norma linguistica
La norma linguistica può essere definita «come un insieme di regole, che riguardano tutti i livelli della lingua (fonologia, morfologia, sintassi, lessico, testualità), accettato da una comunità di parlanti e scriventi (o per lo meno dalla stragrande maggioranza) in un determinato periodo e contesto storico-culturale» (Giovanardi 2010: 17).
Il concetto di norma linguistica è complementare a quello di lingua standard (Berruto 1987: 61-62; ➔ italiano standard): ogni processo di standardizzazione, infatti, prevede da un lato la scelta di una determinata ➔ varietà linguistica, dotata di particolare prestigio, come modello di riferimento, dall’altro una codificazione grammaticale (normazione) che consenta, attraverso vari canali, la propagazione di quel modello. I momenti di formazione, definizione e diffusione della norma si legano spesso all’idea di lingua nazionale (Bédard & Maurais 1983) e quindi alla convinzione che la lingua entri a pieno titolo nel concetto di nazione (sul caso italiano si veda Nencioni 2000). La norma «è a un tempo convenzione sociale e prodotto della storia» (Beccaria 2010: IX).
Fondamentale per la definizione del concetto di norma è la teorizzazione di Coseriu, secondo cui la norma rappresenta, concretamente, la media delle realizzazioni individuali (parole) delle possibilità esistenti, in astratto, nel sistema (langue). In questa prospettiva, per norma non si deve intendere quella «stabilita od imposta secondo criteri di correttezza e di valutazione soggettiva di quel che viene espresso», ma «la norma che seguiamo necessariamente se vogliamo essere membri di una comunità linguistica» (Coseriu 1971: 76). La norma, quindi, «dipende dall’estensione e dall’indole della comunità considerata» (Coseriu 1969: 250).
Con più diretto riferimento al giudizio linguistico della comunità e alla sanzione sociale che colpisce chi viola la norma, alcuni studiosi distinguono tra una norma implicita (detta anche norma sociale o norma di fatto), praticata nell’uso concreto, scritto e orale, e una norma esplicita, proposta dalle grammatiche dette appunto normative (➔ grammatica), che prescrivono alcune forme come corrette e ne proscrivono altre come errate. Di solito la norma esplicita si basa su quella implicita, di cui costituisce il naturale sviluppo storico; non mancano però differenze significative nel «processo storico di affermazione della ‘norma’, che a volte (come nel caso italiano) si è costituita più marcatamente nell’ambito della tradizione scritta, a volte (come nel caso francese) ha risentito piuttosto di quella parlata» (Sabatini 1985: 174). Nella storia dell’italiano, inoltre, non solo il peso della norma esplicita – rappresentata dalla cospicua tradizione grammaticale e lessicografica (➔ lessicografia) – è stato molto forte, ma le scelte normative, a volte particolarmente rigide, sono state effettuate non a posteriori, sulla base dell’accoglimento della norma di fatto, ma a priori, con riferimento a modelli letterari del passato, le cui scelte non sempre erano state avallate dal consenso sociale (Galli de’ Paratesi 1987; 1988). Ciò ha determinato, da un lato, il fatto che «il confine e la definizione stessa di norma hanno dato luogo a secolari discussioni e puntualizzazioni a cui ha preso parte, in passato, gran parte del ceto intellettuale» (Serianni 1991: 39; ➔ questione della lingua) e, dall’altro, il sorgere di vari conflitti tra norma e uso, di cui si colgono le tracce ancora nel corso del Novecento (➔ Novecento, lingua del):
vari tratti […] già presenti da tempo nel sistema (o insieme di sistemi) che è alla base della lingua italiana […] non furono accolti in quella particolare norma, definibile come supernorma, che dal secolo XVI in poi ha dominato l’uso standard della lingua italiana: la norma letteraria di tipo bembesco, alla quale, in ultima analisi, si sono attenute le codificazioni grammaticali (Sabatini 1985: 178).
La norma può anche essere «intesa come normalità, come varietà neutra, non marcata in senso stilistico e geografico» (Antonelli 2007: 46): non a caso Castellani (1991) propose di sostituire l’espressione italiano standard con «italiano normale», che è cosa alquanto diversa dall’«italiano normativo» di Galli de’ Paratesi (1984), che «tende a coincidere con lo standard più un’intelaiatura di purismo» (Berruto 1987: 61). In questo senso, la norma sarebbe rappresentata dalle scelte più comuni effettuate dai parlanti e dagli scriventi nei vari tipi testuali: così, per es., la riduzione della subordinazione sintattica nella prosa scritta di fine Novecento rispetto a quella di inizio secolo può essere interpretata come un esempio di spostamento della norma (Lepschy & Raponi 1989). In effetti, la norma linguistica, parallelamente allo standard, muta – più o meno lentamente – nel corso del tempo, in seguito a fatti interni o esterni alla lingua; tali spostamenti riguardano tanto la norma implicita quanto la norma esplicita: voci, forme e costrutti censurati come scorretti possono essere poi accolti nello standard, in seguito a uno spostamento (geografico, sociale, ecc.) della norma, o almeno del suo «baricentro» (Sabatini 1985: 171), ma si dà anche il caso di voci, forme e costrutti regolari, normali appunto, che a un certo punto finiscono con l’essere sanzionati e considerati scorretti, perché percepiti o come troppo arcaici o come regionali.
Manifestazione della norma esplicita e, al tempo stesso, strumento fondamentale per la sua definizione e diffusione è la grammatica di impostazione prescrittiva, tipica della tradizione italiana, fondata sui modelli della lingua letteraria, dalle Regole grammaticali di Francesco Fortunio (1516) in poi; la grammatica descrittiva, precocemente inaugurata nel Quattrocento dalla Grammatichetta vaticana di ➔ Leon Battista Alberti, documenta piuttosto la norma implicita.
Mentre ➔ Benedetto Croce attribuiva alla grammatica fini esclusivamente didattici, Antonio Gramsci la considerava come «la “fotografia” di una fase determinata di un linguaggio nazionale (collettivo) formatosi storicamente e in continuo sviluppo» e riteneva in particolare che la «grammatica normativa scritta» costituisse «una “scelta”, un indirizzo culturale, […] un atto di politica culturale-nazionale» (Gramsci 1975: 2341 segg.), rilevando poi che l’assenza di un insegnamento grammaticale prescrittivo «esclude dall’apprendimento della lingua colta la massa popolare nazionale» (ibid. 2349; cfr. Tesi 2005: 209-211).
Tra le grammatiche, si può distinguere il filone delle grammatiche scolastiche, i cui intendimenti sono spesso più nettamente prescrittivi, da quello delle grammatiche destinate alle persone colte, di impronta ‘persuasiva’ (per dirla ancora con Gramsci), che spesso si limitano a indirizzare i lettori verso le scelte considerate migliori. I due filoni hanno però una matrice comune e anche nel secondo si possono reperire, soprattutto tra i prontuari di dubbi grammaticali, che tuttora godono di grande successo editoriale, testi fortemente normativi, che forniscono regole precise, segnalando errori ed eventuali eccezioni (➔ regola).
Il rapporto tra norma e grammatica presenta anche altre implicazioni. I testi grammaticali hanno infatti spesso svolto una funzione modellizzante anche per tratti linguistici per i quali non forniscono una regolamentazione esplicita. Patota ha opportunamente definito le Prose della volgar lingua di ➔ Pietro Bembo (1525), che costituisce certamente l’opera fondamentale per la definizione della norma dell’italiano, come «una grammatica silenziosa, cioè una grammatica che non fornisce indicazioni normative solo mediante una loro codificazione esplicita, ma anche in altri modi» (Patota 1997: 71), tra cui l’esempio concreto della sua prassi scrittoria. Ciò è riscontrabile nella frase interrogativa con il pronome costantemente espresso e posposto al verbo, costrutto maggioritario (ma non esclusivo) nel Decameron, sistematicamente applicato nelle Prose e, grazie alla forza del ‘silenzioso’ modello bembiano, rimasto stabilmente a lungo nella lingua letteraria posteriore. Più in generale, è stato rilevato che l’adesione al modello letterario proprio della
codificazione grammaticale di matrice bembesca e [dei] suoi sviluppi successivi ha comportato la condanna, a volte esplicita, a volte implicita (ma conseguente a certe premesse) di vari fenomeni morfosintattici che nei primi secoli erano ammessi nelle scritture, ma poi ne sono stati per molto tempo emarginati (D’Achille 1990: 14)
Quanto al rapporto tra norma e scuola (➔ scuola e lingua), le grammatiche scolastiche, diffuse già dal Cinquecento (Marazzini 1997), hanno avuto importanza nella stabilizzazione della norma soprattutto in epoca postunitaria (Catricalà 1991). Anche in ambito scolastico, però, accanto alle prescrizioni fornite dai testi va valutato il peso di quella che è stata definita come «norma sommersa» (Serianni 2007), che si individua soprattutto nelle correzioni dei docenti ai testi scritti dagli alunni (analizzate, tra gli altri, da Benincà et al. 1974; Serianni & Benedetti 2009). L’italiano scolastico, definito suggestivamente come «italiano delle maestre» (Poggi Salani 2000: 89), è stato spesso particolarmente rigido e teso a privilegiare forme libresche talvolta estranee all’uso reale. Sebbene sia stata rilevata, nel corso dell’ultimo trentennio, una minore rigidità della norma scolastica («Gli anni Settanta del Novecento hanno introdotto nel mondo della scuola una forte tendenza alla demotivazione normativa in fatto di lingua»; Giovanardi 2010: 22), essa documenta tuttora, significativamente, la presenza di forme che studi linguistici basati prevalentemente sul parlato danno come scomparse o prossime alla scomparsa (da egli come soggetto al passato remoto). Se è per vari aspetti opportuno che la scuola punti a una certa prescrittività linguistica (si ricordi il monito di Gramsci sopra riportato), è anche vero che
[m]antenendo in vita un improbabile “scolastichese” fatto di recarsi per andare o inquietarsi per arrabbiarsi, la scuola instilla l’idea di una “doppia verità linguistica” (la forma corretta è egli, anche se parlando si dice lui, e così via), che continua ad avere pessimi effetti sulla capacità di gestire con disinvoltura il testo scritto (Antonelli 2007: 48)
Si aggiunga il fatto che la scuola ha diffuso anche pseudo-regole prive di fondamento storico ma che si sono a volte sedimentate nell’uso, come la censura della sequenza ma però o di e o ma all’inizio di frase (Sabatini 1997), l’evitamento della ripetizione della stessa parola a breve distanza, l’omissione dell’accento sul pronome sé (➔ accento grafico) quando seguito da stesso o medesimo, ecc.
Nella storia dell’italiano, accanto alle grammatiche, strumenti fondamentali per la diffusione della norma sono stati i dizionari, a partire dal Vocabolario degli Accademici della Crusca (➔ accademie nella storia della lingua): le stesse opposizioni che l’opera incontrò, già all’indomani della sua prima edizione (1612), dimostrano la consapevolezza che i letterati e in genere gli intellettuali italiani ebbero del suo peso normativo, non limitato al piano lessicale, che pure era, ovviamente, quello privilegiato. Se il fiorentinismo arcaizzante del vocabolario non attecchì del tutto neppure nel periodo di maggiore stabilità della norma, le scelte grafiche degli accademici ebbero un ruolo decisivo nella standardizzazione dell’ortografia italiana. Nel corso dell’Ottocento dizionari e raccolte di voci ‘errate’ e di provincialismi ebbero un peso notevole nell’affermazione della norma: lo stesso ➔ Alessandro Manzoni pensò di affidare a un dizionario dell’uso vivo fiorentino la diffusione, attraverso la scuola, di un modello linguistico unitario. Anche i dizionari monolingui contemporanei (➔ dizionario) nelle loro più recenti edizioni dedicano sempre maggiore spazio agli aspetti grammaticali del lessico.
Tra gli strumenti di diffusione della norma devono essere inserite anche iniziative concrete di ➔ politica linguistica, che peraltro nella storia italiana hanno scarseggiato. Vanno però ricordate quelle attuate durante il ventennio fascista (➔ fascismo, lingua del), che puntò alla «imposizione di un modello normativo unitario» negli «usi pubblici e istituzionali della lingua» e al «controllo e pianificazione dei modelli normativi attraverso le comunicazioni di massa e l’istruzione» (Tesi 2005: 199-200). Particolare importanza assunse, in questo periodo, la radio (➔ radio e lingua), sia con programmi dedicati alla lingua italiana, sia soprattutto con la diffusione del modello ortoepico tosco-romano (Raffaelli 1997). Successivamente, una funzione modellizzante ancora più efficace e capillare è stata svolta dalla televisione (➔ televisione e lingua), che, soprattutto negli anni del monopolio RAI, è stata «maestra di italiano» (De Mauro 19702: 430-459) e che tuttora, in un quadro molto diverso, rappresenta per molti italiani il più importante punto di riferimento linguistico.
Oggi, infine, tra le fonti e i documenti della norma esplicita si possono indicare, accanto ai prontuari di dubbi grammaticali già citati (di vario orientamento e di diversa affidabilità scientifica), le rubriche linguistiche che appaiono su riviste specializzate (come «La Crusca per voi»; cfr. Crusca 1995), giornali e periodici (come quelle su «Tuttolibri», raccolte e rielaborate in Beccaria 2010), trasmissioni televisive (cfr. Losi 2005), in cui esperti rispondono a domande di lettori (o telespettatori) desiderosi di individuare la scelta corretta tra le varie possibilità offerte dall’italiano, che in certi settori della grammatica presenta una fisionomia più complessa di altre lingue, il che spiega le incertezze degli stessi parlanti nativi. Strumenti del genere – che documentano il bisogno di norma degli utenti anche in settori trascurati dai grammatici (Serianni 1994) – presentano talvolta il rischio «di far passare un’immagine della norma linguistica come un coacervo di regole arbitrarie, ognuna delle quali fa storia a sé» e anche quello «di concentrare l’attenzione su aspetti marginali della norma […], tralasciando nozioni di ben altro rilievo» (Antonelli 2007: 52). Offrono un campione degli orientamenti normativi anche i normari redazionali (in genere piuttosto tradizionalisti) di quotidiani e di case editrici (Palermo 1995 e 1997; D’Achille 2001) e i correttori automatici dei computer (cfr. da ultimo Renzi 2005), che seguono una norma alquanto datata.
In genere la norma «si afferma in una fase già avanzata della vita di una lingua, quando si fa rigida la codificazione» (Marazzini 2004a) e fa ricorso al concetto di uso (vivente) «in alternativa o a completamento dei modelli fissati sulla base dell’autorità dei testi scritti» (Marazzini 2004b: 785).
Nella storia linguistica italiana il momento della normazione è molto posteriore all’utilizzazione scritta del fiorentino, che iniziò nel Duecento: il periodo cruciale per la definizione e la stabilizzazione della norma italiana è infatti quello rinascimentale, che del resto – grazie anche alla «rivoluzione inavvertita» della stampa (Eisenstein 1986), che favorì la circolazione dei libri richiedendo una maggiore uniformità nello scritto – rappresenta l’epoca della standardizzazione anche di altre grandi lingue europee. Mentre però in altri paesi la normazione linguistica si svolse quasi contemporaneamente all’unificazione politica (o alla riforma protestante) e lo standard si ispirò all’uso contemporaneo, anche parlato, delle corti (oppure alla traduzione della Bibbia di Martin Lutero), in Italia una serie di fattori (il perdurare e anzi l’accentuarsi della frammentazione politica, la varietà dei dialetti parlati, la forza degli ideali classicistici) portò alla scelta di un modello linguistico scritto già vecchio di quasi due secoli: il fiorentino trecentesco nell’elaborazione letteraria di Dante e, soprattutto, del Petrarca del Canzoniere e del Boccaccio del Decameron. Questo, se impedì una netta frattura con la fase medievale (come avvenne, per es., in francese, dove la teoria del bon usage si affermò «in senso rigorosamente sincronico»; Marazzini 2004b: 786) e consentì agli italiani di disporre di una lingua comune almeno nell’uso scritto, determinò inevitabilmente alcuni conflitti tra la norma esplicita, documentata dalle prime grammatiche a stampa, e l’uso vivo, sia toscano, sia dialettale / regionale, tanto che alcuni scrittori (tra cui Manzoni) definirono poi l’italiano scritto della tradizione come una lingua morta.
Prima del Rinascimento non esiste una norma esplicita; si possono solo indicare alcuni fatti che prefigurano alcuni degli sviluppi normativi posteriori. Nel periodo delle Origini e nel Duecento, dato anche il policentrismo e il plurilinguismo del dominio italo-romanzo, l’unico punto di riferimento normativo può individuarsi nel latino, che rappresenta la grammatica, la lingua delle scritture, in cui a poco a poco i diversi volgari riescono a trovare spazio: è il latino a fornire agli scriventi (e poi agli scrittori) modelli linguistici, grafici in primo luogo (si pensi all’uso dell’h etimologica o pseudo etimologica; ➔ ortografia), ma anche morfosintattici e lessicali; una certa autonomia da tali modelli si rileva nei testi dei mercanti, generalmente ignari di latino (➔ mercanti e lingua), particolarmente attivi in Toscana.
Nel Trecento si ha già una «codificazione linguistico-letteraria […] che contrappone una varietà ‘alta’ di riferimento a una varietà ‘bassa’ di partenza» (Trifone 2006: 274, nota 176). Un orientamento normativo, almeno sul piano stilistico, si coglie nel De vulgari eloquentia, sia quando ➔ Dante delinea le caratteristiche del volgare illustre (vulgare latium), che non coincide con nessuno dei volgari italiani e che è reperibile solo in autori, come i poeti della corte federiciana (➔ Scuola poetica siciliana), che sono stati capaci di distanziarsi dalla lingua comune popolare, sia nella scelta e nella classificazione dantesca delle parole adatte alla poesia lirica, da cui sono scartate, oltre ai municipalismi, le voci del linguaggio infantile (come mamma e babbo), le parole rustiche (come greggia e cetra), ecc. Sebbene non sostenuta, come in Dante, da una riflessione teorica, anche la selezione lessicale e linguistica del Canzoniere petrarchesco può essere riferita a un principio normativo teso ad allontanare la lingua poetica dalla concretezza. In ogni caso, la lingua di ➔ Petrarca, col suo ➔ monolinguismo, fu essenziale per la stabilizzazione e l’uniformazione della norma della lingua poetica italiana: Fortunio ricavò dalle opere petrarchesche molte sue regole grammaticali e Bembo (che nel 1501, curando l’edizione aldina del Canzoniere, aveva apportato, rispetto all’autografo, una serie di correzioni per regolarizzare e normalizzare ulteriormente il testo) nelle Prose indicò in Petrarca il modello della ➔ lingua poetica, la cui ‘grammatica’ perdurò nei secoli, fino a ➔ Leopardi e oltre (Serianni 2009).
Tanto la lingua di Dante quanto quella di Petrarca presentano, di volta in volta, forme toscane, latine e siciliane tra loro intercambiabili dal punto di vista semantico, ma diverse sul piano fonomorfologico (fuoco / foco, degno / digno, vorrei / vorria, ecc.). Ebbene, in molti casi la norma rinascimentale di impronta bembiana accolse più forme concorrenti, tanto che il polimorfismo – per quanto meno esteso rispetto alle sue manifestazioni quattrocentesche nelle scritture di ➔ koinè, nella lingua delle cancellerie (➔ cancellerie, lingua delle) e, all’inizio del Cinquecento, nella lingua cortigiana, che aveva proposto come modello di riferimento l’uso delle corti (➔ cortigiana, lingua) – sarebbe rimasto per secoli come una caratteristica dell’italiano scritto. La sua progressiva riduzione (che peraltro non è stata ancora del tutto completata, perché almeno in parte fisiologica) va considerata propria dell’italiano moderno (sul tema si veda soprattutto Ghinassi 2007). Nel corso del Quattrocento e all’inizio del Cinquecento molto importante per ricostruire la storia della norma è anche il processo di correzione e revisione compiuto dai tipografi nella stampa dei testi volgari (Trovato 1991; ➔ editoria e lingua), che anticipano spesso, nella prassi, le scelte poi esplicitate nelle grammatiche.
Il periodo che va dalle Regole di Fortunio e dalle Prose di Bembo fino alla prima impressione del Vocabolario della Crusca si può considerare come quello in cui avvenne la prima standardizzazione dell’italiano, basata sostanzialmente sulla lingua trecentesca, con alcune aperture all’uso fiorentino posteriore (dovute soprattutto all’influsso di ➔ Benedetto Varchi) e una patina latineggiante ora più (nel lessico) ora meno (nella grafia) accentuata. La codificazione grammaticale del periodo assume un’importanza centrale riguardo alla
ammissibilità nella lingua scritta di molte forme e di molti costrutti: infatti quando la grammatica fissa le norme ortografiche, compie delle scelte all’interno del sistema morfologico e seleziona i tratti sintattici discriminando l’uso popolare dall’uso dotto, quelle varietà di usi che in precedenza convivevano, o che si differenziavano solo sul piano diafasico, assumono un preciso carattere diastratico (D’Achille 1994: 51-52).
Un caso paradigmatico è quello della ripresa (o dell’anticipazione) con un pronome clitico (➔ clitici) di un elemento dislocato a sinistra (o a destra; ➔ dislocazioni), che già nel Cinquecento molti grammatici (non però Bembo, a cui pure il tratto non sfugge) considerano «soverchio» e che ancora nel pieno Novecento viene spesso censurato come «pleonasmo». Proprio tale posizione ostile spiega la difficoltà che il costrutto, documentato già in epoca antica e costantemente presente nei testi più vicini al parlato, incontrò per il suo accoglimento nelle scritture più formali (D’Achille 1990: 91-203).
Nei due secoli successivi, mentre il processo di diffusione del modello tosco-fiorentino continuava, si levarono alcune voci di protesta contro il rigorismo dei grammatici. Molto significativa è quella di Daniello Bartoli, che con lo pseudonimo di Ferrante Longobardi pubblicò Il torto e il diritto del Non si può (1655; 2a ed. 1668), dimostrando, spesso con ironia, che molte prescrizioni dei grammatici non trovavano riscontro nell’uso letterario trecentesco, che documentava anche forme censurate, tanto che non di rado le prescrizioni normative erano basate sul gusto (in tali casi «non si può […] val quanto: non mi piace»). Alla fine del Settecento ➔ Melchiorre Cesarotti distinse gli errori contro le parti logico-grammaticali della lingua, che vanno assolutamente evitati, e gli errori «di opinione», che violano la norma che i grammatici hanno fissato basandosi su un canone ristretto di autori; questi ultimi non possono neppure considerarsi errori, ma comunque lo scrittore saggio dovrebbe cercare di evitarli (cfr. Tesi 2005: 103-104).
Il secondo momento di standardizzazione dell’italiano e di stabilizzazione della norma si ebbe nell’Ottocento, in cui peraltro si registrano tendenze non sempre omogenee. Già nella prima metà del secolo si nota «un progressivo avvicinamento della norma agli usi più correnti e moderni, di cui lo stesso movimento correttorio manzoniano, pur riflettendo un’idea di lingua tutta propria, avrebbe rappresentato in qualche modo il punto di arrivo» (Tesi 2005: 110); importante, in questa direzione, è la sensibile riduzione della polimorfia, «al fine di rendere più semplice e maneggevole il meccanismo della lingua e di farlo aderire più direttamente a una realtà profondamente mutata» (Ghinassi 2007: 36; per alcuni casi specifici si veda anche Masini 1997). La riduzione delle forme concorrenti, accanto al riferimento all’uso fiorentino vivente, è fondamentale sia nella prassi correttoria dei Promessi sposi, sia nella riflessione linguistica manzoniana, ispirata al principio che «l’Uso è il signore delle lingue». Per altro verso, però, nell’Ottocento le censure grammaticali si fanno più accentuate sull’onda del ➔ purismo. Dopo l’Unità, l’insegnamento scolastico, pur se sensibile, almeno inizialmente, alle idee di Manzoni (➔ manzonismi) e al suo orientamento verso il parlato (ci sono testi che indicano lui, lei e loro come pronomi oggetti di terza persona e non censurano affatto il tipo a me mi), regolamenta anche settori in precedenza trascurati e fissa nuove norme, dall’uso di esso per referenti non umani all’attribuzione del genere femminile ai nomi di città (➔ pronomi; ➔ personali, pronomi), dall’accentazione dei monosillabi forti limitata ai casi di omonimia alla conservazione della ‹i› nei plurali dei nomi in cui le terminazioni -cia e -gia sono precedute da vocale.
Nella prima metà del Novecento, se il liberalismo linguistico di Croce e la sua visione della lingua come creazione individuale determinarono un allentamento della norma prescrittiva, documentato, tra l’altro, dal minor peso della grammatica nei programmi scolastici, il fascismo assunse varie iniziative di politica linguistica, ispirate a principi nazionalistici, alcune delle quali ebbero ricadute anche sul piano normativo. Oltre al modello di pronuncia lanciato dalla radio, si possono ricordare la sostituzione del lei col voi come allocutivo di cortesia (➔ allocutivi, pronomi), la lotta ai ➔ forestierismi, l’abolizione del grafema ‹j›, precedentemente usato anche per la resa di /j/ (bujo) o al posto di ‹ii› nei plurali dei nomi in -io (studj), che rimase solo in cognomi e in qualche toponimo.
Nella seconda metà del Novecento, all’impronta fortemente normativa dell’insegnamento scolastico, della radio e della televisione del secondo dopoguerra (che trova riscontro anche nel successo di dizionari di impostazione puristica come quello redatto da G. Messina nel 1954, riedito più volte fino al 1983 e peraltro attentissimo all’uso contemporaneo) successe, dalla fine degli anni Sessanta in poi e sulla spinta di vari fattori (tra cui la crescita dell’uso anche parlato dell’italiano, in una gamma di varietà diatopiche, diafasiche e diastratiche), una fase di ridefinizione della norma. Questa recente evoluzione è documentata dall’accettazione di vari tratti linguistici in precedenza censurati dalla tradizione grammaticale, costitutivi della varietà definita da Sabatini (1985) «italiano dell’uso medio» e da Berruto (1987) «neostandard»; molti di questi tratti sono risultati effettivamente in grande espansione tanto nei giornali quanto nella narrativa (Bonomi 1993; 1996). Contemporaneamente, però, altri studiosi hanno rilevato una sostanziale tenuta della norma tradizionale in altri tipi di testi, come i fumetti e la paraletteratura (Serianni 1986). Una nuova «norma surrettizia» è stata recentemente individuata nel ➔ politically correct, raccomandato nei testi amministrativi (Antonelli 2007: 56-58).
Per fornire qualche indicazione su quella che può considerarsi la norma attuale, in rapporto alla norma tradizionale, si offre qui una sua sommaria esemplificazione ai vari livelli di analisi linguistica (per altri fatti ➔ lingua d’oggi).
Per quanto riguarda la grafia (➔ ortografia), la stabilizzazione del sistema ortografico italiano – caratterizzato dalla buona corrispondenza con la fonetica, tanto da legittimare il luogo comune della tradizione grammaticale che afferma che l’italiano «si legge come si scrive» – risale, come si è già detto, essenzialmente alle scelte compiute dagli accademici della Crusca per il Vocabolario, basate a loro volta sulla grafia fonetica antilatina delle scritture medievali toscane. Anche in questo settore, nell’italiano si sono progressivamente ridotte alcune tradizionali oscillazioni (academia / accademia, Affrica / Africa, susurrare / sussurrare), tanto che il quadro appare oggi semplificato rispetto al passato. Resiste qualche tratto conservativo, per es., l’uso della ‹i› puramente diacritica in casi come cielo, sogniamo, igiene, valigie. L’uso di accenti e ➔ apostrofo è stato definitivamente regolamentato tra Ottocento e Novecento in base a criteri razionali e disambiguanti (un albero ma un’anatra; di preposizione, dì «giorno» e di’ imperativo di dire) e non sembra presentare innovazioni (le devianze, a parte l’accentazione di do, sono valutate come ‘errori’ e caratterizzano l’➔ italiano popolare). Risale solo al pieno Novecento la distinzione tra gli accenti acuti e gravi sulla ‹e› (➔ accento grave e acuto) in corrispondenza del grado di apertura della vocale nella pronuncia toscana (caffè, perché), che è sostanzialmente accettata (grazie anche alla correzione automatica del computer), mentre è norma scolastica, accolta nell’editoria (➔ correzione di bozze), l’evitamento dell’apostrofo in fine di riga, anche con ripristino della vocale elisa. Scarsamente soggetta a indicazioni normative è stata invece l’interpunzione, che mostra ancora oscillazioni, specie per quanto riguarda la virgola che separa dal verbo il soggetto, se seguito da una espansione (il vicino che aveva visto tutto, ritenne opportuno non intervenire).
Sul piano fonetico, il modello normativo ispirato al cosiddetto «fiorentino emendato» (Galli de’ Paratesi 1984), proposto dal purismo primo-ottocentesco e adottato nelle scuole di dizione e recitazione, fuori di esse non è riuscito a imporsi, almeno nei casi in cui le differenze fonetiche non hanno riflesso nella grafia e hanno un basso rendimento fonologico (il diverso grado di apertura delle vocali medie, la sonorità o meno della sibilante intervocalica e dell’affricata alveolare, il grado di intensità delle stesse affricate in posizione intervocalica, il raddoppiamento fonosintattico; ➔ pronuncia). Anche la sua adozione radiotelevisiva nel dopoguerra sancita tardivamente dal DOP (1969) – che sostituiva il prontuario di Bertoni & Ugolini (1939), il quale seguiva lo stesso modello, accordando però la preferenza all’uso romano nei casi di divergenza dall’uso fiorentino – ha avuto scarsi effetti. Il più recente manuale di pronuncia (Canepari 1992) ha un’impostazione più descrittiva che prescrittiva e concede spazio anche ad altre varietà regionali, alcune delle quali sembrano ormai largamente accettate. Comunque, lo standard attuale sembra indirizzarsi verso una fonetica orientata sulla grafia e i due principali centri di irradiazione di modelli di pronuncia sono Milano e Roma, dove non a caso si concentra l’attuale produzione televisiva (Tesi 2005: 242).
La morfologia è stato il livello di analisi linguistica a cui la norma esplicita ha dedicato maggiore attenzione, nel prescrivere, per es., sulla base dell’uso trecentesco, l’uscita in -a anziché in -o della prima persona singolare dell’➔ imperfetto (io andava; ➔ coniugazione verbale), abbandonata definitivamente nel corso dell’Ottocento soprattutto dopo l’esempio manzoniano, oppure i pronomi egli ed ella invece di lui e lei come soggetti, che resistono tuttora nello scritto. Probabilmente anche all’attenzione normativa si deve la stabilità morfologica dell’italiano, che peraltro negli ultimi decenni ha mostrato qualche cedimento, in particolare nel settore dei clitici e nell’uso dei tempi verbali. La riduzione della polimorfia (e anche dell’allomorfia, per es., nei plurali dei nomi maschili in -co e -go), iniziata nell’Ottocento e poi proseguita nel corso del Novecento, anche se non del tutto completata (resistono ancora alternanze come possiedo e posseggo, visto e veduto, offrì e offerse, mentre vo e fo accanto a vado e faccio si mantengono vitali solo in Toscana; Thornton 2010; ➔ allomorfi), rappresenta comunque un ulteriore elemento di stabilità.
Per quanto riguarda la ➔ sintassi, la norma continua a rifiutare, nello scritto, le frasi relative (➔ relative, frasi) introdotte dal ➔ che polivalente, con o senza ripresa clitica (➔ pronomi di ripresa), che pure è documentato fin da epoca antica (D’Achille 1990: 205-260) ed è ampiamente attestato nel parlato. Invece, nonostante le censure normative otto-novecentesche, che bollavano il costrutto come gallicismo (almeno in casi come è a lui che l’ho detto), le frasi scisse (➔ scisse, frasi) hanno ormai trovato definitivo accoglimento anche nello scritto, dove svolgono anche funzioni testuali (D’Achille, Proietti & Viviani 2005).
Nel ➔ lessico, infine, si possono segnalare come elementi innovativi rispetto alla norma tradizionale la presenza nello standard, come forme non marcate, di ➔ dialettismi di varia provenienza al posto dei corrispondenti ➔ geosinonimi toscani (così il settentrionale anguria invece di cocomero, il meridionale vongola invece di arsella, ecc.), la detabuizzazione di molte parolacce (➔ parole oscene; ➔ tabu linguistico), il mancato adattamento dei forestierismi, che restano nella loro veste originale, compresi i ➔ toponimi privi di retroterra storico e i nomi personali (che venivano invece tradotti ancora fino alla metà del Novecento: si pensi alla protagonista di Via col vento, che da Scarlet divenne Rossella).
Naturalmente, sulla base di testi profondamente diversi sul piano diamesico, diafasico, diastratico e diatopico, si potrebbero trarre conclusioni diverse sulla stabilità della norma attuale; è vero che l’italiano è da tempo in movimento, ma la forza della norma tradizionale è ancora notevole; d’altra parte, alcune recenti innovazioni linguistiche (si pensi agli accorciamenti invariabili o alle sigle) non hanno mai sollevato problemi di carattere normativo.
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