Novità in tema di cooperazione internazionale
Vengono analizzate le novità introdotte in materia di mutuo riconoscimento, rogatorie, estradizione e trasferimento dei procedimenti penali, a seguito della riforma del libro XI del codice di rito, ponendo in rilievo le esigenze di modernizzazione e semplificazione delle procedure di cooperazione giudiziaria, ma anche i punti di frizione con le garanzie difensive e i profili di tutela dei diritti fondamentali.
Il diritto della cooperazione giudiziaria penale vive una stagione di complessa transizione verso un nuovo ordine regolativo. Nel breve volgere di pochi anni si è infatti assistito, quanto meno all’interno dello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, ad una singolare trasmutazione di istituti secolari della cooperazione intergovernativa: dall’estradizione si è passati alla nuova procedura di consegna basata sul mandato di arresto europeo, dalla commissione rogatoria all’ordine europeo di indagine penale e dagli strumenti convenzionali che regolavano le procedure di trasferimento delle persone condannate ai nuovi meccanismi di riconoscimento ed esecuzione delle sentenze di condanna pronunciate dalle autorità degli Stati membri UE ai sensi della decisione quadro 2008/909/GAI del 27 novembre 2008, recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. 7.9.2010, n. 161. Un complesso percorso di adeguamento normativo ha consentito di trasporre nel nostro ordinamento, attraverso la recente adozione di un cospicuo numero di decreti legislativi fra loro non sempre coordinati, una serie di atti di diritto derivato (decisioni quadro e direttive) che il legislatore aveva tardato a recepire: nell’arco temporale ricompreso tra il biennio 20152017 hanno fatto il loro ingresso nel sistema interno i provvedimenti europei di sequestro e confisca (d.lgs. 7.8.2015, n. 137; d.lgs.15.2.2016, n. 35; d.lgs. 29.10.2016, n. 202), l’ordine di protezione europeo (d.lgs. 11.2.2015, n. 9), gli strumenti di prevenzione e composizione dei conflitti di giurisdizione (d.lgs. 15.2.2016, n. 29), le decisioni di condanna a sanzioni pecuniarie e le decisioni di sospensione condizionale della pena (d.lgs. 15.2.2016, n. 37; d.lgs. 15.2.2016, n. 38), le ordinanze cautelari personali di tipo non detentivo (d.lgs. 15 .2.2016, n. 36), le squadre investigative comuni (d.lgs. 15.2.2016, n. 34), lo scambio dei dati estratti dai casellari giudiziari (d.lgs. 12.5.2016, n. 74) e numerosi altri istituti della cooperazione, a seguito della ratifica ed attuazione della Convenzione di assistenza giudiziaria penale fra gli Stati membri UE del 29.5.2000 (d.lgs. 5.4.2017, n. 52)1. Con il d.lgs. 21.6.2017, n. 108 è stata recepita la direttiva 41/2014/UE del 3.4.2014 in tema di ordine europeo di indagine penale, che si prefigge l’obiettivo di dar vita, attraverso il superamento del tradizionale meccanismo rogatoriale, ad «un sistema generale di acquisizione delle prove nelle cause aventi dimensione transfrontaliera», fondato sulla estensione del principio del reciproco riconoscimento anche alle decisioni giudiziarie in materia di prova. Una cifra comune di tali strumenti è ben visibile non solo nell’obiettivo di perseguire un rafforzamento della collaborazione giudiziaria ed investigativa attraverso una più efficace e spedita circolazione di “eurordinanze” oggettivamente riconoscibili ed eseguibili da parte delle autorità giudiziarie direttamente interessate al caso, ma anche, e soprattutto, nella valorizzazione del principio di disponibilità delle informazioni e delle notizie acquisite (ad es., con le squadre investigative comuni ed il ricorso alle possibilità offerte dal casellario giudiziario europeo), nella formazione di nuovi modelli di accordo e consultazione fra le autorità coinvolte, come pure nel frequente coinvolgimento di organismi di “compensazione” delle difficoltà che nella prassi possono emergere a livello multilaterale (Eurojust) o bilaterale (punti di contatto della Rete giudiziaria europea). La successiva adozione del d.lgs. 3.10.2017, n. 149, ha radicalmente trasformato le forme di cooperazione disciplinate dal libro XI del codice di procedura penale, dedicato ai rapporti giurisdizionali con le autorità straniere. La novella, infatti, ha modificato secondo criteri di maggiore efficacia e tempestività la disciplina in materia di estradizione, di assistenza giudiziaria internazionale, di effetti delle sentenze penali straniere e di esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane, ridisegnandola alla luce del principio generale del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, la cui cornice di riferimento (ex artt. 696 bis-696 decies c.p.p.) vi è delineata attraverso un nucleo di disposizioni volte ad introdurre, da un lato, i presupposti di un meccanismo – quanto mai opportuno – di costante ed automatico adattamento del sistema processuale alla normativa europea, dall’altro lato le necessarie condizioni di coerenza ed unitarietà di indirizzo interpretativo nell’applicazione dei relativi istituti.
La riscrittura dell’art. 696 c.p.p., così come sostituito dall’art. 2 l. n. 149/2017, recante Disposizioni di modifica del Libro XI del codice di procedura penale in materia di rapporti giurisdizionali con autorità straniere, conferma, sia pure all’interno di uno scenario più ampio e dettagliato rispetto al precedente sistema di cooperazione, il carattere sussidiario della nuova disciplina processuale, unitamente al tradizionale principio di prevalenza delle fonti normative esterne, rappresentate, come in cerchi concentrici, dal diritto dell’Unione europea, dalla normativa convenzionale e dal diritto internazionale generale. Osservata nel suo insieme, la riforma del libro XI del codice di rito penale si fonda sull’esigenza di provvedere ad una differenziazione delle fonti in materia di cooperazione giudiziaria penale e dei relativi poteri esercitabili dal Ministro della giustizia, a seconda dell’appartenenza o meno del Paese (che richiede o presta assistenza) all’Unione europea. Le forme della cooperazione giudiziaria penale vengono così rimodulate secondo un triplice livello di operatività:
a) nel rapporto con gli Stati membri UE;
b) nel rapporto con quegli Stati con i quali vigono
trattati o convenzioni multilaterali o bilaterali;
c) nelle ipotesi in cui la domanda di cooperazione venga avanzata sulla base della cd. “cortesia internazionale”, cioè in assenza di trattati o convenzioni.
L’adeguamento delle disposizioni del codice di rito si caratterizza, tuttavia, per la sua valenza solo residuale, poiché sia nei rapporti con le autorità giurisdizionali di Stati membri dell’Unione europea che con quelle di Stati extra-europei dovranno essere prioritariamente applicate le norme sovranazionali. La normativa delineata dal codice di rito, infatti, è destinata ad assumere un carattere sussidiario rispetto alle norme esterne, siano esse di derivazione europea o internazionale.
In relazione ai rapporti con i Paesi membri dell’Unione europea la cooperazione penale deve svilupparsi secondo la disciplina del Trattato dell’Unione europea, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e della relativa normativa di attuazione.
Se tali norme mancano o non dispongono diversamente, dovranno applicarsi le norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e le norme di diritto internazionale generale. Qualora tali norme manchino o non dispongano diversamente, si dovranno applicare le pertinenti norme codicistiche. Regole analoghe sono state previste, inoltre, nei rapporti con gli Stati extra-europei, con i quali la cooperazione giudiziaria si dovrà svolgere secondo la disciplina delle norme delle convenzioni internazionali e del diritto internazionale generale.
Una clausola di ordine generale stabilita nel terzo comma dell’art. 696 c.p.p. prevede che, nelle ipotesi in cui tali norme manchino o non dispongano diversamente, si dovranno applicare le norme del codice di rito.
Si delinea, in tal modo, un quadro normativo cedevole rispetto a contrastanti previsioni di norme internazionali pattizie, che lo Stato si sia impegnato ad osservare dandovi esecuzione nell’ordinamento interno, ma tale cedevolezza si manifesta solo quando quelle norme internazionali risultino incompatibili con la norma interna. L’applicazione di quest’ultima è infatti esclusa non per il solo fatto che esista una convenzione, bensì quando questa esista e disponga altresì “diversamente”. Se la convenzione esiste, ma non dispone “diversamente”, la norma interna resta invece pienamente applicabile2.
Ne discende che le disposizioni del d.lgs. 5.4.2017, n. 52, recante Norme di attuazione della Convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 29 maggio 2000, troveranno applicazione, nelle materie ivi disciplinate, ove concorrenti con quelle previste nella riformata disciplina del libro XI del codice di rito.
Al Ministro della giustizia è stato riconosciuto il potere di rifiutare la cooperazione (art. 696, co. 4), ossia di non darvi corso nei casi in cui lo Stato richiedente assistenza non fornisca «idonee garanzie di reciprocità». Si tratta di una clausola inedita, che conclude la formulazione della disposizione in esame, senza chiarire con precisione quale sia l’effettivo ambito di operatività e le conseguenze dell’attivazione dei poteri ministeriali, il cui concreto esercizio, inoltre, sembra essere di assai problematica configurabilità nella sfera dei rapporti di cooperazione giudiziaria intrattenuti fra le omologhe autorità dei Paesi membri UE, per lo più connotati da forme di diretto dialogo inter-giurisdizionale e governati da un principio fondamentale, quello del mutuo riconoscimento delle decisioni e dei provvedimenti giudiziari, che presuppone l’esclusione di qualsiasi forma di interferenza o di mediazione da parte degli organi politico-governativi. Tale previsione, dunque, sembra destinata a ricevere applicazione per lo più nell’ambito dei rapporti con Stati diversi da quelli membri dell’Unione europea. Dubbi analoghi sembrano porsi, inoltre, nella individuazione di una chiara forma di raccordo fra la su citata previsione normativa e quella di nuovo conio introdotta dall’art. 696 sexies c.p.p. che, senza richiamare il contenuto della condizione di reciprocità, regolamenta in linea generale l’esercizio dei poteri del Ministro della giustizia nell’ambito delle procedure di mutuo riconoscimento, attribuendogli, nei casi e nei modi previsti dalla legge, la sola facoltà di verifica o di garanzia dell’osservanza delle condizioni dell’esecuzione della decisione eventualmente poste dall’Italia o dal Paese membro UE, sempre che tali condizioni non contrastino con i principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico. Per effetto della regola di prevalenza delle norme sovranazionali su quelle codicistiche, a fronte di una richiesta di cooperazione formulata sulla base di una convenzione internazionale o di un atto dell’Unione europea il Ministro non dovrebbe procedere alla verifica della sussistenza di Aidonee garanzie di reciprocità» da parte dello Stato richiedente. Tale principio, dunque, dovrebbe operare, principalmente se non esclusivamente, nei casi in cui le richieste siano avanzate al di fuori di uno specifico quadro di riferimento normativo sovranazionale o internazionale3.
All’interno del libro XI un nuovo titolo I-bis (artt. da 696 bis a 696 decies c.p.p.) è stato appositamente dedicato ai principi generali del mutuo riconoscimento delle decisioni e dei provvedimenti tra Stati membri UE, delineando un micro-sistema di cooperazione che, in attuazione del comma 1, lett. f), della norma di delega contenuta nell’art. 4 l. 21.7.2016, n. 149, si affianca a quello tradizionale dell’assistenza giudiziaria in forma rogatoriale4. La codificazione “interna” del principio del mutuo riconoscimento è contenuta, in particolare, nell’art. 696 bis c.p.p., ove si afferma che lo stesso è regolato dal nuovo titolo Ibis e dalle altre disposizioni di legge che attuano gli strumenti di diritto derivato dell’Unione europea, precisandosi, da un lato, che le decisioni e i provvedimenti giudiziari emessi dalle competenti autorità degli altri Stati membri possono essere riconosciuti ed eseguiti nel territorio dello Stato, dall’altro lato che l’autorità giudiziaria può richiedere alle competenti autorità degli altri Stati membri l’esecuzione dei propri provvedimenti e decisioni. Si ripropone in tal modo, con la previsione di una regola generale di sistema chiamata a governare il funzionamento dell’intero panorama degli strumenti del mutuo riconoscimento, l’idea guida a suo tempo elaborata dal Consiglio europeo di Tampere del 1999 circa la necessità che, nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione, le decisioni giudiziarie circolino liberamente come i beni economici, sul presupposto della reciproca fiducia tra gli ordinamenti giuridici ed economici degli Stati membri. In questa generale cornice di riferimento, fatto salvo l’obbligo di rispetto dei diritti fondamentali della persona, la cui possibile violazione è comunque ostativa al riconoscimento e all’esecuzione dei relativi provvedimenti (art. 696 ter c.p.p.), le decisioni giudiziarie degli Stati membri sono trasmesse direttamente fra le autorità interne ed estere interessate (art. 696 quater c.p.p.). La loro tempestiva esecuzione, di regola, non presuppone l’esercizio di alcun sindacato di merito (artt. 696 quinquies, 696 octies e 696 novies c.p.p.), mentre il Ministro della giustizia è eccezionalmente investito di un compito di supervisione circa «l’osservanza delle condizioni eventualmente poste in casi particolari dall’autorità giudiziaria dello Stato membro» (art. 696 sexies c.p.p.). La mancata previsione di un vaglio di proporzionalità si spiega, probabilmente, attraverso la rilevazione della esistenza di una ineliminabile frattura nei rapporti fra il principio del reciproco riconoscimento e quello di proporzionalità: mentre il primo presuppone la mutua fiducia e comporta una sorta di automaticità nell’esecuzione dell’euro-mandato, accompagnandosi a casi di rifiuto assai limitati e tassativi, il secondo, al contrario, si fonda sulla previsione di un margine di apprezzamento da parte delle autorità nazionali sia in fase di emissione che di esecuzione della richiesta. Una scelta diversa, tuttavia, da quella che il legislatore ha operato in sede di recepimento della direttiva 2014/41/UE in tema di ordine europeo d’indagine, poiché la previsione contenuta nell’art. 7 d.lgs. n. 108/2017, nel ricollegarsi direttamente alla generale disposizione di cui all’art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali, impone che l’ordine di indagine sia emesso ed eseguito solo nella misura meno invasiva possibile dei diritti e delle libertà del soggetto coinvolto nel compimento degli atti richiesti, avuto riguardo al raggiungimento dello scopo cui essi sono preordinati e tenuto conto delle esigenze investigative o probatorie del caso, della gravità dei reati per cui si procede e della relativa pena. Il principio del mutuo riconoscimento viene in tal modo “positivizzato” come principio generale di diritto dell’Unione e viene direttamente recepito nell’ordinamento interno come base legale di un nuovo sistema di cooperazione, ponendosi, da un lato, quale canone regolativo dei singoli atti normativi europei che ad esso si ispirano, dall’altro lato, quale principio di diritto europeo che funge da paradigma interpretativo per orientare e risolvere le diverse questioni problematiche inevitabilmente sottese alla prassi dei meccanismi di funzionamento delle più disparate procedure di mutuo riconoscimento. Un principio generale, dunque, il cui ambito di applicazione si delimita secondo frontiere mobili, alla luce dell’altro principio, anch’esso positivamente stabilito, della «prevalenza del diritto europeo» (art. 696, co. 1, c.p.p.). Espressione, questa, pregnante ed impegnativa per l’intero ordinamento giuridico-penale, poiché il richiamo al diritto europeo evoca il portato delle implicazioni sottese all’accoglimento dei principi progressivamente maturati nella elaborazione giurisprudenziale della Corte di giustizia e, attraverso l’art. 6 TUE, della stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, individuando nella figura del giudice nazionale quella di un “giudice comune” chiamato ad applicare garanzie e forme di tutela talora di incerta ricostruzione, poiché originate da fonti normative il cui intersecarsi rende assai problematica l’individuazione della regula iuris concretamente applicabile.
La riforma della disciplina codicistica in tema di rogatorie ha seguito una pluralità di direttrici, nella prospettiva di rendere il sistema di assistenza quanto più possibile omogeneo a quello disegnato per il riconoscimento e l’esecuzione dell’ordine di indagine europeo dal d.lgs. n. 108/2017, e ciò indipendentemente dalla circostanza che la cooperazione si instauri, o meno, fra i Paesi membri dell’Unione europea:
a) la complessiva revisione degli strumenti della cooperazione, il cui novero viene ampliato fino a ricomprendere mezzi di acquisizione probatoria di natura tecnologica (come l’esame mediante videoconferenza o la teleconferenza), oppure forme di assistenza non rogatoriali sviluppatesi a livello convenzionale (come le squadre investigative comuni);
b) una maggiore rapidità nei meccanismi della cooperazione, che viene perseguita favorendo la diretta corrispondenza tra autorità giudiziarie e circoscrivendo l’area di incidenza dei poteri del Ministro della giustizia;
c) la semplificazione del procedimento di esecuzione mediante l’eliminazione dell’exequatur della corte d’appello;
d) l’imposizione di termini precisi ai fini dell’espletamento delle richieste di assistenza da parte delle autorità coinvolte;
e) la garanzia di una maggiore efficacia, in termini di utilizzabilità nel procedimento in corso nello Stato assistito, dei risultati probatori della mutua assistenza, prevedendo che l’autorità richiedente possa essere autorizzata ad assistere al compimento degli atti;
f) la riformulazione, sul versante attivo, della disposizione relativa all’inutilizzabilità degli atti assunti con rogatoria e la disciplina dell’uso probatorio di atti o informazioni spontaneamente trasmessi dall’autorità straniera.
Il tradizionale procedimento rogatoriale seguiva le cadenze di uno schema binario incentrato sulla previsione di un doppio vaglio delibativo, di natura sia politica che giurisdizionale. In conformità ai criteri dettati dalla legge delega, il d.lgs. n. 149/2017 ha profondamente inciso su tale assetto, introducendo disposizioni finalizzate ad un contenimento dei poteri di spettanza ministeriale, diversificati nella loro incidenza a seconda del contesto entro cui si inserisce la domanda di assistenza giudiziaria: nel caso in cui la stessa abbia ad oggetto rapporti con Stati membri dell’Unione europea il potere di blocco del ministro permane nella misura in cui le fonti euro-unitarie lo contemplino, mentre nell’ipotesi di rapporti con Stati diversi da quelli dell’Unione europea si conferma quanto già sancito nella norma previgente, ossia che il potere di non dare corso alla rogatoria può essere esercitato nei casi – di valenza strettamente politica – di pericolo per la sovranità, la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato, di inadeguate garanzie di immunità nei confronti della persona citata o di mancanza di idonee garanzie di reciprocità, nonché nelle ulteriori ipotesi – oggetto di un successivo controllo anche in sede giudiziaria – di contrarietà dell’atto richiesto alla legge o ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, o di pericolo di trattamenti discriminatori. Orbene, se si considera che nella prospettiva euro-unitaria tutti gli atti normativi adottati sulla base del principio del mutuo riconoscimento mirano a fluidificare la cooperazione attraverso la previsione di procedure semplificate, con l’abolizione di ogni vaglio di opportunità politica, e che la normativa interna di ratifica della convenzione di assistenza giudiziaria del 29 maggio 2000 sembra essersi mossa, pur essa, nella direzione della “depoliticizzazione” del sistema di assistenza giudiziaria, è evidente che la riforma del sistema mira ad introdurre nel corpo codicistico procedimenti di mutua assistenza a struttura differenziata: una procedura “a tempo unico”, con vaglio esclusivamente giudiziario, nei rapporti tra Stati dell’Unione europea; una procedura “a due tempi”, che conserva oltre al vaglio giudiziario anche la funzione di filtro politico, al di fuori di tale circuito5. Innovazioni di particolare rilievo, inoltre, hanno riguardato la fase “giudiziaria” del procedimento rogatoriale, con riferimento alle determinazioni dell’autorità competente all’exequatur e all’esecuzione della rogatoria. Mentre nel precedente sistema la garanzia giurisdizionale ruotava attorno alla competenza della corte d’appello, che deliberava sull’ammissibilità della richiesta di assistenza, delegando l’esecuzione ad un suo componente o al g.i.p., il novellato art. 724 affida al procuratore della Repubblica presso il capoluogo del distretto del luogo nel quale deve compiersi l’attività richiesta la competenza non solo a ricevere la richiesta di assistenza giudiziaria, ma anche a provvedere sull’ammissibilità della stessa e sulla sua esecuzione, salvo che si tratti di un atto del giudice o per il quale sia richiesta l’autorizzazione del giudice. Se, da un lato, emerge con chiarezza che le istanze di semplificazione sotto il profilo procedurale sono state realizzate affievolendo l’intensità del vaglio in sede giudiziaria e individuando nel dominus delle indagini l’organo esecutivo delle richieste di assistenza, sulla falsariga di quanto previsto nell’attuazione della direttiva sull’ordine europeo di indagine penale, dall’altro lato si è osservato che i medesimi risultati avrebbero potuto raggiungersi prevedendo che la Corte d’appello, in caso di accoglimento della domanda, delegasse il pubblico ministero allorché la richiesta riguardasse il compimento delle indagini, ovvero il g.i.p. quando l’attività fosse di competenza del giudice, eliminando così la possibilità di investire un consigliere delegato della stessa Corte6. Peraltro, l’attribuzione di un vaglio delibativo al procuratore, che nell’ipotesi di accoglimento della richiesta provvederà anche all’esecuzione, determina sostanzialmente la reiterazione degli stessi “passaggi” precedentemente previsti, ma a parti invertite7. Ove sussista, infatti, la necessità di un intervento del giudice, ovvero di atti da compiersi dinanzi a quest’ultimo, il procuratore li dovrà trasmettere al g.i.p. distrettuale per l’attività di sua competenza, ma nella prima ipotesi gli atti torneranno nuovamente al procuratore per l’esecuzione. Pur difettando la possibilità di impugnare il provvedimento ammissivo della richiesta (carenza giustificabile con le esigenze di segretezza delle attività d’indagine, ma certamente produttiva di un deficit di tutela dei soggetti coinvolti dal procedimento rogatoriale), deve ritenersi, pertanto, che l’eliminazione dell’exequatur della Corte d’appello non comporta l’abolizione di ogni controllo in sede giudiziaria, ma, più semplicemente, la redistribuzione – nella prospettiva, ritenuta centrale, di una maggiore efficienza dell’attività investigativa – della funzione di controllo circa l’ammissibilità/legittimità della richiesta, sinora attribuita alla Corte d’appello, tra il procuratore distrettuale e il g.i.p., che la eserciteranno sugli atti di rispettiva competenza8. Quanto all’oggetto del vaglio di ammissibilità, il procuratore distrettuale – ovvero il g.i.p. nei casi di sua competenza – dovrà anzitutto procedere ad un vaglio preliminare sulla ritualità dell’investitura (che comprende, ad es., la verifica sulla competenza territoriale e sui canali di comunicazione previsti dalle norme pattizie e dal codice), sulla legittimazione dell’autorità richiedente, sulla natura e finalità dell’attività richiesta nonché, in generale, sull’osservanza delle formalità prescritte dal diritto internazionale e, in mancanza, dalle norme interne9. Esaurita questa prima fase, occorre poi accertare la sussistenza delle condizioni che rendono esigibile la richiesta di assistenza dello Stato straniero. Ai sensi dell’art. 724, co. 6, l’esecuzione della richiesta di assistenza dovrà infatti essere rigettata se:
a) gli atti richiesti dall’autorità straniera sono vietati dalla legge o contrari all’ordinamento giuridico dello stato (co. 7, lett. a);
b) il fatto per cui procede l’autorità straniera non è previsto come reato anche dalla legge italiana (co. 7, lett. b), e non risulta il consenso (liberamente espresso) dell’imputato alla domanda di assistenza giudiziaria;
c) vi sono fondate ragioni per ritenere che il processo per cui è richiesta assistenza sia “discriminatorio” (co. 7 lett. c), e non risulta il consenso (liberamente espresso) dell’imputato alla relativa richiesta.
Sotto il profilo delle modalità esecutive, e in particolare della legge applicabile per il compimento degli atti richiesti, è stata confermata (art. 725, co. 1) la regola della lex loci temperata, secondo cui trova applicazione la normativa processuale interna, salva l’osservanza delle forme espressamente richieste dall’autorità straniera che non siano contrarie ai principi dell’ordinamento giuridico dello Stato, in linea con quanto sempre più frequentemente è previsto negli accordi internazionali e con quanto previsto nel sistema dell’ordine di indagine europeo e nella normativa interna di attuazione della Convenzione di Bruxelles del 29.5.2000. Sul versante attivo delle domande di assistenza, rimane inalterata, sia pure con qualche variante lessicale, la disposizione secondo cui, allorquando le norme pattizie consentono l’esecuzione della rogatoria secondo le modalità previste nel nostro ordinamento, l’autorità giudiziaria italiana, nel formulare la richiesta, dovrà specificare le modalità e le forme da seguire secondo la legge, ai fini dell’utilizzabilità degli atti richiesti nel procedimento in corso in Italia (art. 727, co. 9). Si conferma, in tal modo, l’ipotesi di una deroga convenzionale al principio della lex loci, con l’annesso obbligo dell’autorità procedente di indicare le forme e le modalità da seguire affinché l’atto sia utilizzabile nell’ordinamento interno, ma non il regime relativo alle conseguenze della sua inosservanza, poiché in base alla nuova formulazione dell’art. 729, co. 2, l’esecuzione della richiesta di assistenza con forme e modalità diverse da quelle richieste darà luogo alla sanzione della inutilizzabilità «solo nei casi in cui l’inutilizzabilità è prevista dalla legge».
Anche l’istituto dell’estradizione registra modifiche di significativo rilievo con riguardo al versante passivo della relativa procedura, poiché la modifica dell’art. 698, co. 2, c.p.p. ha dato seguito alla decisione di C. cost., 27.6.1996, n. 223 relativa all’estradizione per reati punibili, o puniti, con la pena di morte, stabilendo che l’estradizione può in tale ipotesi concedersi solo quando si accerti che è stata adottata una decisione irrevocabile che irroga una pena diversa dalla pena capitale ovvero, se inflitta, sia stata commutata in una pena diversa: nel caso in questione, dunque, non sarà possibile accogliere la correlativa domanda di estradizione processuale10. Si è inoltre prevista una più precisa ripartizione di competenze fra il Ministro e l’autorità giudiziaria, poiché al primo spetta la valutazione circa la possibilità di rifiutare l’estradizione quando questa comprometta sovranità, sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato, mentre parametri più precisi ne regolano il potere di rifiutare l’estradizione del cittadino con riferimento ai profili della gravità del fatto, della rilevanza degli interessi lesi dal reato e delle condizioni personali dell’interessato. La struttura del procedimento passivo è confermata nelle sue linee portanti, poiché l’estradizione si realizza mediante una fase giurisdizionale (presso la Corte d’appello) e una fase amministrativa (che vede protagonista il Ministro della giustizia, che apre e chiude il procedimento), ma la nuova disciplina prevede che l’estradizione non sia il solo strumento di consegna allo Stato estero, dal momento che nell’ambito euro-unitario è possibile attivare la diversa disciplina del mandato d’arresto europeo, che consente l’attivazione di una procedura di consegna più rapida e facilitata dei ricercati, basata sul principio del mutuo riconoscimento (art. 697 c.p.p.). Una maggior tutela dell’estradando, peraltro, si realizza attraverso la previsione dell’obbligo, in capo al Procuratore generale, di procedere al suo interrogatorio e della indefettibilità della presenza del difensore al momento della dichiarazione dell’eventuale consenso all’estradizione e della rinuncia al principio di specialità. È introdotta la possibilità per l’autorità italiana, ove prevista da convenzioni internazionali, di chiedere direttamente a quella estera la trasmissione di documentazione e informazioni suppletive. Una maggiore celerità del procedimento di estradizione passiva ha ispirato, inoltre, la previsione dei termini entro i quali devono svolgersi le diverse attività, poiché l’art. 703 c.p.p. dispone che il Ministro, nel caso in cui dia corso alla domanda, la trasmette entro trenta giorni al Procuratore generale competente, il quale a sua volta deve presentare le proprie requisitorie nei successivi trenta giorni. Anche la Corte di appello e quella di cassazione devono rispettare un termine, sia pure ordinatorio, di sei mesi per l’adozione delle relative decisioni, con la conseguenza che il procedimento di estradizione dovrebbe concludersi al massimo entro il termine di quattordici mesi, cui devono tuttavia aggiungersi i tempi per la decisione ministeriale sulla consegna e quelli relativi alla sua materiale esecuzione allorché venga concessa, oltre ai tempi dell’eventuale giudizio di impugnazione in sede amministrativa, che sarebbe stato preferibile eliminare radicalmente, ovvero circoscrivere ad ipotesi eccezionali, tassativamente predeterminate dal legislatore. Maggiormente incisive risultano le novità sul versante dell’estradizione attiva, là dove si è ridefinita la natura del principio di specialità, il cui ambito di garanzia è stato riconfigurato come introduttivo di una causa di sospensione non operante nella fase delle indagini, ma soltanto con riguardo alla fase processuale, ossia dopo che è stata esercitata l’azione penale. L’ordinanza di sospensione è ricorribile per cassazione dal p.m., dall’imputato e dal suo difensore, ma il ricorso non ha effetto sospensivo. La sospensione del processo, peraltro, non impedisce il compimento di eventuali atti urgenti e l’assunzione delle prove non rinviabili, nonché di quelle che possono determinare il proscioglimento per fatti anteriori alla consegna. Il principio di specialità, tuttavia, non opera quando:
a) lo Stato estero ha consentito all’estensione;
b) l’estradato ha espresso il proprio consenso con le modalità indicate nell’articolo 717, co. 2 e 2 bis;
c) l’estradato, avendone avuta la possibilità, non ha lasciato il territorio dello Stato trascorsi quarantacinque giorni dalla sua definitiva liberazione oppure se, dopo averlo lasciato, vi ha fatto volontariamente ritorno.
La relazione illustrativa, sul punto, afferma che il nuovo testo dell’art. 721 c.p.p. deve leggersi congiuntamente con la nuova disposizione di cui all’art. 721 bis c.p.p., precisando che lo scopo della norma in esame è quello di impedire che la pendenza del processo possa costituire l’occasione per l’esecuzione di provvedimenti restrittivi della libertà personale. In altri termini, resta fermo il principio che la specialità preclude l’adozione di provvedimenti limitativi della libertà, non anche che non si possa sottoporre a processo l’estradando per fatto anteriore, sempre che la sospensione del processo non sia prevista da convenzione internazionale e sempre che non ricorrano le condizioni per le quali la garanzia non opera. Ne discende che non è preclusa l’attività di indagine, anche solo in funzione della raccolta di gravi indizi di reato ai fini dell’ottenimento di un titolo cautelare. Si ritiene pertanto ammissibile, secondo la relazione illustrativa, «porre in essere tutta l’attività necessaria all’emissione del provvedimento di custodia cautelare strumentale alla richiesta di estensione dell’estradizione. Sarebbe infatti paradossale che il principio impedisse la richiesta di estensione che rappresenta conseguenza logica della specialità e che per poter essere fruita necessita tuttavia della medesima documentazione di quella principale: id est un provvedimento restrittivo che peraltro può essere emesso soltanto quando sussistano i presupposti».
Una rilevante novità è infine rappresentata dall’inserimento nel codice dell’istituto del trasferimento dei procedimenti penali (artt. 746 bis ss. c.p.p.), al fine di ovviare ad eventuali conflitti di giurisdizione e, in prospettiva, di evitare il realizzarsi di evenienze in contrasto con il principio del ne bis in idem. Il legislatore ha individuato, quale presupposto indefettibile per la procedura di trasferimento, l’esistenza di una convenzione internazionale che ne preveda l’attivazione. Inoltre, potrà farsi luogo al trasferimento o alla sua assunzione solo in una fase antecedente all’esercizio dell’azione penale. Quando si tratta di trasferimento all’estero, sono indicati alcuni criteri – non elencati secondo un ordine di priorità tassativo – dei quali deve tenersi conto ai fini della decisione, essenzialmente con riferimento alla valutazione dell’esistenza di più stretti legami territoriali con il fatto o con le fonti di prova. L’iniziativa spetta al p.m. che ne dà comunicazione al Ministro della giustizia, il quale può vietare l’esecuzione del trasferimento nel caso di compromissione della sicurezza, della sovranità o di altri interessi essenziali dello Stato, nonché nell’ipotesi di un processo che non assicuri il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento, ovvero quando vi sia motivo di ritenere che l’indagato potrà essere sottoposto ad atti persecutori o discriminatori o comunque ad atti che configurano la violazione di uno dei diritti fondamentali della persona. La scelta è dunque affidata al p.m. e, nel caso di trasferimento all’estero, è subordinata ad una sorta di placet del Ministro della giustizia; ove il trasferimento sia possibile, tuttavia, il g.i.p. emette decreto di archiviazione esercitando un potere di controllo in ordine al rispetto dei criteri di cui all’art. 746 bis.
La scelta legislativa in merito alla configurazione della specialità nell’estradizione attiva è stata criticata dalla dottrina poiché, diversamente dalle previsioni contenute nella legge delega, ed in particolare nell’art. 4, co. 1, lett. d), n. 12, che statuisce che nell’estradizione dall’estero il principio di specialità opera come causa di sospensione del procedimento – con sospensione automatica della prescrizione – e dell’esecuzione della pena, senza precludere l’assunzione di atti urgenti o di prove non rinviabili o comunque idonee a determinare il proscioglimento dell’estradato per fatti anteriori alla consegna, il legislatore delegato ha modificato solo in parte il principio, che, pur configurato quale causa di sospensione, non opera nella fase delle indagini, ma solo in relazione alla fase processuale11. In forza del legame tra la sua operatività ed il momento in cui l’estradato rientra nel territorio dello Stato, nonché tra la sospensione e questo elemento, il procedimento dovrebbe invece “bloccarsi” nella fase in cui si trova al momento del rientro. Ulteriore profilo critico investe la normativa sul trasferimento dei procedimenti penali, poiché non è chiaro se il limite temporale legato alla fase antecedente all’esercizio dell’azione penale riguardi solo il nostro Stato ovvero anche il procedimento straniero e, in altri termini, se il parallelismo tra procedimenti riguardi soltanto i fatti per i quali si procede o coinvolga anche la fase nella quale gli stessi si trovano12.
1 Selvaggi, E., Trasmissione diretta senza passare per il Ministero, in Guida dir., 2017, fasc. 25, 47 ss.
2 C. cost., 3.3.1997, n. 58.
3 Ponti, C., Riforma dell’assistenza giudiziaria penale e tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento italiano. Dalla legge n. 149 del 2016 al recepimento della direttiva 2014/41/UE, in www.legislazionepenale.eu, 2.10.2017, 10.
4 Marchetti, M.R., Cooperazione giudiziaria: innovazioni apportate e occasioni perdute, in Dir. pen. e processo, 2017, 1545 ss.; Ruggieri, F., Il Libro XI del codice di rito. Guida minima, in Cass. pen., 2018, 1766 ss.; De Amicis, G., Dalle rogatorie all’ordine europeo di indagine: verso un nuovo diritto della cooperazione giudiziaria penale, in Cass. pen., 2018, 25 ss.
5 Di Paolo, G., La riforma della disciplina codicistica delle rogatorie internazionali, in Cass. pen., 2018, fasc. 12 (in corso di pubblicazione).
6 Marchetti, M.R., Cooperazione giudiziaria, cit., 1547.
7 Arasi, S., “Nuovi” rapporti giurisdizionali con le autorità straniere: le modifiche al codice di procedura penale, in Proc. pen. e giust., 2018, 580.
8 Di Paolo, G., La riforma, cit.
9 Marchetti, M.R., Rapporti giurisdizionali con autorità straniere, in Compendio di procedura penale, a cura di M. Bargis, Padova, 2018, 1090 ss.
10 Marchetti, M.R., Cooperazione giudiziaria, cit., 1548.
11 Marchetti, M.R., op. ult. cit., 1549.
12 Marchetti, M.R., op.ult.cit., 1551.