nominalismo
Termine con il quale gli storici della filosofia designano la dottrina di coloro che nel Medioevo, nella soluzione del problema degli universali, si opponevano ai cosiddetti reales (cioè ai sostenitori del realismo), affermando che gli universali non esistevano nella realtà, ma erano solo voces o nomina, cioè segni verbali significanti i caratteri comuni a un determinato gruppo di realtà singole. Rappresentanti del n. sono tradizionalmente ritenuti Roscellino, maestro di Abelardo (le notizie su di lui sono tuttavia esigue), Abelardo stesso e più tardi Guglielmo di Occam.
Alla domanda posta da Porfirio nell’Isagoge circa il valore da attribuire agli universali, in partic. ai generi e alle specie, Abelardo rispondeva precisando che universale è ciò che è predicabile di più cose: «quod de pluribus natum est praedicari». La predicazione ha luogo nella proposizione, e la proposizione si esprime tramite suoni. Gli universali perciò sono suoni articolati che hanno ricevuto dall’arbitrio dell’uomo la capacità di significare («voces ad placitum significativae»). Da una parte stanno le res, da un’altra le voces, considerate queste ultime non come fatti naturali (perché in tal senso sono anch’esse res), ma in quanto significative per convenzione, nomina o sermones, «segni» significanti le cose all’intelletto. Le realtà (res) non sono universali nella loro essenza e non sono neppure distinte tra loro senza differire nella loro natura specifica: unica realtà è l’individuo. Tuttavia le cose della stessa specie hanno una reale somiglianza tra loro (gli uomini si somigliano sostanzialmente), ma questa somiglianza non è qualcosa, bensì piuttosto uno status. Si può dire perciò che la res conferisce l’universalità alla vox senza che l’abbia in sé. In assenza della cosa l’intelletto dispone di un’immagine mentale che ha formato in presenza dell’individuo e ha conservato. Anche per l’intellezione dell’universale l’intelletto usa immagini comuni, che esso può formare perché può considerare come se fossero distinti diversi aspetti della realtà individuale: in ciò consiste l’astrazione («intellectus per abstractionem divisim attendit non divisa»). L’immagine comune (o concetto) prodotta dall’anima non è né sostanza né accidente («nil penitus esse concedimus»), ma conserva la similitudo con le cose che rappresenta; essa è segno: oggetto dell’intellezione, infatti, non è l’immagine in quanto tale, ma la cosa significata, di cui tale immagine è segno.
Il termine n., per quanto riguarda Occam e i suoi seguaci (secc. 14°-16°), non indica solo il loro atteggiamento a proposito del problema degli universali, ma si estende a indicare una metafisica, una logica e una teologia: denota cioè quel complesso di dottrine che forniva una risposta organica ai vari problemi dottrinari posti in quei secoli. Nell’impossibilità di sintetizzare qui l’insegnamento della scuola nominalistica, ci si limita a richiamare alcuni principi della dottrina della conoscenza, della logica e della metafisica, con riferimento alle opere di Occam (➔). Principio metafisico fondamentale è l’individualità del reale. L’individuo è il dato primo e non è corretto chiedersi come sia possibile l’individuo (rifiuto di ogni principio d’individuazione), ma bisogna chiedersi com’è possibile l’universale. Esso stesso non può non essere singolare: ci si chiede allora come può una «realtà» singolare essere universale. Per Occam l’universale è tale in quanto segno di più, per la sua portata significativa («quod libet universale est res singularis, et ideo non est universale nisi per significationem, quia est signum plurium»). Occam rifiuta quindi ogni dottrina che riponga l’universale nella realtà; esso è esteriore al reale, alla cosa, come lo è la parola che pure esprime la cosa, ed è duplice: nell’anima è concetto (intentio), segno naturale predicabile di più res, e nella voce è segno convenzionale significante più cose. Il concetto è segno naturale prodotto nell’intelletto dall’azione delle cose che, presenti e intuite, forniscono le notizie e poi, operando «sicut ignis calorem», danno luogo alle nozioni comuni, che sono appunto i concetti. La continuità del processo che dalla cosa intuita porta all’universale garantisce la validità del segno naturale, anche se noi non sappiamo bene come ciò avvenga («natura occulte operatur in universalibus»). Occam così rifiuta, in polemica con il tomismo, la dottrina della specie intenzionale come «medium» della conoscenza; anzi, per salvare il carattere naturale della formazione del concetto, egli limita in certo senso la partecipazione del soggetto conoscente: il processo che determina la nascita del concetto è l’astrazione, che ha luogo nell’intelletto ma non è opera dell’intelletto. Il concetto-segno è presentato da Occam ora come una qualità soggettiva dell’anima, ora come un «quid» oggettivo (fictum), che non è né sostanza né qualità, ed è difficile trovare nei testi un’opinione definitiva che opti per una delle due interpretazioni. Dalla concezione unitaria dell’individuo e dal valore di «segno» riconosciuto all’universale seguono alcune conseguenze. Innanzitutto, in polemica con le posizioni di Duns Scoto, è rifiutata ogni distinzione che non sia quella reale: l’intelletto, dividendo, ossia separando, i segni, segue (non fonda) la distinzione reale tra le cose. Inoltre, è respinta ogni entificazione delle relazioni, giacché, si afferma, nella realtà le uniche cose assolute sono la sostanza e le qualità; noi disponiamo di concetti delle cose assolute cui corrispondono i nomi assoluti, e di concetti delle relazioni cui corrispondono i nomi relativi; essi sono segni diversi delle stesse cose designate dai nomi assoluti. All’universale nell’anima, si è detto, corrisponde l’universale nella voce. L’ordine mentale e l’ordine vocale sono coordinati, ma entrambi rinviano all’ordine reale significandolo; la distinzione boeziana tra res, intellectus e voces è ora ripresa nel senso che il livello intellettuale e il livello linguistico sono ordinati al livello reale. Se oggetto della conoscenza umana sono, come insegna Occam, le proposizioni, è bene sottolineare che le proposizioni sono composte di termini (mentali, vocali e scritti) e che i termini sono segni delle cose. I termini ci rivelano la realtà; la diversità e la convenienza tra le cose si manifesta infatti nella diversità e nella convenienza tra i termini. Come si vede, la posizione di Occam è decisamente rinnovatrice rispetto alla maggior parte delle dottrine del tempo; anche quando sono assimilati elementi culturali precedenti, essi vengono però inseriti in una nuova sintesi che si pone come alternativa a tutte quelle correnti. Ma nonostante la maggiore complessità dell’operazione culturale compiuta da Occam rispetto a quella propria di Abelardo, va detto che, per il problema qui trattato, Occam si pone sulla stessa linea del maestro del sec. 12°. Due sono i punti in comune che si possono immediatamente rilevare: rivendicazione del valore dell’individuo, affermazione della funzione conoscitiva dell’universale, al quale si nega ogni realtà che non sia quella di «segno» delle cose. Il n. medievale va perciò caratterizzato come concettualismo, per restare alla terminologia invalsa, dato che la sua caratteristica precipua è proprio la puntuale rivendicazione del valore insopprimibile del concetto nella conoscenza.