NOTARBARTOLO di San Giovanni, Emanuele
NOTARBARTOLO di San Giovanni, Emanuele. – Nacque a Palermo il 23 febbraio 1834. Il padre Leopoldo, marchese di San Giovanni, aveva sposato Maria Teresa, figlia di suo fratello Filippo principe di Sciara.
I genitori erano dunque strettamente imparentati e può darsi che il loro matrimonio rispondesse alle logiche di difesa dell’unità dei patrimoni proprie delle famiglie aristocratiche nella fase storica successiva all’abolizione del maggiorasco.
La famiglia era di fede borbonica. Leopoldo prestò servizio nell’amministrazione del Regno delle Due Sicilie, prima a Chieti come intendente dell’Abruzzo Citra, poi a Napoli come consigliere della Gran Corte dei conti. Il nonno, Francesco Paolo principe di Sciara, nel 1861 seguì Francesco II in esilio e non si riconciliò mai con la nuova Italia.
Notarbartolo risentì poco di influenze familiari, perché restò prestissimo orfano della madre e quand’era appena tredicenne anche del padre. Sotto la tutela di uno zio, continuò gli studi a Palermo e a Monreale, presso i gesuiti e i benedettini, finché giunse alla maggiore età. La biografia scritta dal figlio riferisce che in quella fase risiedeva, in «solitudine assoluta» (Notarbartolo, 1949, p. 26), in un’ala del diroccato castello arabo-normanno della Zisa, eredità dai suoi parenti Sandoval, mentre la gestione del suo non ingente patrimonio fondiario era affidata ai soliti intermediari. Quando prese a interessarsi di politica si indirizzò, al pari di altri giovani palermitani delle classi superiori, verso il liberalismo moderato, e fu per questa ragione che – stando alla citata biografia – la polizia cominciò a occuparsi di lui nel 1857. Si risolse così a lasciare Palermo.
Al termine di un viaggio di formazione e istruzione in diversi paesi d’Europa e nell’Italia settentrionale, si fermò a Firenze, dove prese contatto con gli esponenti dell’emigrazione politica siciliana delle stesse sue idee e della stessa sua condizione sociale, in particolare con l’antico leader del ’48 Mariano Stabile. Nel 1859, quando scoppiò la guerra tra i franco-piemontesi e gli austriaci, si arruolò nell’esercito sardo. Divenuto ufficiale, si dimise nel 1860 per unirsi ai garibaldini che nel frattempo erano sbarcati a Marsala, e dopo non poche peripezie realizzò l’intento, combattendo a Milazzo. Riuscì poi (e nemmeno questo fu facile) a farsi riammettere nell’esercito regolare, venendo impegnato nelle operazioni contro il ‘grande’ brigantaggio alla frontiera pontificia e in altre zone del Mezzogiorno continentale. Lasciò definitivamente la divisa nel 1864, proprio mentre prendeva in moglie Marianna Merlo, anche lei di famiglia aristocratica. La coppia ebbe tre figli: Teresa, Leopoldo, Antonietta.
Avendo evidentemente realizzato che non era quella militare la sua strada da adulto, si buttò nella politica palermitana, assumendo a principale riferimento Antonio Starabba marchese di Rudinì, che giovanissimo si era portato alla guida del partito moderato nell’ex capitale siciliana, assumendo nel 1863 la carica di sindaco. Nell’amministrazione Rudinì, Notarbartolo fece i suoi esordi nel 1865 quale assessore, con particolare delega per il problema dei forni municipali.
Nella Palermo del tempo erano in campo, oltre a quello liberal-moderato filogovernativo, tre partiti d’opposizione: il regionista, nelle sue componenti clericale e liberale, il democratico-costituzionale, il democratico-radicale. Tali partiti erano accomunati dalla protesta contro la ‘dittatura’ dei moderati e la ‘piemontesizzazione’, ma anche divisi. La seconda occupazione o liberazione garibaldina dell’isola, nel 1862, aveva fruttato le fucilate dell’Aspromonte, la proclamazione dello stato d’assedio, misteriosi complotti e assassini politici, abusi delle autorità, operazioni militari nelle campagne, minacce insurrezionali. Si giunse in effetti, nel settembre 1866, all’ennesima insurrezione palermitana, che lasciò la città per sette giorni e mezzo nelle mani dell’ala ex garibaldina, ora attestata su posizioni repubblicano-internazionaliste, e di altri soggetti non altrettanto identificabili; seguì la repressione dell’esercito. Con scarsa verosimiglianza, il moto venne ridotto dal governo, e dai moderati locali, a fenomeno meramente delinquenziale o mafioso. L’opinione pubblica locale lo ricondusse viceversa a un complotto del questore Felice Pinna inteso a criminalizzare le opposizioni, e che gli era scappato di mano. Rudinì, che personalmente si era distinto in uno scriteriato tentativo di fronteggiare armi alla mano i rivoltosi, si dimise da sindaco e passò (per un anno) a esercitare il ruolo di prefetto, come a sottolineare un proprio ruolo di rappresentante dello Stato, piuttosto che della società locale. La città lo ricambiò con un’ostilità che sarebbe durata decenni. Sul breve periodo, si ebbe il trionfo del gruppo clerico-regionista nelle elezioni del 1868 e del 1869, per quanto la Destra e la Sinistra moderata si fossero alleate appositamente per contrastarlo.
La domanda del mercato internazionale sollecitava intanto dinamismi, investimenti, trasformazioni intensive nell’agricoltura siciliana. Notarbartolo, che non disponeva di grandi beni aviti, si lasciò affascinare dal modello del proprietario ‘moderno’ e imprenditore, per seguire il quale si impegnò nel miglioramento delle coltivazioni nella sua azienda agraria di Meldolilla, in una zona interna della provincia di Palermo, presso Caccamo. Da quello che si può capire, l’operazione non si rivelò molto redditizia. Gli accadde per giunta di essere sequestrato da certi banditi, e di dover pagare un riscatto per essere liberato.
La coalizione liberale Destra-Sinistra sconfisse i regionisti nelle elezioni del 1873 e, in una logica che si direbbe oggi bipartisan, indicò come sindaco Notarbartolo, per il suo profilo etico-politico elevato, e per la fama di amministratore ‘severo’ che si era conquistato. Mantenne la carica per tre anni, dando grande impulso alla trasformazione edilizia per cui Palermo assunse il suo volto ‘moderno’ tardo-ottocentesco fatto di piazze, teatri e vie ariose, ma anche regolarizzando e risanando le finanze dell’amministrazione municipale.
Le vicende drammatiche del 1866 gli avevano però lasciato il gusto amaro di chi si sente straniero in patria, in quanto rappresentante in quell’Italia estrema dell’idea di patria e di Stato propria della migliore Destra. Non doveva in particolare sentirsi a suo agio nel ruolo di amministratore locale, esposto alle oscillazioni dell’opinione pubblica, al gioco dei gruppi di pressione, alle mutevoli scomposizioni e ricomposizioni dei partiti. Il problema era destinato ad aggravarsi man mano che, su scala siciliana e meridionale, le istanze democratiche della Sinistra storica si andavano collegando con quelle regionaliste della Sinistra giovane per portare il vittorioso assalto al più che decennale monopolio del potere della Destra.
Notarbartolo fu così ben lieto di abbandonare il terreno più immediatamente politico quando, il 1° febbraio del 1876, il presidente del Consiglio Marco Minghetti lo nominò direttore generale del Banco di Sicilia su proposta del prefetto palermitano Luigi Gerra. Il governo cadde di lì a poco più di un mese. Qualche tempo ancora e Notarbartolo abbandonò la carica di sindaco.
La nomina di Notarbartolo alla guida del Banco fu intesa a sottrarre il migliore esponente della Destra palermitana alle conseguenze di una sconfitta che sarebbe stata definitiva, ma anche a realizzare il salvataggio di un istituto di credito in difficoltà per le eccessive esposizioni nei confronti di alcune società e massimamente della casa armatoriale palermitana Trinacria, che in effetti fallì. Il nuovo direttore fece valere le ormai riconosciute competenze di amministratore, e riuscì nell’intento. Critico della finanza allegra dei suoi predecessori, rilevò che una stretta creditizia avrebbe avuto i suoi vantaggi per l’economia regionale. Entrò così, armato del classico argomento liberista, nelle polemiche tra ‘produttori’ (proprietari fondiari) e ‘speculatori’ (commercianti e finanzieri) che accompagnavano l’ingresso della Sicilia nel grande mercato internazionale, zolfifero, vitivinicolo, agrumario.
La congiuntura internazionale mutò negli anni Ottanta, e calò sull’economia siciliana lo spettro della depressione. Nel 1887 ascese alla guida del governo Francesco Crispi, grande leader della Sinistra costituzionale palermitana, e antico avversario politico di Notarbartolo, il quale nondimeno sembrò raggiungere una buona intesa con il nuovo ministro dell’Agricoltura Luigi Miceli, da cui il Banco dipendeva. Dell’appoggio governativo, aveva un gran bisogno per resistere al ‘partito’ che puntava ad allentare i cordoni della borsa nel Consiglio generale dal Banco, sorta di organismo corporativo composto da 50 membri nominati per i due terzi dalle Camere di commercio e dai Consigli provinciali siciliani.
In alcune lettere riservatissime inviate a Miceli dell’aprile 1889, Notarbartolo denunciò la forte ostilità «personale» promanante da un Consiglio che, spiegava, era composto da gente di nessuna competenza bancaria; che rispondeva solo a logiche di sovraeccitate «lotte elettorali»; che si proponeva di «asservire la Direzione generale e le Commissioni di sconto», di «invadere tutti i campi» (Giuffrida, II, 1973, pp. 320-328). Notarbartolo rilevava un contrasto di tipo strutturale, che era nondimeno accentuato dalla sfavorevole congiuntura, dal calo dei prezzi agricoli che metteva in difficoltà le banche popolari dei cui finanziamenti si era alimentata la trasformazione fondiaria. Il direttore del Banco di Sicilia, che (al pari di quello di Napoli) aveva garantito il risconto, cercava di rientrare e tendeva a chiudere i rubinetti del credito. I membri del Consiglio protestavano, e lo facevano con più veemenza i non pochi che erano debitori del Banco.
Mentre il direttore generale aspettava una riforma che stabilisse le giuste gerarchie tra lui stesso, il suo staff tecnico, e il Consiglio, le sue lettere riservatissime furono trafugate dal tavolo del ministro, e ricomparvero misteriosamente nella mani di alcuni membri del Consiglio, che le misero in discussione nella seduta del 19 maggio dando il là a una sequenza di attacchi alla figura e all’azione di Notarbartolo, in cui si distinse Raffaele Palizzolo, deputato palermitano al Parlamento proveniente dal partito regionista, molto chiacchierato per le sue relazioni con gruppi mafiosi. Alla fine venne votata una mozione di sfiducia, destinata peraltro a essere invalidata visto che il direttore dipendeva dalla fiducia del governo, e non del Consiglio. Ad aggravare i problemi venne l’idea di Miceli di costituire una società di navigazione italo-britannica, intesa a incrementare la concorrenza di modo da conseguire un ribasso delle tariffe per gli esportatori. Notarbartolo accettò di sostenere il progetto. Si oppose invece duramente la Navigazione generale italiana, la più grande società armatoriale nazionale, controllata dalla famiglia imprenditoriale palermitana dei Florio, che era ed era stata la maggiore destinataria del sostegno pubblico nel settore. La Navigazione generale mobilitò i numerosi suoi soci d’affari, clienti e beneficati, compresi molti consiglieri del Banco e in particolare Palizzolo, aspettandosi certo il sostegno di Crispi, tradizionalmente suo massimo sponsor. Il progetto in effetti non si concretizzò. La posizione di Notarbartolo ne uscì ulteriormente indebolita. Dopo mesi di polemiche e incertezze, il 6 febbraio 1890, il governo decretò lo scioglimento dell’amministrazione del Banco di Sicilia (come di quello di Napoli) e il direttore generale fu allontanato dalla carica.
Tre anni più tardi, il 1° febbraio 1893, Notarbartolo fu trovato assassinato su una carrozza ferroviaria in corsa sulla linea Termini-Palermo.
Potrebbe dirsi che egli ebbe un ruolo storico importante da morto più che da vivo, perché il suo assassinio viene giustamente indicato come una svolta periodizzante nella storia della mafia. Nel Palermitano quest’organizzazione, o insieme di organizzazioni (criminali, politiche e affaristiche insieme), forniva ai proprietari custodi ed esercenti per le aziende, guardaspalle, intermediari commerciali, galoppini elettorali, proteggendo e ottenendo protezione, attivando meccanismi di scambio materiale e simbolico che non prevedevano l’assassinio dei membri dell’establishment, ma anzi implicavano un atteggiamento deferenziale nei loro confronti. Eppure la ‘voce pubblica’ indicò subito come esecutore del delitto un boss di Villabate, Giuseppe Fontana, e come mandante Palizzolo. Il figlio del morto, Leopoldo, e il cognato, Gaetano Merlo, tentarono inutilmente di indurre il questore Michele Lucchesi e il procuratore Vincenzo Cosenza a concentrare le indagini sul primo e ancor più sul secondo. Accolsero con grandi speranze l’avvento di Rudinì alla guida del governo nel 1896, e ancor più l’invio in Sicilia di Giovanni Codronchi, suo fedelissimo, come commissario civile con pieni poteri. Dovettero però ricredersi prendendo atto dell’alleanza stretta da quest’ultimo con Palizzolo. Alla fine trovarono comunque un interlocutore al massimo livello in Luigi Pelloux, successore di Rudinì, mentre a Palermo Giuseppe Marchesano, avvocato socialista, assumeva il patrocinio della parte civile. Si formò per questa via nel capoluogo siciliano un’alleanza ‘spuria’ tra una destra aristocratica già rudiniana e i socialisti in cerca di un modo per rientrare nella vita politica dopo la repressione del movimento dei Fasci, risalente ad appena due anni prima.
La mafia divenne negli anni seguenti un oggetto familiare all’opinione pubblica italiana anche perché i tre processi Norbartolo si svolsero, per legittima suspicione, sul ‘continente’. Il primo, a Milano, in cui erano imputati solo due ferrovieri che si volevano necessari complici degli assassini, si risolse in una tumultuosa messa sotto accusa – a opera della parte civile – di Fontana e soprattutto di Palizzolo, che non erano imputati (1899-1900). Cosenza fu alla fine quasi costretto a incriminare i due, che vennero arrestati tra mille clamori e condannati entrambi al termine di un processo tenutosi a Bologna (1901-02); la sentenza però venne annullata per un vizio di forma dalla Cassazione. Il terzo processo di Firenze si concluse con un’assoluzione generale per insufficienza di prove (1903-04). Fontana emigrò negli Stati Uniti, dove si legò ai nascenti gruppi della mafia siculo-americana per poi finire ammazzato. Palizzolo tornò a Palermo accolto come un eroe dai molti che lo consideravano un perseguitato politico, e che più in generale ritenevano la mafia un’invenzione dei continentali intesa a diffamare i siciliani.
Va valutata sull’opposto versante la capacità dell’alleanza formatasi nel nome di Notarbartolo di mobilitare pezzi consistenti del mondo politico isolano e dell’opinione pubblica intorno a una questione giudiziaria, politica e morale insieme. Una vasta pubblicistica denunciò la mafia e le sue relazioni col potere ufficiale. I materiali processuali confutarono la tesi ‘negazionista’ e ancor più lo fece la documentazione imponente raccolta nel corso della tardiva reazione delle istituzioni, soprattutto con la nomina a questore di Palermo di Ermanno Sangiorgi. Grazie a queste fonti la ricerca storica può raggiungere ragionevoli certezze sui motivi del delitto e sul contesto in cui maturò.
È certo che Notarbartolo, pur allontanato nel febbraio 1890 dalla direzione del Banco, fu tenuto al corrente (dai suoi fedeli all’interno del Banco stesso) dell’impiego illegale di fondi dell’istituto consentito dal suo successore, Giulio Benso duca della Verdura. Questi fondi venivano utilizzati per sostenere il corso dei titoli azionari della Navigazione generale, che era il fulcro del più importante gruppo di pressione e di potere palermitano, della quale lo stesso nuovo direttore era azionista, e cui era vicino, come detto, anche Palizzolo. Costui peraltro speculava occultamente per proprio conto, al rimorchio di quell’operazione, e valendosi di alcuni brokers finanziari legati ad ambienti mafiosi, abituati a operare su scala internazionale: mafia moderna, così distante dall’usuale stereotipo primitivista. Una parte di questi intrighi venne fuori nel corso di un’ispezione ordinata da Giovanni Giolitti, allora presidente del Consiglio (e ministro del Tesoro), che era stata affidata al commendator Gustavo Biagini, il medesimo che tre anni prima aveva scoperto gli scandali della Banca romana. Molti ritenevano, non a torto, che l’ispezione si dovesse all’iniziativa di Notarbartolo, prevedendo un suo prossimo ritorno alla guida dell’istituto. Gli speculatori potevano temere di essere da lui del tutto smascherati e tagliati fuori ed è probabile che a quel punto sia scattato il complotto per eliminarlo.
Fonti e Bibl.: Tra i fondi documentari più importanti si segnalano: Imola, Biblioteca comunale, Carte Codronchi, Commissariato civile per la Sicilia, cat. 16, Processo Notarbartolo; Roma, Arch. centrale dello Stato, Ministero di Grazia e giustizia, Miscellanea affari penali, b. 126; Arch. di Stato di Palermo, Questura Gabinetto, 1900, b. 20. Le 31 relazioni firmate dal questore Sangiorgi nel 1898-1900 (conservate in Roma, Arch. centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, PS, Atti speciali 1898-1940, b. 1, f. 1) sono ora pubblicate in S. Lupo, Il tenebroso sodalizio. Il primo rapporto di polizia sulla mafia palermitana, Roma 2011. La biografia di Notarbartolo scritta dal figlio è certo agiografica, ma nel complesso attendibile e spesso affascinante: L. Notarbartolo, Memorie della vita di mio padre, E. N. di San Giovanni, Pistoia 1949. Sul periodo della sindacatura, cfr. O. Cancila, Palermo, Roma-Bari 1988, pp. 148-155. Sulla direzione del Banco, R. Giuffrida, Il Banco di Sicilia, II, Palermo 1973, pp. 307-319; nel volume sono riportati anche i testi delle lettere di Notarbartolo a Miceli (pp. 320-332). Sul progetto della società di navigazione anglo-sicula, e sui conflitti relativi, G. Barone, Crisi economica e marina mercantile nel Mezzogiorno d’Italia (1888-1894), in Arch. stor. per la Sicilia orientale, LXX (1974), 1, 1974, pp. 45-111. Sull’assassinio, le indagini, le coperture, le polemiche e i conflitti successivi, insomma sull’‘affare Notarbartolo’, cfr. G. Barone, Egemonie urbane e potere locale (1882-1913), in La Sicilia, a cura di M. Aymard - G. Giarrizzo, Torino 1987, pp. 191-371, in particolare pp. 307-319; P. Pezzino, Stato violenza società. Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, ibid., pp. 905-984, in particolare pp. 960-966; S. Lupo, Tra banca e politica: il delitto N., in Meridiana, 1990, n. 7-8, pp. 119-155; S. Lupo, Storia della mafia. Dalle origini ai giorni nostri, Roma 1993, pp. 103-148. La più completa versione della tesi accusatoria è quella di G. Marchesano, Processo contro Raffaele Palizzolo & C. Arringa, Palermo 1902. Vivacissime cronache del processo si trovano nei principali giornali siciliani e nazionali del tempo; insieme a commenti spesso tutt’altro che banali. Alcuni tra i testi ‘di battaglia’ comparsi in quella congiuntura sarebbero rimasti dei classici nel dibattito sulla mafia; citiamo in particolare: N. Colajanni, Nel regno della mafia. La Sicilia dai Borboni ai Sabaudi, Palermo 1900; G. De Felice Giuffrida, Maffia e delinquenza in Sicilia, Milano 1900; e gli scritti di Gaetano Mosca poi raccolti nel volume Uomini e cose di Sicilia, Palermo 1980. Di un certo interesse la versione letteraria fornita da P. Valera, L’assassinio N. o le gesta della mafia, Firenze 1899 (testo ripubblicato a cura e con introduzione di M. Sacco Messineo, S. Cesario di Lecce 2006).