base e ultimo del poema (10 X 10) che, a mirabile riprova, anche se espresso in altro modo - 136 (1 + 3 + 6 = 10) - riappare proprio nel primo canto sia dell'Inferno che del Purgatorio a circoscrivere arithmetico more la Commedia. Si veda, del resto: Inferno 1136 = 10; Purgatorio I 136 = 10, XXXIII 145 = 10; Paradiso XXXIII 145 = 10.
Ma v'è ancora un altro aspetto relativo alla struttura o ‛ costruzione ' che merita attenta considerazione per fruire appieno sia del modus scribendi, sia della forma mentis numerologica di D., e per comprendere a pieno le immense possibilità che la terzina gli offriva e come egli potesse così rigorosamente eppur facilmente sapere quando fossero piene le carte e, al tempo stesso, controllare la progressione aritmetica fondata sulla ratio o ‛ ragione ' trinitaria del 3 anche se nessuno dei n. finali dei canti è divisibile per 3. Divisibili diventano soltanto se al n. finale si sottrae un'unità sì da riproporci ancora una volta la formula trinitaria 3 + 1 che è così alla base e al vertice della Commedia.
Sulla stessa linea di concettuale e ontologico rigore vanno posti gli altri simbolismi numerici che, or chiusi or apertamente dichiarati, ritroviamo nella Commedia, riutilizzati e quindi riprove di problemi affrontati e risolti nelle opere precedenti.
Così è il problema dell'età del poeta all'inizio della Commedia, il ‛ trentacinquesimo ' anno, qui suggerito e apertamente dichiarato nei versi di If XXI 112-114 Ier, più oltre cinqu'ore che quest'otta, / mille dugento con sessanta sei / anni compié che qui la via fu rotta, richiamandosi al ‛ trentacinquesimo anno ' della morte del Cristo, in quella pagina di Cv IV XXIII 9 nella quale D. non esita a innovare contro la tradizione ferma sia sull'ora (la nona) sia sull'età (trentatreesimo o trentesimo, secondo Vincenzo di Beauvais), inserendosi autorevolmente nel doppio problema della corporis et annorum plenitudo, e a consacrare quel n. 35 (ignoto sia a s. Isidoro, sia a Ugo da San Vittore e a s. Tommaso) che trionfalmente tornerà in Pd XVIII 88-93 Mostrarsi dunque in cinque volte sette / vocali e consonanti; e io notai / le parti sì, come mi parver dette. / ‛ Diligite Iustitiam ', primai / fur verbo e nome di tutto 'l dipinto; / ‛ Qui Iudicatis Terram ', fur sezzai; n., dunque, del primo versetto del Liber Sapientiae che, ' figurato ' (al modo delle Laudae, già citate, di Rabano Mauro), attraverso la sequenza dei sensi mistici (dalla M, all'ingigliarsi, all'aquila), diventerà il n. dei typi Christi, della milizia del ciel (Pd XVIII 124) e dei beati.
Il simbolismo cronologico del 35 (che è innovazione nell'insieme ma ottenuta applicando la sesta regola di Ugo da San Vittore, " per multiplicationem ", sulla base di due n. mistici e consacrati dalla lunga tradizione sia aritmologica - il 5 - sia teologica - il 7 -) diventa di necessità uno dei problemi fondamentali della Commedia e chiama in causa sia le fonti medievali in senso lato sia, soprattutto, l'intentio Dantis. Infatti, esso coinvolge una serie di ‛ questioni ' che vanno da una suggerita analogia Christi, con conseguente tipologia cristologica dal poeta avocata, alla corporis et annorum plenitudo a resurrezione avvenuta, alla correlazione tra l'età e la milizia letteraria e la ‛ materia ' (cardine del pensiero dantesco e tale già dichiarato a proposito sia della Vita Nuova sia del Convivio: E se, ne la presente opera, la quale è Convivio nominata e vo' che sia, più virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova... veggendo si come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene. Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra, Cv I I 16-17) e, infine, al problema testuale e alla sicura lezione dei versi 112-114 di If XXI, già citati, e da considerarsi riprova palmare del passo del Convivio, sulla plenitudo aetatis del Cristo, e vertiente e lectio difficilior come risulta dalla variante di quei manoscritti che recano la diversa lezione: dugento un, imposta dalla " diversa e forse più diffusa opinione dei 33 anni " (Petrocchi) e dal travaglio dei commentatori, costretti alla distinzione tra concepimento e nascita (Buti).
La soluzione del problema, e della teleologica intentio Dantis, dev'essere, come sempre e di necessità, legata alle ‛ fonti ' medievali relative alla corporis et annorum plenitudo, e cioè al dogma della resurrezione, e alla teologia politica relativa alla tipologia cristologica. Quanto alla teologia politica, è noto che i soli typi Christi, per geminazione cristomimetica stricto sensu, sono l'imperatore e il pontefice; quanto alla plenitudo, più che s. Tommaso, la cui generica definizione (" statum ultimae perfectionis, qui est in iuvenili aetate, ad quem terminatur motus crementi, et a quo incipit motus decrementi ", Sum. theol. Suppl. 81 1c) " non est quidem ab Ecclesia definita " (Piccolomini), converrà citare i fondamentale dottrina paolina della plenitudo temporis che è ricordata nel passo dello Speculum Morale di Vincenzo di Beauvais: " tunc secundum Apostolum omnes electi de diversis mundi partibus occurrent sibi invicem in virum perfectum, idest in virilem perfectionem, quasi scilicet in statu aetatis 30. circiter annorum, in qua Christus habuit annorum et corporis plenitudinem. Igitur unusquisque mensurae corporis plenitudinem sui recipiet, quam in aetate 30. annorum habuit, etiam si senex obiit, vel quam illa habiturus esset si usque ad eam pervenisset " (col. 1326), dal quale evidente appare che il problema escatologico della resurrezione e dell'età degli ‛ eletti ' - dogma specialmente investigato al tempo della patristica da s. Agostino (Civ. XXII 15) e della scolastica da Pietro Lombardo (Sent. IV, dist. 44), le cui conclusioni sono riassunte nel testo di Vincenzo di Beauvais -, aperto a una varia soluzione, offriva a D. la possibilità d'inserirsi autorevolmente (come già per l'ora della morte) nella ‛ questione ', e la sua soluzione diventa così essenziale dal momento che si dicotomizza da un lato nell'età sua e dall'altro nell'età di tutte le dramatis personae della Commedia, raffigurate esemplarmente non post ma ante resurrectionem.
Ciò che intendesse D. quando decise di far coincidere la data d'inizio del suo viaggio con l'anno trentacinquesimo e di concluderlo con la visione beatifica all'ora sesta, cronologie cristologiche, diventa, così, conditio categorica. Scartata l'ipotesi della tipologia cristomimetica, stricto sensu, perché aliena al rigoroso pensiero teologico-politico del poeta e la seconda più lata della tipologia ecclesiologica propria pastorum, maxime summi, come ortodossamente affermato in Mn III XIV 3, non resta che quella come sempre giocata sul filo dell'ortodossia più temeraria, intravvista anche se differentemente da Benvenuto (" Est... hic notandum quod A. per istam descriptionem temporis, tangit occulte tempus in quo incepit istum arduum opus. Incepit enim... in M.CCC circa medium mensis martii in die Veneris sancti, quia Pascha fuit martiaticum; et vult dicere allegorice quod sicut per mortem et resurrectionem Christi humanum genus revixit a morte ad vitam, ita ipse A. divina gratia in tali die de morte et tenebra vitiorum reductus fuit ad claram vitam et viam felicitatis eternae "), intesa a suggerire ben allusivamente che il viaggio e la correlata missione e la beatifica visione siano avvenute miracolosamente e gratia Dei ‛ in corpore ', al modo paolino, e, al tempo stesso, che la milizia letteraria non meno gratia Dei sia quella di uno scriba Dei ' per la geminazione teomimetica del typus Prophetae che segna, nella teologia-politica medievale, un'arditissima innovazione intesa com'è a mutare la soluzione diadica (pontefice e imperatore) in quella triadica (pontefice, imperatore e profeta) ricalcata analogicamente sulla formula biblica del regno di Davide e di Salomone. Alla stessa stregua di questo primo e già fondamentale simbolismo cronologico, non meno determinanti dovranno essere considerati tutti gli altri, quelli aperti, e quelli suggeriti. V. BEATRICE; Cinquecento Dieci E Cinque; Commedia: Allegoria; Trinità; Veltro; Fiera: Le tre fiere; ecc. Bibl. - L. Pisano, Liber Abbaci, ediz. B. Boncompagni, Roma 1857; L. Thorndike, A history of magic and experimental science, New York 1923; V. Hopper, Medieval Number Symbolism, ibid. 1938; E. De Bruyne, Études d'estbétique médiévale, Bruges 1946; A. Quacquarelli, 30, 60, 100 i frutti della vita cristiana, Roma 1947; E. Panofsky, Gothic architecture and Scholasticism, Latrobe,-Pennsylvania, 1951²; E.R. Curtius, European Literature and the Latin Middle Ages, trad. inglese a c. di W.R. Trask, New York 1953; L. Réau, Iconographie de l'art chrétien, Parigi 1958; H. De Lubac, Exégèse médiévale, ibid. 1964 (particolarmente vol. II, parte II, cap. VII, Symboles, numériques); C.S. Singleton, The Poet's number at the Center, in " Modern Language Notes " LXXXV (1965) 1-10; M. Pazzaglia, Il verso e l'arte della canzone nel De vulg. Eloq., Firenze 1967; M.M. Rossi, Problematica della D.C., ibid. 1969; G. Contini, Letteratura italiana delle Origini, ibid. 1970; G.R. Sarolli, Prolegomena alla D.C., ibid. 1971; A. Vallone, Dante, Milano 1971; F. Tateo, Questioni di poetica dantesca, Bari 1972; G.R. Sarolli, Il n. in D., nel vol. Analitica della D.C., Firenze, in corso di stampa.