parentela, nomi di
I nomi di parentela (detti anche, raramente, singenionimi, dal gr. syngenḗs «parente, consanguineo») sono nomi che indicano legami di parentela (ma non, necessariamente, di consanguineità) tra le persone, come padre, madre, fratello, sorella, figlio, figlia, zio, zia, cugino, cugina, nipote, marito, moglie, ecc.
Pur formando un settore specifico e limitato del lessico, i nomi di parentela hanno notevole importanza dal punto di vista socio-antropologico non meno che storico-linguistico, anche perché, siccome ogni lingua ha espressioni per indicare i concetti di «madre», «padre», «moglie», «marito» (Wierzbicka 1987), la definizione di legami di matrimonio, di consanguineità e di affinità va considerata un universale linguistico (cfr. Heath 20062: 214).
Dal punto di vista socio-antropologico, i nomi di parentela sono una delle prime forme di classificazione, e servono a dare un ordine alla propria esperienza (Morgan 1871). D’altronde, il sistema dei rapporti familiari è di tale rilevanza nella nostra generale organizzazione del mondo «da agire anche come centro di irradiazione metaforica»: nuclei e relazioni propri dell’universo conoscitivo dell’organizzazione parentale infatti «vengono proiettati su altri aspetti dell’esperienza» (Cardona 1988: 319) – il mondo naturale, gli animali, le piante, le cose – con procedimenti simili anche nei gruppi più diversi, come dimostra, ad es., la diffusione e la relativa uniformità dei cosiddetti zoonimi parentali (nomi di animali totemici assunti come parenti o capostipiti) nelle culture popolari (Alinei 1984).
I nomi parentali rappresentano inoltre una ben definita struttura di rapporti entro la società che ne fa uso (infatti si suole parlare di terminologie o nomenclature di parentela: Moruzzi 1992), e non è raro che ristrutturazioni del loro sistema attestino cambiamenti culturali profondi causati da eventi o trasformazioni storiche, quali ad es. l’introduzione di sacramenti come il battesimo e il matrimonio (su cui, fin dalla bassa latinità, si fondano legami di parentela ‘spirituale’: Signorini 1981), o i fenomeni di urbanizzazione nell’Europa moderna, che spesso hanno reso ridondanti le denominazioni relative alla famiglia allargata di matrice contadina.
Sistematizzati dall’antropologia ottocentesca secondo criteri piuttosto rigidi (Morgan 1871), e successivamente ritenuti, al contrario, frutto di scelte autonome da parte di ciascuna comunità (Kroeber 1919), e quindi allusivi, secondo un approccio funzionalista (Radcliffe-Brown 1941; Lévi-Strauss 1949), del legame tra il nome stesso e la funzione che il membro denominato ha nella società, i nomi di parentela – pur non formando necessariamente un tutto ben ordinato e omogeneo (Moruzzi 1992; Peletz 1995) – si distinguono in due tipi di sistemi:
(a) quelli descrittivi, che tendono a differenziare terminologicamente i parenti lineari (come il ‘sistema’ sudanese, nel quale nella successione di due generazioni non appaiono parenti che siano chiamati con lo stesso termine: Murdock 1949) e non presentano tentativi di classificazione;
(b) quelli classificatori, che utilizzano invece un solo termine per indicare una classe di persone e si basano sull’equivalenza dei fratelli (anche il fratello del padre è classificato come «padre») e degli affini (i parenti acquisiti vengono classificati come «consanguinei»: da questa base derivano, ad es., il fr. beau-frère «cognato» e belle-soeur «cognata», e l’ingl. brother-in-law «cognato» e sister-in-law «cognata»).
Tra i sistemi classificatori si distinguono ulteriormente quelli lineari (ad es. il sistema Crow o il sistema Omaha, tipici di due popolazioni amerindiane) e quelli non lineari (come il sistema eschimese), che distinguono i parenti in base al sesso e alla generazione, e i parenti in linea diretta da quelli in linea collaterale (mentre non c’è distinzione tra parenti in linea di discendenza paterna e parenti in linea materna, per cui «zio» è tanto il fratello del padre quanto il fratello della madre). Assimilabili al sistema eschimese sono i sistemi indoeuropei (Murdock 1949), e quindi quello italiano.
Proprio l’indoeuropeistica ha dimostrato che i nomi di parentela sono fra i più stabili e duraturi del ➔ lessico, sul piano sia formale sia semantico (Goody 1959), al punto che il «vocabolario della parentela, da solo, basterebbe a dimostrare la […] unità genetica» delle lingue indoeuropee (Benveniste 1969: 205). Basti pensare ai nomi per «padre» (indoeuropeo *pətēr) e «madre» (indoeuropeo *māter), rimasti pressoché invariati nella stragrande maggioranza degli idiomi indoeuropei, tra cui il latino.
Nel sistema latino (da cui derivano i nomi parentali in italiano) la figura centrale era il pater familias, nei cui confronti le relazioni potevano esser regolate sia dallo statuto giuridico dell’agnatio (ovvero della patria potestas) sia dai legami di sangue della cognatio, distinti secondo il grado o la linea; questa poteva essere retta (cognatio recta: è il caso di pater, mater, filius, filia, avus, avia, nepos, neptis, proavus, proavia, pronepos, proneptis) o collaterale (cognatio transversa: è il caso di frater [germanus] e soror [germana] «fratello» e «sorella», patruus «fratello del padre» e amita «sorella del padre», avunculus «fratello della madre» e matertera «sorella della madre», frater e soror [patruelis] «cugino» e «cugina» figli di fratelli; frater consobrinus e soror consobrina «cugino» e «cugina» figli di sorelle, ecc.).
Sviluppatosi dal latino volgare, già alterato rispetto al sistema del latino classico (basti pensare all’introduzione di zio e zia, dal gr. thêios e thêia, forme affermatesi progressivamente nell’area italiana e iberica), il sistema italiano dei nomi di parentela si è ancora modificato in epoca moderna (cfr. la tarda affermazione di fratello rispetto a frater; Cardona 1988: 298). Nell’italiano contemporaneo, ad es., nipote vale sia «figlio / figlia del figlio / figlia» sia «figlio / figlia del fratello / sorella»; inoltre si utilizza un solo termine per indicare lo stesso grado di parentela per ambedue i rami della famiglia, quello maschile e femminile (ad es. cugino / cugina), mentre la distinzione di ➔ genere viene data normalmente dall’uso del morfema denotante la qualità del genere (suocero ~ suocera; ma si veda l’importante eccezione di genero ~ nuora). In altre lingue, come ad es. il croato (Mardešić & Županović 2008), i nomi di parentela dipendono invece dalla linea materna o paterna di parentela a cui si riferiscono.
In italiano, i principali nomi di parentela si possono distinguere in rapporti di consanguinetà e di affinità.
I rapporti di consanguineità sono codificati secondo i seguenti parametri:
(a) seconda generazione ascendente:
(i) nonno (materno o paterno), nonna (materna o paterna), dall’etimo di «evidente derivazione infantile» (Cardona 1988: 297); il lat. avus, avia continua nell’italiano letterario avo, ava (pl. avi) e in forme dialettali isolate (af, ava, laf, lava in Lombardia, vava in Campania), mentre forme analitiche quali fr. grand-père, grand-mère si ritroverebbero nel lig. paye e maye grande, lomb. pa grand e mamma granda, campano pat[ə] r[w]oss[ə] e mamma rossa (AIS 1928-1940: 16, 17), nel pugl. mamma nonna; da nonno e avo derivano i termini per designare la terza o la quarta generazione ascendente: bisnonno, bisnonna, trisavolo, trisavola;
(ii) prozio materno o paterno, prozia materna o paterna;
(b) prima generazione ascendente:
(i) padre, madre, dal lat. pater e mater, ma di etimologia non chiara (probabilmente forme del linguaggio infantile, come papà e mamma: Szemérenyi 1977; Jakobson 1962); le forme si trovano in tutta l’area italiana (friul. pari, mari; piem. pa(y)re, ma(y)re, lomb. pader, mader; ven. pare, mare; sicil. patri, matri: AIS 1928-1940: 5, 8); tuttavia, nell’Italia centrale, Sardegna e Corsica, su padre prevale babbo (cfr. Dante, Inf. XXXII, 9: «né da lingua che chiami mamma o babbo»), mentre in Abruzzo, Campania e Puglia al tipo madre si affianca spesso quello di tata; ovunque è diffusa, seppure in modo non uniforme, la forma mamma, fin dai tempi del ritmo di Sant’Alessio (XIII sec.): «E lu patre co la mama / lauda Deu ka bonum foe lu ’nditiu / ket fece Christu tantu de propitiu» (vv. 78-80). Nell’italiano contemporaneo, però, mamma e papà sono da considerarsi anche allocutivi (➔ allocutivi, pronomi), ovvero forme di rispetto o di affetto dal forte valore simbolico utilizzate, in opposizione a madre e padre, per rivolgersi direttamente a un parente; è da notare infine che padre vale anche, per estensione, «antenato, ascendente» (cfr. Luigi Pulci, Morgante maggiore, I, 25, 1-3: «Gli antichi padri nostri nel deserto, / se le loro opre sante erano e giuste, / del ben servir da Dio n’avean buon merto»), «benefattore» (ad es. nell’espressione padre della patria), «persona di cui si riconosce l’autorità (padre Dante);
(ii) zio materno o paterno, zia materna o paterna; parole derivate, come già detto, dal gr. thêios e thêia, si sarebbero diffuse, a partire dall’Italia meridionale nella tarda latinità, solo in Italia e nella penisola iberica (mentre il lat. avunculus si sarebbe conservato in altre aree della Romània: si veda, ad es., il fr. oncle); nell’Italia settentrionale è altresì diffuso il tipo barba (AIS 1928-1940: 19, 20; LEI 1979-: ad vocem), di probabile derivazione longobarda;
(c) generazione di Ego:
(i) fratello, sorella; diminutivo di frater, fratello (AIS 1928-1940: 13) si sarebbe imposto definitivamente solo in epoca moderna, probabilmente in opposizione a frate, fra’ (esito normale dell’etimo latino, a sua volta derivato dall’indoeuropeo *bhrātēr), che aveva acquisito progressivamente il significato di «frate»; discorso analogo varrebbe per sorella (dal lat. soror, dall’indoeuropeo *swesōr), con l’avvertenza che nell’Italia meridionale, dove, invece di suora si usava un tempo monaca, il tipo sora / soru «sorella» è piuttosto diffuso (AIS 1928-1940: 14);
(ii) cugino, cugina, forme derivate dal basso lat. cosinus (probabilmente riduzione del lat. consobrinus attraverso *consinus) e diffusesi in tutta la Penisola, seppure in modo non uniforme (in Puglia e Basilicata resistono infatti i tipi consobrino, consobrina; mentre in Sardegna si usano tuttora le continuazioni del lat. fratuelis);
(d) prima generazione discendente: figlio, figlia; di etimologia incerta (Cardona 1988: 301), il tipo è diffuso in tutta l’area italiana, «in distribuzione più o meno complementare col diminutivo filiolus» (ibid.); ma si incontrano anche termini generici che valgono generalmente «ragazzo» (ven. toso) o per i quali non è pertinente la distinzione di genere, come il tipo creatura (Pauli 1919), ninno, ecc.;
(e) seconda generazione discendente: nipote, dal lat. nepos (inizialmente soltanto «figlio del figlio», poi anche, a partire dal IV secolo d.C., «figlio del fratello»), è uniformemente diffuso in tutta Italia (AIS 1928-1940: 18, 21, 22, 23); in alcune zone, tuttavia, si distingue tra «figlio del figlio» e «figlio del fratello»: ad es., in Trentino, per i due significati si usano rispettivamente nipo, nipota e neù, nésa.
I rapporti di affinità sono codificati secondo questi assi:
(a) unione matrimoniale e sua cessazione:
(i) marito, moglie, rispettivamente dal lat. maritus «colui che ha una fanciulla», e mulier «donna», diffusi in tutta l’area italiana (AIS 1928-1940: 72);
(ii) vedovo, vedova, dal lat. vidua (indoeuropeo *widhewā), tipo diffuso in tutta la Penisola, benché nel Meridione siano usati anche i tipi cattivo e cattiva (dal lat. captivus «prigioniero»);
(b) parenti acquisiti:
(i) cognato, cognata, dal lat. cognatus (AIS 1928-1940: 27, 28, 29, 30);
(ii) genero, nuora, che in italiano continuano piuttosto regolarmente il lat. gener e nurus (entrambi continuazione di forme indoeuropee);
(iii) suocero, suocera, dal lat. socer (AIS 1928-1940: 31, 32), diffusi ovunque anche se sostituiti nell’Italia settentrionale dai tipi analitici «il padre / la madre di mia moglie»; da essi derivano consuocero («suocero del figlio o della figlia») e consuocera («suocera del figlio o figlia»).
A margine di questa classificazione, va notato che a livello popolare, o anche solo colloquiale, alcuni nomi di parentela hanno usi estesi. Ad es., è diffusa in tutta Italia l’usanza, da parte di bambini e adolescenti, di chiamare zio e zia uomini e donne verso cui si porta rispetto (cfr. Deledda 1906: 7: «Egli dava il titolo di zio e zia, che i nuoresi danno solo alle persone anziane del popolo») o che, pur non avendo alcun legame di parentela con la famiglia, ne sono amici intrinseci. Del pari, nonno e nonna sono appellativi affettuosi popolari di persone molto anziane (su questa connotazione ironizza Pasolini nella poesia “Il Mondo salvato dai ragazzini”: «Cari studenti medi, non ho voluto esser padre, / ma non mi rifiuto, lo confesso, di essere nonno»), e madre può essere attribuito a persone anziane o importanti nella comunità.
Inoltre, va ricordato che grande importanza sociale hanno, in una comunità, i legami di parentela ‘spirituale’ che vengono stretti in occasione dei sacramenti del battesimo e del matrimonio: nati su un piano religioso, questi legami vengono infatti caricati «di profonde implicazioni sociali e tra coloro che lo contraggono si stabilisce una rete di obbligazioni reciproche» (Cardona 1988: 308). Ad essi si riferiscono termini (tutti con numerose varianti locali) come compare e comare (per significare il legame con i genitori del battezzato), e padrino e madrina (per significare il legame con il figlioccio), i quali non di rado hanno subito estensioni di significato (si pensi, ad es., al significato furbesco di compare).
I nomi di parentela comportano diverse peculiarità grammaticali e sintattiche (► articolo; ► genitori, nomi dei).
Se i nomi di parentela sono accompagnati da un aggettivo possessivo (➔ possessivi, aggettivi e pronomi) occorre osservare il comportamento dell’articolo (Serianni 1988: 51-52):
(a) con un nome al plurale l’articolo è obbligatorio: le nostre madri, i suoi figli, i miei nonni, ecc.; ugualmente necessario è oggi l’articolo con loro: la loro moglie, il loro fratello;
(b) con padre, madre, figlio e figlia l’articolo si omette: mio padre era ricco, mia figlia è un angelo; l’articolo va espresso, invece, con le varianti affettive babbo, papà, mamma, figliolo, figliola: «e il tuo babbo e la tua mamma son sempre vivi? (Collodi 1983: 55); «ringraziava Dio e i santi che avevano messo il suo figliuolo in mezzo a tutte quelle galanterie» (Verga 1995: 20-21); nell’italiano familiare, specie fuor di Toscana, sono tuttavia ben saldi i tipi mia mamma e mio papà (Rohlfs 1969: 431);
(c) con altri nomi di parentela l’uso toscano predilige l’articolo, ma altrove è comune l’omissione (ben rappresentata, del resto, anche in scrittori toscani come Tommaso Landolfi e Vasco Pratolini);
(d) l’articolo è però sempre necessario:
(i) con gli alterati: la mia sorellina; alla tua nonnina (ma non negli appellativi: nonnina mia!);
(ii) con patrigno, matrigna, figliastro, figliastra: il mio patrigno, la tua matrigna;
(iii) con i termini che indicano un rapporto sentimentale che non rientra (o non rientra ancora) nei vincoli della parentela: fidanzato, fidanzata, ragazzo, ragazza, moroso, morosa, amante, ecc.;
(iv) quando il possessivo è posposto, come capita sia in costrutti con valore enfatico sia in alcune forme di italiano regionale (in Campania, in Puglia, ecc.): «il figlio mio, mio figlio aveva bruciato» (Salvatore Cammarano, Il trovatore, parte II, scena 1);
(v) quando i nomi sono modificati da un aggettivo: la mia cara mamma, la mia vecchia nonna;
(e) quando il nome di parentela è accompagnato da un antroponimo (nome o cognome), è più frequente l’omissione dell’articolo: mio fratello Sante, suo cognato Malvica, ecc.
Nelle varietà regionali centro-meridionali e nei corrispondenti dialetti (➔ meridionali, dialetti), l’ordine non marcato degli elementi è articolo + nome + possessivo. Siccome gli aggettivi possessivi possono avere, in diverse di tali parlate, una forma tonica e una atona (clitica), la forme atone sono enclitiche ai nomi di parentela (➔ parole enclitiche): cfr. salentino patri + ma «mio padre» (lett. «padre-mio»), mamma + ta «la tua mamma».
Di norma, l’enclisi si riscontra per il singolare; tuttavia, in rari casi si può trovare anche al plurale. Nel caso in cui la forma enclitica manchi al plurale, si possono avere coppie come nel salentino fratita «tuo fratello» e (li) frati toi «(i) tuoi fratelli» (Sud Sound System, Brutalità per amore: «ma lottare è giustu lottare è buenu reagire è veru la sai, ma mai lottare contro li frati toi»). Quando, invece, è la forma enclitica singolare a mancare, non si ha enclisi neanche al plurale (Renzi 2001).
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