nomi
In italiano i nomi (chiamati anche, con termine tradizionale, sostantivi) sono una delle ➔ parti del discorso variabili (anche se esistono nomi invariabili) e, come accade in tutte le lingue, occupano, insieme ai verbi, una posizione centrale nell’organizzazione lessicale e grammaticale della lingua.
Nella definizione elaborata dalla tradizione (che s’è trasferita, attraverso un percorso secolare, nell’insegnamento scolastico e nella cultura di base; ➔ analisi logica) il nome è la parte del discorso specializzata per designare «persone, oggetti o cose» (in alcune definizioni scolastiche, a questa lista si aggiungono «gli animali»). La linguistica moderna ha accantonato tale definizione, basata su un criterio rudemente referenziale, anche se non è venuta interamente a capo della questione di definire in generale che cosa sia un nome.
In tutte le definizioni proposte si adotta comunque l’idea che una classe dei nomi, al pari di altre classi di parole, comprende una varietà di sottoclassi, talvolta così variegate da avere poco in comune, e pertanto richiede una classificazione complessa.
In generale, tutti i componenti della classe dei nomi in italiano hanno alcune proprietà in comune:
(a) alcuni di essi sono variabili per ➔ genere; quasi tutti, per ➔ numero (salvo i nomi invariabili: caffè, città, virtù, cinema, ecc.);
(b) possono essere testa di un ➔ sintagma nominale; in questo caso, comportano l’➔ accordo dell’aggettivo e dei determinanti (articolo, ecc.) che con essi formano il sintagma: una bella casa;
(c) entro il sintagma nominale, a differenza di altre parti del discorso, possono combinarsi con determinanti (principalmente articoli; ➔ articolo) e specificatori (aggettivi possessivi, dimostrativi, ecc.);
(d) se fanno parte del sintagma ➔ soggetto, impongono l’accordo al verbo;
(e) possono avere ➔ prefissi e ➔ suffissi: anti-furto, matt-oide;
(f) possono costituire il tema di un enunciato (➔ tematica, struttura; ➔ nominalizzazioni).
In questa chiave, non ci sono grandi differenze tra nomi come gatto, operatore, messa in piega, partenza, bellezza, ringiovanimento, sindaco e tipo, nomi che – come si vedrà più sotto – appartengono a classi distinte da altri punti di vista. Se però ci si sposta a livelli diversi da quelli superficiali accennati prima, tra i nomi esistono sottoclassi, alcune formate da pochi elementi.
La classificazione dei nomi può essere fatta su diverse basi. Riferendosi solo alle principali, va menzionato che i nomi si distinguono:
(a) per forma morfologica (si hanno allora nomi variabili e invariabili, nomi derivati, di varia natura, nomi composti, nomi sintagmatici, ecc.); questa classificazione interessa alla ➔ morfologia e alla lessicologia (➔ lessico);
(b) per tipo di significato; si distinguono allora, per es., nomi di agente (➔ agente, nome di), nomi di azione (➔ azione, nomi di), nomi di strumento (➔ strumento, nomi di), nomi di risultato (➔ risultato, nomi di) o di stato, nomi di processo, nomi collettivi (➔ collettivi, nomi), nomi di massa (➔ massa, nomi di), nomi supporto, ecc. (alcune di queste categorie sono illustrate in voci apposite, per le altre vedi oltre; le sottocategorie dei nomi identificate mediante criteri semantici sono numerose e non tutte ben note);
(c) in taluni casi c’è una relazione tra forma morfologica e significato di un nome: per es., spesso le nominalizzazioni sono nomi di processo o di risultato, ecc. (per altri dettagli, ➔ derivazione).
In questa voce si presentano le categorie principali: in particolare si esamineranno alcune classi di nomi distinte per tipo di significato (§ 2), poi dal punto di vista del comportamento sintattico (§ 3) e infine alcuni aspetti tipici dell’italiano per quanto attiene alla categoria dei nomi (§ 4).
In italiano le categorie semantiche di nomi sono scarsamente riconoscibili in base alla forma e alla struttura morfologica. In alcuni casi, l’aspetto morfologico dà sì qualche informazione: per es., i nomi di agente in -ino designano persone che fanno lavori umili (stagnino, vetturino, attacchino), i collettivi in -ame designano entità considerate negativamente (ciarpame, culturame), i nomi in -aglia indicano insiemi di entità e persone viste negativamente (ragazzaglia, soldataglia, ciurmaglia), i nomi in -ata (e in generale quelli ottenuti per ➔ conversione da un participio passato femminile, come guardata, bevuta, mangiata, pisciata, risata, letta, scorsa, ma anche bracciata, videata, cucchiaiata, forchettata, ecc., che non derivano da verbi) indicano processi brevissimi oppure piccole quantità di qualcosa (v. oltre).
Tale relativa trasparenza è però, data la natura della lingua (e in generale delle lingue romanze; ➔ lingue romanze e italiano), limitata a poche classi e non è neanche sempre coerente. In effetti, in italiano solo di rado la categoria semantica del nome si dichiara in base alla forma.
Una distinzione ampiamente riconosciuta è quella tra nomi numerabili, nomi di massa e nomi collettivi. L’etichetta che designa queste categorie non è del tutto precisa, perché «numerabili», «collettivi» o «di massa» non sono i nomi come forme linguistiche, ma i referenti che essi hanno.
2.1.1 Nomi numerabili. I nomi numerabili designano oggetti discreti, che possono essere cioè separati l’uno dall’altro e numerati (da qui il termine): penna, occhio, libro, lampada, ecc. Non tutti i nomi numerabili designano però entità così materiali: possono far parte della classe anche nomi dai referenti astratti o immateriali, oppure designanti eventi (speranza, illusione, imbroglio, ecc.).
Dal punto di vista formale, la peculiarità dei nomi numerabili sta nel fatto che possono avere un plurale e combinarsi con ➔ quantificatori, sia definiti che indefiniti (➔ numerali; ➔ indefiniti, aggettivi e pronomi): due libri, qualche libro, parecchi libri.
2.1.2 Nomi di massa. I nomi di massa, per contro, designano entità non discrete ma continue, che vanno prese come insiemi indistinti e, appunto, ‘massivi’: mare, latte, vino, acqua, cibo, studio, fogliame, bestiame, ecc. Quando un nome di massa è al plurale (non tutti i nomi di massa lo ammettono: i vini ma non i bestiami), perde il suo valore di massa per assumerne uno di tipo. Si osservi la differenza:
(1) beve molto vino [= beve una grande quantità di vino, quale che ne sia il tipo»]
(2) beve molti vini [= beve molti tipi diversi di vino, quale che ne sia la quantità, anche poco»]
Ai nomi di massa possono essere ascritti anche alcuni nomi morfologicamente omogenei, che aggiungono al significato di massa una sfumatura valutativa: ciarpame, letame, bullettame, o anche lo spregiativo culturame, oggettistica, regalistica, ecc.
Jackendoff (1990; 1991) ha utilmente distinto i referenti dei nomi di massa in «sostanze» e «aggregati»: le prime sono prive di articolazione interna (latte, acqua, farina, ecc.), i secondi sono costituiti da elementi separabili e delimitati (erba, sabbia, ecc.). Mentre il plurale dei nomi di massa del primo gruppo fa riferimento, come si è accennato, a tipi (prendi due farine significa infatti «due tipi di farina»), per operare una pluralizzazione dei secondi occorre utilizzare nomi specializzati, i cosiddetti singolativi (alcuni li chiamano anche classificatori): un chicco di grano, un acino di uva, uno spicchio di arancia, ecc. Lo stesso fenomeno si ha con collettivi come personale (nel senso di «insieme dei dipendenti di un’azienda»), che non ha plurale (*i personali) e per essere reso discreto ha bisogno di un nome di appoggio: abbiamo acquisito due elementi [o unità] di personale.
Ai nomi di massa possono essere assimilati anche quei nomi astratti (designanti virtù, passioni, ideali, ecc.) che non hanno plurale (coraggio, eroismo, viltà, ecc.) oppure, se messi al plurale, non hanno più il significato generale del singolare ma indicano i singoli ‘atti’ o ‘gesti’ in cui quella nozione astratta si è manifestata: le miserie indica i fatti o gli aspetti in cui la miseria si manifesta, le viltà indica i gesti o i comportamenti caratterizzati da viltà, ecc. Il rapporto tra singolare e plurale di questi nomi è però ambiguo: alcuni di essi, al plurale, indicano «atti di X», altri no: vedi le sue bassezze «atti di bassezza» rispetto a *i suoi coraggi.
2.1.3 Nomi collettivi. I nomi collettivi infine, ben noti anche nella pratica scolastica, designano collettività, cioè insiemi composti da membri discreti: gregge, mandria, gruppo, comitiva, completo, mazzo, ecc.
I nomi collettivi possono essere pluralizzati, nel qual caso indicano più di uno degli insiemi che designano:
(3) c’erano comitive di ragazzi e di ragazze
(4) due bande di delinquenti
(5) le mandrie si sono disperse.
Tra i nomi numerabili si possono distinguere altre sottocategorie, alcune delle quali erano già state identificate dall’analisi grammaticale tradizionale.
I nomi di agente hanno per referente un individuo umano la cui descrizione è «qualcuno che fa X o che usa X»: per es., saldatore, montatore, conciatore, guidatore, ecc. Non sempre i nomi d’agente sono così riconoscibili dal punto di vista morfologico: vari nomi di agente hanno infatti una struttura inanalizzabile: medico, poeta, astronauta, informatico, ladro, sindaco, ecc.
Alcuni hanno preso col tempo un significato di strumento: saldatore, ad es., indica tanto la persona che usa lo strumento per saldare quanto lo strumento stesso; così ripetitore, trasportatore, friggitrice, lavatrice, fotocopiatrice, ecc. Per questo, secondo alcuni, il nome di strumento è un nome d’agente a cui si sia sottratto il coefficiente di ‘animatezza’.
In alcune varietà locali, poi, la stessa parola che si usa per l’agente si usa anche per il luogo: in romanesco antico, ad es., il pisciatore è il luogo pubblico dove si orinava, il lavatore è il lavatoio pubblico, lo spicciatore è il pettine, che ‘spiccia’ i capelli, ecc.
Si tratta di una famiglia di nomi tra di loro correlati, in quanto codificano modi di presentare l’evento designato (➔ aspetto).
2.3.1Nomi di processo. I nomi di processo (o eventivi) indicano il processo, cioè un’azione che ha una durata nel tempo e che può essere completata o no. Incrociando queste proprietà, tra i nomi di processo è stato proposto di distinguerne alcuni (Simone 2003).
(a) Nomi di processo indefinito: designano processi sul cui compimento nulla è detto: obnubilamento, invecchiamento, ringiovanimento, rimbambimento, ecc. Questi nomi non hanno normalmente plurale (*gli invecchiamenti, *i rimbambimenti), sono per lo più deverbali o deaggettivali (➔ deverbali, nomi; ➔ deaggettivali, nomi) e hanno desinenze costituite da suffissi tipici (-mento, -zione, ecc.). È interessante notare che l’italiano, in tutti i casi in cui non dispone di un nome di processo definito dedicato, o quando vuole sottolineare il carattere durativo e continuo di un evento, impieghi spessissimo l’infinito sostantivato (➔ sostantivato, infinito): il tuo continuo fischiare mi disturba. Questa proprietà, condivisa dallo spagnolo, è un tratto essenziale per identificare l’italiano (v. oltre; Simone 2004; Vanvolsem 1982).
(b) Nomi di processo definito: designano processi che vengono presentati come completati: bevuta, passeggiata, camminata, sudata, inoltro, ecc. Questi nomi hanno ovviamente il plurale, sono anch’essi per lo più deverbali a suffisso zero o hanno spesso finale in -ata. Va sottolineato che questi nomi, molto numerosi, costituiscono una spiccata peculiarità italiana rispetto alle altre lingue romanze.
(c) Nomi ‘di una volta’: questi nomi indicano un processo la cui durata è contratta in un punto, cioè brevissima o irrilevante. Possono essere deverbali (anche se non sempre lo sono), sono pluralizzabili, in parte hanno la stessa forma dei precedenti: bracciata, sospiro, sguardo, guardata, ecc.
Per alcuni verbi esiste tutta la serie di nomi di processo (nomi di processo indefinito, definito, e nomi di una volta), per altri si registrano invece lacune.
Per es., per nuotare abbiamo:
(6) a. Nome di processo indefinito: nuoto
b. Nome di processo definito: nuotata
c. Nome di una volta: bracciata
Per dimenticare, questa successione non si ha:
(7) a. Nome di processo indefinito: oblio (lett.)
b. Nome di processo definito: –
c. Nome di una volta: dimenticanza
(d) Nomi di stato: indicano una condizione duratura di qualcosa o qualcuno: ubriachezza è lo «stato in cui si trova una persona ubriaca», debolezza è «lo stato in cui si trova una persona debole», nervosismo, stanchezza, lucidità, opacità, trasparenza, ecc. I nomi di stato non si combinano con aggettivi indicanti durata o progressione: *la continua trasparenza.
Per eredità latina, una parte dei nomi di attività hanno il suffisso -ura: mercatura, avvocatura, agricoltura, magistratura, ecc. Altri nomi di attività non hanno contrassegni visibili: dedicarsi al commercio, al canto, alla medicina, ecc., dato che derivano da altri significati per trasposizione.
Possono darsi passaggi da una categoria di nomi all’altra, e ciò può creare anche forti asimmetrie. Per es., bontà e cattiveria, pur essendo allo stesso modo nomi di stato, hanno comportamenti diversi: il primo non ha plurale (*le bontà che mi hai fatto) e quindi non può significare «singoli atti di ...», il secondo sì (le cattiverie che mi hai fatto). Del pari, alcuni nomi di processo si sono spostati di significato per indicare nomi di stato o di oggetto:
(8) trasmissione
a. occuparsi della trasmissione di un messaggio
b. in questa macchina si è rotta la trasmissione
Del pari, come si è visto prima, nomi di cosa (per es., nomi collettivi) possono essere trasposti a nomi di attività o viceversa:
(9) dedicarsi alla magistratura ~ fare parte della magistratura
In questo caso magistratura è prima nome di attività, poi nome indicante l’insieme dei magistrati.
I nomi si distinguono anche secondo il comportamento sintattico.
Una varietà di nomi hanno una ➔ reggenza, cioè impongono un connettore specifico (sotto forma di preposizione; ➔ preposizioni) ai nomi e alle frasi completive che con essi formano sintagma (➔ completive, frasi).
I nomi con reggenza sono soprattutto deverbali, i quali contengono una struttura argomentale (➔ argomenti), più o alla stessa maniera dei verbi da cui derivano:
(10) la partenza da casa ha scombussolato tutti
(11) l’arrivo a casa è avvenuto in ritardo
(12) la separazione dai parenti
(13) la sensibilità verso i bambini
In taluni casi, i nomi con reggenza possono creare ambiguità:
(14) la guerra coi tedeschi
(15) la guerra con gli alleati
(16) la guerra con gli alleati contro i tedeschi
Ci sono però anche nomi non deverbali che esibiscono una reggenza:
(17) un muro contro l’analfabetismo
(18) un libro sulla storia di Roma
In questo caso, si ritiene che i nomi non deverbali possano avere una interpretazione deverbale: muro significa allora «resistenza, opposizione», libro «trattazione, discussione», e simili.
I nomi con reggenza non sembrano poter avere più di tre (più raramente quattro) argomenti (l’arrivo di Pietro da Milano a Roma; la traduzione di Shakespeare di Eduardo dall’inglese al napoletano), ma la loro classificazione è complicata da altre categorie.
Per es., si possono distinguere nomi intransitivi (19 a.) da nomi transitivi (19 b.), come anche nomi attivi da nomi passivi (20):
(19) a. la partenza dei ragazzi [«i ragazzi partono»]
b. la promozione dei ragazzi [«i ragazzi sono promossi»]
(20) la polizia ha recuperato la refurtiva
a. il recupero della refurtiva [«la refurtiva è stata recuperata»]
b. *il recupero della polizia.
Alcuni nomi, dal significato piuttosto generico, operano come ➔ incapsulatori, cioè come meccanismo di coesione (➔ coesione, procedure di) per lo più anaforica (➔ anafora) collegandosi a un intero discorso precedente (meno spesso, susseguente):
(21) [oggi sulla città c’è stato un nubifragio]: questo inconveniente ci ha impedito di andare al mare
(22) [abbiamo avuto un bambino bellissimo]: una gioia così davvero non ce l’aspettavamo
In questi esempi, la parte tra parentesi quadre è l’antecedente, che viene ripreso dall’incapsulatore (la parola sottolineata). Sebbene la lista degli incapsulatori in italiano non sia definita con precisione, ci sono importanti aspetti di ➔ variazione diastratica: per es., se tutti riconoscono avvenimento, fatto, disgrazia, gioia, ecc., come incapsulatori, altre unità sono distinte per livello diafasico: storia, faccenda, affare, ecc., sono connotati come bassi; evento, circostanza, accadimento, ecc., come alti o formali.
Alcuni nomi operano come nomi generali (vale a dire come designatori di qualunque cosa), a cui ricorrere pertanto in casi di incertezza o di mancanza di un termine specifico (➔ parole generali). Anche qui ci sono differenze diafasiche e diastratiche: cosa è il più generale e neutro, dato che può designare senza distinzione oggetti ed eventi, ma quel che al Centro e al Sud del paese si indica generalmente con cosa al Nord-ovest è possibile indicarlo con roba; coso, aggeggio, affare, cazzabbubbolo, cazzo, ecc., sono nomi generali scherzosi e/o volgari per oggetti. Come designatore di persone, persona e individuo sono di uso generale; tale, tipo, cristiano, ecc., sono invece di registro popolare.
Alcuni nomi generali operano come complementatori, cioè introduttori di frasi completive. Per svolgere tale funzione si inseriscono in sintagmi tipici, che hanno la struttura articolo + nome generale + che (o di con completive implicite). Di tale genere sono fatto (che dà luogo a il fatto che/di) e circostanza (la circostanza che/di). Ma nel linguaggio colloquiale (➔ colloquiale, lingua) hanno questa funzione anche altri nomi: discorso (il discorso di partire mi pare urgente), storia (la storia che sei stato bocciato è grave), faccenda, ecc.
Alcune sottoclassi di nomi sono peculiarità italiane tra le lingue romanze, anche se il grado della loro specificità varia da classe a classe. In questa voce ne illustriamo alcuni: i nomi supporto, i polirematici, gli infiniti sostantivati, le nominalizzazioni, rinviando per i dettagli alle voci rispettive.
I nomi supporto hanno, oltre al loro significato normale, un significato ‘grammaticale’ particolare: se hanno il primo posto in sintagmi del tipo nome 1 + di + nome 2, modificano in maniera importante il significato del nome 2, conferendogli proprietà che da solo non avrebbe. In particolare, servono a rendere pluralizzabili i nomi astratti (cfr. § 2.1.2).
Un esempio di questa classe è atto: quando viene combinato con un nome 2 indicante una proprietà di carattere (gelosia, eroismo, crudeltà, perfidia, nobiltà, ecc.), permette a questo di avere forma plurale (quindi lo rende numerabile), e dà all’intero sintagma il significato di «ogni singolo evento in cui nome 2 ha un ruolo».
Vedi quindi:
(23) *ha commesso diversi eroismi → ha commesso diversi atti di eroismo
(24) *ha avuto delle ilarità → ha avuto degli scatti di ilarità
(25) *ha fatto molti telefoni → ha fatto molti colpi di telefono
(26) *ha dato continui freni → ha dato continui colpi di freno
Quest’ultimo esempio mostra che alcuni sintagmi con nomi supporto possono essere sostituiti da nomi derivati in -ata (colpo di freni = frenata), in quanto il sintagma nome 1 + di + nome 2 ha nel suo insieme un significato di nome ‘di una volta’.
Nomi supporto esistono, tra le lingue romanze, solo in italiano e in francese (coup de foudre «colpo di fulmine», coup de coeur «emozione», coup de bière «sorsata di birra», ecc.). In spagnolo, il significato indicato è codificato piuttosto morfologicamente, con il suffisso -azo: vistazo «colpo d’occhio», frenazo «colpo di freni», ecc. (anche se esistono casi di nomi supporto).
I nomi supporto hanno due proprietà essenziali:
(a) non sono più di una ventina di elementi (atto, gesto, azione, colpo, botta, uscita, scatto, accesso, ecc.);
(b) anche i nomi che possono operare come nome 2 appartengono a una ristretta gamma di classi semantiche: indicano processi naturali (malattia, nervosismo, ecc.), stati psicologici e fisici (amore, rabbia, sonno, ecc.), eventi naturali (neve, pioggia, vento, ecc.; Simone & Pompei 2007; Simone & Masini 2008).
Un’altra proprietà italiana sono i nomi polirematici, cioè composti da più elementi lessicali ma formanti un’unità. Benché diffusi in varie lingue, essi sono particolarmente frequenti nel lessico italiano. Rinviando per i diversi tipi alle voci apposite (➔ locuzioni; ➔ polirematiche, parole; ➔ binomi irreversibili; una lista in Jezek 2005: 41), richiamiamo qui le categorie principali.
(a) Nomi composti: costituiti da due nomi affiancati, sono del tipo di porta finestra, vagone letto, ecc. Questi nomi possono essere ulteriormente classificati secondo la relazione di significato tra i due componenti: la porta finestra è una porta che coincide con una finestra, il vagone letto è un vagone che contiene dei letti (non «che coincide con un letto»). Altre strutture si annunciano nell’italiano d’oggi, con ulteriori relazioni semantiche tra i due componenti: azienda paese, rischio cambio, sistema Italia, ecc.
(b) Nomi con preposizione interna: hanno la struttura nome + preposizione + nome. Sono del tipo di giacca a vento, abito da passeggio, macchina per scrivere, ecc. (Jezek 2005: 40 segg.; Masini 2009). Anche questi sono da dividersi in categorie, secondo la preposizione in questione (le preposizioni possono essere a, con, di, da, per), la struttura interna e il peculiare tipo di significato: per es., donna a ore, pur avendo la stessa struttura di macchina a vapore, ha una diversa semantica: nel primo caso a indica una peculiarità operativa, nel secondo un tipo di propulsione (come in motore a benzina, barca a vela, ecc.).
(c) Binomi irreversibili: hanno la struttura nome 1 + e + nome 2: aglio e olio, marito e moglie, pane e formaggio, pane e companatico, e sono caratterizzati dal fatto che l’ordine dei due nomi non può essere invertito (da qui il termine che li designa), il che indica che essi sono lessicalizzati (➔ lessicalizzazione) come un tutt’uno. In molti casi questi nomi fanno parte di espressioni idiomatiche (➔ modi di dire), in altri invece sono liberi e possono essere inseriti in qualunque contesto sintattico.
Un’indiscutibile proprietà dell’italiano sono i nomi ottenuti per conversione da infiniti verbali (➔ sostantivato, infinito). Tra le lingue romanze, italiano e spagnolo sono quelle che più adoperano questa risorsa, che ha dato luogo, nella storia, a una varietà di forme lessicalizzate: calare (della sera), levare o sorgere (del sole), imbrunire, limitare, passare (il passar del tempo), ecc.
In generale, però, l’infinito sostantivato può esser creato dai parlanti anche al di là delle risorse offerte dal lessico, essenzialmente per due motivi:
(a) per far fronte a possibili lacune del lessico:
(27) il friggere dell’olio ha prodotto un gran puzzo ~ il *friggimento dell’olio … / la *frittura dell’olio …
(28) il rumoreggiare della folla richiamò la polizia ~ il *rumoreggiamento della folla …
(b) per creare nomi da interi sintagmi verbali, allo scopo di avere un elemento che possa funzionare da tema (esempi tutti da Internet, fonti varie):
(29) il male dell’uomo moderno è l’aver fatto della ricerca della felicità il proprio dio
(30) l’uscita dalla crisi passa attraverso il «fare Rete»
(31) strana proposta telefonica dopo una settimana dall’aver firmato con Sky
(32) prendete in considerazione eventi rari, come l’aver visto una grossa stella cadente
Sebbene non lascino tracce stabili nel lessico, questi infiniti ‘liberi’ caratterizzano ugualmente la lingua e i suoi usi. Può darsi che la propensione a formare infiniti nominali sia da ricollegarsi al fatto che in italiano antico essa era estesa e perfettamente sistematica: i baciari, gli abbracciari.
Jackendoff, Ray (1990), Semantic structures, Cambridge (Mass.) - London, The MIT Press.
Jackendoff, Ray (1991), Parts and boundaries, in Lexical and conceptual semantics, edited by B. Levin & S. Pinker, «Cognition» 41, pp. 9-45.
Jezek, Elisabetta (2005), Lessico. Classi di parole, strutture, combinazioni, Bologna, il Mulino.
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Simone, Raffaele & Masini, Francesca (2008), Support nouns and verbal features, «Verbum», numero speciale a cura di A. Grezka dedicato a Classes de verbes.
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Vanvolsem, Serge (1982), L’uso dell’infinito sostantivato nelle due edizioni dei “Promessi Sposi”, «Studi di grammatica italiana» 10, pp. 29-50.