nobiltà e nobile (nobilità; nobilitade; nobiltade; nobiltate)
Dai classici, in primo luogo da Livio (a parte stanno le voci dissenzienti di alcuni moralisti, come vedremo), D. riceveva un concetto di n. essenzialmente politico-sociale. Solo il crollo dell'Impero e l'invasione dei barbari, determinando l'avvento di altre classi nobiliari, presto assorbite nelle strutture feudali, contribuirono a far nascere, per quanto in un campo confuso e non omogeneo, un nuovo tipo e un nuovo concetto di n. (che D., è chiaro, conobbe bene e per più dirette testimonianze), collegato a un preciso ideale di vita, a una particolare forma mentale, a un genere tipico di educazione, a un rigido codice etico per i quali la corte divenne centro vivo di valore ' o ' virtù ' (v. CORTESIA).
Occorre naturalmente considerare la n. medievale anche nel suo rapporto con la cavalleria e con la concezione della vita a essa propria, senza trascurarne, in pari tempo, l'interpretazione religiosa che la sollevava ad attributo esclusivo di Dio, estensibile alle creature solo in quanto queste possono venire assimilate, in misura diversa, a Dio stesso: " Quod per se habet esse, nobilius est eo quod habet esse in alio " (Tomm. Cont. Gent. 1254); " gradus nobilitatis et vilitatis in omnibus entibus attenditur secundum propinquitatem et distantiam a Deo, qui est in fine nobilitatis " (I 593): criterio di una gerarchia perfetta fra le cose.
Per effetto di un simile mutamento avvenuto durante il Medioevo e rifluito sia attraverso la predicazione religiosa sia attraverso la diffusione della cavalleria a livelli culturali non specializzati, la nozione di n. come eredità di sangue e vanto per le opere leggiadre dei maggiori (cfr. Pg XI 61-62) era già profondamente incrinata ai tempi di D., e del resto non è disagevole raccogliere copiose testimonianze predantesche allineate sul convincimento che la n. debba ricercarsi, più che in una distinzione di stirpe, ricchezza o potenza, in personali facoltà, quali la bontà del cuore, l'altezza degl'ideali, il culto e l'esercizio della virtù. Si tratta in genere di testimonianze contenute in testi transalpini, specie francesi, sia di natura cortese che enciclopedico-moralistica (Corti): le liriche di Guilhelm di Monthanaghol, Arnaut de Maraill, Giraut de Borneill, la tenzone del Delfino d'Alvernia Roberto I col trovatore Perdigon (" gentil corage / Fan los gentils els joios, / E l gentileza de nos / Non val mais a eretage, / Pos tut em d'un razitz "), il Trattato d'amore di Andrea Cappellano (" ex bonis tantum moribus et hominis probitate ac curialitatis fornite a primordio fuit orta nobilitas "; " magis enim ex moribus quam ex sanguine deprehenditur cuiusque nobilitas "), il De Eruditione filiorum regalium e lo Speculum maius quadruplex, naturale, doctrinale, morale, historiale di Vincenzo di Beauvais, la Summa virtutum ac vitiorum 'di G. Peraldo (v. XXVIII 2 " Quod nullus fit nobilis ex eo quod ex nobilibus parentibus sit generatus, rationibus ostenditur "; XXIX 2 " Quod sex sunt signa verae nobilitatis "), il Communiloquium di Johannes di Wall (III, dist. III, I , Quod non glorientur de sua nobilitate; II De vera nobilitate), il De Eruditione principum di ignoto (il Peraldo?), anch'esso interessato alla quaestio (I IV De Erroribus qui sunt circa nobilitatem; V De vera nobilitate).
All'acquisizione del problema da parte della cultura italiana del Duecento contribuirono, separatamente o in concomitanza, la spinta del rinnovato pensiero aristotelico-tomistico (Casella), le esigenze politiche e spirituali del movimento guelfo (Dallari), la " rivincita civico-borghese ", attiva in un'orbita piuttosto sociale che scientifica e politica (Corti).
Da tramite naturale fra la cultura francese e quella italiana funzionò, va da sé, Brunetto Latini, il quale ci appare però ben sostenuto anche su autorità classiche, bibliche e patristiche: " Seneca dice: Ah ! come l'uomo è vile e dispregievole cosa, se non si eleva di sopra l'umane cose. E quando così è elevato, è dirittamente nobile... e questo uomo è chiamato nobile per le nobili operazioni di virtù. E di ciò nacque in prima nobiltà di gentil gente, e non di quelli antichissimi. E ad essere di cattivo cuore e di gran legnaggio, si è come vaso di terra coperta di fino oro di fuori. E di ciò disse Salomone: Bene avventurata è la terra, che ha nobile signore, perché la ragione, la quale gli dà nobiltà, abbatte tutte malvagità. Seneca dice: Chi è nobile? Sarà egli colui ch'è per natura istabilito a virtude. Girolamo disse: Sovrana nobilitade è chiarezza di virtude " (Tesoro, volgarizzato da Bono Giamboni, ediz. Chabaille, III, Bologna 1880, 229-230); e ancora: " quello che si diletta in nobiltà di grande lignaggio, e si vanta d'alta antichitade di antecessori, s'egli non fa le buone opere, quel vanto gli torna più a vitupero che ad onore " (p. 456, con rimandi a Giovenale, Seneca, Orazio, Cicerone, Boezio, e qualche ricordo del Roman de la Rose 6549-6562; v. anche Tesoretto 1720-1736).
La vitalità della quaestio in ambienti di eletta cultura e d'intenso fervore intellettuale è documentata dalla " contentio de nobilitate generis et animi probitate " dibattuta in scholis, esposta in una epistola longa di un certo Magister T. a Pier della Vigna e Taddeo da Sessa, e conclusa con l'affermazione che " probitatem modis omnibus esse nobilitati praeferendam ".
Così per Guittone " non ver lignaggio fa sangue, ma core, / ni vero pregio poder, ma vertute " (cfr. Comune perla fa comun dolore 40-50; dello stesso, v. la lettera XXV).
Ma l'impulso più forte alla definitiva traslazione del termine dall'orbita feudale-cavalleresca a quella religioso-morale avvenne col Guinizzelli e poi con gli stilnovisti. Si allude naturalmente, come a testo principe, alla canzone Al cor gentil, la cui portata ideologica (limitata dal Contini in favore della novità linguistica e fantastica) resta notevolissima, pur inserendosi in una tradizione prossima e remota, soprattutto per il modo perentorio con cui vi si proclama, quasi ex cathedra (Parodi), l'identità fra amore e cor gentile, e vi si rifiuta il carattere agnatizio della n.: " ché non dé dar om fé / che gentilezza sia fòr di coraggio in degnità d'ere' / sed a vertute non ha gentil core " (vv. 35-38).
Venendo ora a D., è da osservare preliminarmente come egli non espunga dai suoi scritti, in modo drastico, il senso (e il gusto) della n. ereditaria: da un lato, ad esempio, nutre sospetto e repulsione per i villani d'Aguglione o da Signa (Pd XVI 56), per le bestie fiesolane (If XV 73) e la gente nuova (XVI 73), dall'altro sottolinea con orgoglio la sua discendenza dal seme romano (XV 74-78) e rammemora nostalgicamente le antiche e illustri schiatte (Pg XIV 88-126, Pd XVI 88-141) compiangendone la decadenza.
In questo clima spirituale s'iscrive con ogni probabilità il notissimo passo di Pd XVI 1-9 O poca nostra nobiltà di sangue, / se glorïar di te la gente fai / qua giù dove l'affetto nostro langue, / mirabil cosa non mi sarà mai: / ché là dove appetito non si torce, / dico nel cielo, io me ne gloriai. / Ben se' tu manto che tosto raccorce: / sì che, se non s'appon di dì in die, / lo tempo va dintorno con le force. Passo dibattuto e variamente interpretato, ma che in ogni caso non sembra da risolvere in una condanna della n. di sangue, se D. di essa si gloria là dove appetito non si torce. Il pregio della n. ereditaria è per il nostro poeta sentimento ‛ ben diretto ', o, che è lo stesso, diretto in cosa buona.
Vero è che questa n. recepita è poca cosa (rispetto, s'intende, all'altra n. che s'identifica con la virtù) e presto, come le terzine riconoscono, si consuma se non riceve continuo alimento da nuove opere virtuose: la n. degli antenati non è insomma in sé condannabile o superflua, e coopera anzi con la n. spirituale nel senso che ne stimola l'impegno emulativo e crea le condizioni favorevoli al suo irrobustimento, com'è dato desumere da Mn II III 4-7 merito virtutis nobilitantur homines, virtutis videlicet propriae vel maiorum. Est enim nobilitas virtus et divitiae antiquae, iuxta Phylosophum in Politicis; et iuxta Iuvenalem: nobilitas animi sola est atque unica virtus, onde Enea è nobile non solum sua considerata virtute sed progenitorum suorum atque uxorum, quorum utrorunque nobilitas hereditario iure in ipsum confluxit, sul cui sfondo potrebbe figurare un passo di Boezio con tutta probabilità ben presente a D.: " Quodsi quid est in nobilitate bonum, id esse arbitror solum, ut imposita nobilibus necessitudo videatur ne a maiorum virtute degeneret " (Cons. phil. III VI 9).
È legittimo supporre che la posizione a cui D. approda nella Monarchia e nel Paradiso rappresenti la fase più matura del suo pensiero sull'argomento, in sintonia con la rinnovata fiducia per l'opera e il valore dell'Impero, tanto più se si consideri che il compiacimento per la n. di sangue irrompe nei suoi versi nel momento in cui egli viene a conoscere non già l'aristocrazia del proprio casato (che non dice di aver conosciuta solo allora), ma la sanzione imperiale di tale eletto status (ed el mi cinse de la sua milizia, Pd XV 140) su di lui ripercossa attraverso la serie dei maggiori amorosamente celebrati nei canti di Cacciaguida: qui si può trovare una più profonda ragione degli appellativi ‛ padre ', ‛ radice ', ‛ piota ', così frequentemente attribuiti al trisavolo che seppe per primo meritarsi l'alto onore della milizia (Figurelli, con comprensibile accentuazione del ‛ bene operare ' sull'investitura cavalleresca che ne fu la conseguenza).
Fase più matura, si diceva, relativamente alla complessa teoria della n. esposta nel IV trattato del Convivio a commento di Le dolci rime, teoria intesa a riprovare la discendenza della gentilezza dalla ricchezza, secondo una presunta definizione di Federico II, e a riducer la gente in diritta via sopra la propria conoscenza de la verace nobilitade (IV I 9).
Per una maggiore perspicuità del discorso parrebbe opportuno a questo punto distinguere le aree semantiche dei vocaboli ‛ nobiltà ' e ‛ gentilezza ' (v.), che solo in parte si sovrappongono. Ma almeno in relazione al problema in esame la preoccupazione non sussiste per l'indiscutibile intervento di D. stesso: la gentilezza o ver nobilitade, che per una cosa intendo (IV XIV 8).
E sarà bene anche avvertire, prima di procedere oltre, che nessun documento a noi noto attesta quando e dove Federico II abbia ricondotto la n. ad antica ricchezza e belli costumi (IV III 6): un componimento che per il Monteverdi (v. L'opera poetica di Federico II imperatore, in " Studi Medievali " XVII [1951] 1 ss.; rist. in Studi e saggi sulla letteratura ital. dei primi secoli, Milano-Napoli 1954) può essere incluso nel suo esilissimo canzoniere elabora anzi un concetto del tutto differente: " Né di ric[c]hezze aver grande abundanza / faria Pomo ch'è vile esser valente, / ma della ordinata costumanza / discende gentilezza tra la gente " (cfr. Misura, providenzia e meritanza 5-8, in Panvini, Rime 162). Probabilmente D. avrà attribuito all'imperatore una massima circolante alla sua corte, emersa da una di quelle dispute che vi si svolgevano di frequente, come abbiamo già avuto occasione di ricordare. A ogni modo la presunta definizione federiciana ricalca quella aristotelica che poi D. ricorderà in Mn II III 3, e il fatto che qui Aristotele non venga nominato dipenderà da una lettura ancora incompleta dei suoi scritti: il che tra l'altro avvalora la tesi di uno svolgimento della quaestio dal Convivio alle opere seriori.
L'argomentazione dantesca, sfrondata da una folla di premesse e digressioni che qui non è il caso di esporre, si svolge attraverso i seguenti punti capitali. Le ricchezze non possono dare n. in quanto imperfette per natura (non causano felicità ma affanno, non sono distribuite secondo i meriti, più crescono e più sono pericolose) e quindi vili, mentre la n. è perfezione: è da sapere che la viltade di ciascuna cosa da la imperfezione di quella si prende, e così la nobilitade da la perfezione: onde tanto quanto la cosa è perfetta, tanto è in sua natura nobile; quanto imperfetta, tanto vile (Cv IV XI 2).
Né la n. può dipendere dal tempo (antica ricchezza): Che se lo figlio del villano è pur villano, e lo figlio fia pur figlio di villano e così fia anche villano, e anche suo figlio, e così sempre, e mai non s'avrà a trovare là dove nobilitade per processo di tempo si cominci (IV XIV 4). Parimente inammissibile è che la nobilitade si comincerà in quel tempo che si dimenticherà lo basso stato de li antecessori (XIV 5), poiché ciò comporterebbe, tra l'altro, l'assurdo di uno stretto legame tra la n. e la smemoratezza: quanto li uomini smemorati più fossero, più tosto sarebbero nobili; e per contrario, quanto con più buona memoria, tanto più tardi nobili si farebbero (XIV 8); d'altra parte se, per ipotesi, un nobile obliasse il basso stato dei suoi antecessori, si verificherebbe l'altro assurdo di una n. esistente prima della dimenticanza, sua supposta causa, cioè verrebbe prima lo generato che lo generante; che è del tutto impossibile (XIV 12); e poi se uomo non si può fare di villano gentile o di vile padre non può nascere gentile figlio ... de li due inconvenienti l'uno seguire conviene: l'uno si è che nulla nobilitade sia; l'altro si è che 'l mondo sempre sia stato con più uomini, sì che da uno solo la umana generazione discesa non sia (XV 2), contro l'evidenza e l'autorità delle Scritture.
Confutata la falsissima e dannosissima oppinione de li malvagi e ingannati uomini che di nobilitade hanno infino a ora iniquamente parlato (XVI 1), D. passa a diterminare d'essa nobilitade secondo la veritade, fissandone l'essenza (che è questa nobilitade) e i caratteri distintivi (come conoscere si puote colui dov'ella è, XVI 2).
Secondo la comune consuetudine di parlare, per questo vocabulo ‛ nobilitade ' s'intende perfezione di propria natura in ciascuna cosa (XVI 4), sì che essa si può predicare non solo dell'uomo ma anche delle cose: l'uomo chiama nobile pietra, nobile pianta, nobile cavallo, nobile falcone (XVI 5). Pertanto D., respinta l'etimologia di Uguccione da Pisa (‛ nobile ' da notabilis), fa derivare il vocabolo da non vilis sulle orme di Isidoro di Siviglia (Origines X 184): sono alquanti folli che credono che per questo vocabulo ‛ nobile ' s'intenda ‛ essere da molti nominato e conosciuto ', e dicono che viene da uno verbo che sta per conoscere, cioè ‛ nosco '. E questo è falsissimo; ché, se ciò fosse, quali cose più fossero nomate e conosciute in loro genere, più sarebbero in loro genere nobili: e così la guglia di San Piero sarebbe la più nobile pietra del mondo; e Asdente, lo calzolaio da Parma, sarebbe più nobile che alcuno suo cittadino; e Albuino de la Scala sarebbe più nobile che Guido da Castello di Reggio: che ciascuna di queste cose è falsissima. E però è falsissimo che ‛ nobile ' vegna da. ‛ conoscere ', ma viene da ‛ non vile '; onde ‛ nobile ' è quasi ' non vile ' (XVI 6).
Ma la n. umana è qualche cosa di molto più specifico ancora, che va definita in funzione degli effetti, vale a dire delle virtù morali e intellettuali adducenti alla felicità e delle quali essa nostra nobilitade è seme (XVI 10). Importando infatti la n. e la virtù le lodi di chi le possiede (segno di un loro intrinseco rapporto) ed estendendosi la prima assai più della seconda, è da presumere che quella sia causa di questa e non il contrario: Ché lo piè de l'albero, che tutti li altri rami comprende, si dee principio dire e cagione di quelli, e non quelli di lui; e così nobilitade, [che] comprende ogni vertude, sì come cagione effetto comprende, [e] molte altre nostre operazioni laudabili, si dee avere per tale, che la vertude sia da ridurre ad essa (XVIII 5).
La diversa estensione della n. e della virtù porta con sé che è nobilitade dovunque è vertude, e non vertude dovunque nobilitade (XIX 5), così com'è cielo dovunque è la stella, ma non il contrario. Comparazione questa, del cielo a l'umana nobilitade, veramente bella e convenevole (XIX 7), ché in effetti la n. è cielo ne lo quale molte e diverse stelle rilucono. Riluce in essa le intellettuali e le morali virtudi; riluce in essa le buone disposizioni da natura date, cioè pietade e religione, e le laudabili passioni, cioè vergogna e misericordia e altre molte; riluce in essa le corporali bontadi, cioè bellezza, fortezza e quasi perpetua valitudine (XIX 5). Oltre che delle virtù morali e intellettuali, la n. appare a D., come si vede, principio delle buone inclinazioni naturali e delle buone qualità fisiche, collocandosi all'origine di tutta la vita, vista nel quadro delle sue attribuzioni. Sotto un certo rispetto la n. umana, quanto è da la parte di molti suoi frutti, quella de l'angelo soperchia, tutto che l'angelica in sua unitade sia più divina (XIX 6), perché l'organismo umano è assai più complesso di quello angelico e richiede una potenza assai maggiore nel germe generativo delle sue varie qualificazioni. Ma certo le parole di D. riflettono un concetto altissimo dell'uomo, in cui le ascendenze scritturali (Che cosa è l'uomo, che tu, Dio, lo visiti? Tu l'hai fatto poco minore che li angeli, di gloria e d'onore l'hai coronato, e posto lui sopra l'opere de le mani tue [XIX 7], traduzione da Ps. 8, 5-7) si fondono coi risultati di una personale, intensa meditazione.
La n. è prima di tutto una grazia, un dono concesso da Dio, appo cui non è scelta di persone (XX 3), sentenza biblica, questa, dalle molte ricorrenze (Deut. 10, 17; Paral. 19, 7; Act. Ap. 10, 34; Rom. 2, 11; Ephes. 6, 9; Coloss. 3, 25, Petr. II Epist. 19, 7), che esclude, nell'attribuzione del carisma, l'arbitrio divino: Dio solo porge questa grazia a l'anima di quelli cui vede stare perfettamente ne la sua persona, acconcio e disposto a questo divino atto ricevere (XX 7). Così la caritas del creatore si congiunge con la disposizione della creatura, secondo una linea dottrinale alla quale si era da poco rifatto anche il Guinizzelli, non a caso qui espressamente citato: se l'anima è imperfettamente posta, non è disposta a ricevere questa benedetta e divina infusione: sì come se una pietra margarita è male disposta, o vero imperfetta, la vertù celestiale ricevere non può, sì come disse quel nobile Guido Guinizzelli in una sua canzone, che comincia: Al cor gentil ripara sempre Amore (XX 7).
Tutto sommato, è manifesto che nobilitade umana non sia altro che ‛ seme di felicitade ', messo da Dio ne l'anima ben posta, cioè lo cui corpo è d'ogni parte disposto perfettamente (XX 9): caratteristica quindi strettamente personale. Di qui il corollario che la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno nobile la stirpe (XX 5).
In concreto il seme della n. discende nell'uomo per due modi, naturale e teologico. Il modo naturale riguarda il momento dell'infusione divina nel processo della generazione: esso sopravviene quando all'anima vegetativa e sensibile (conformate secondo la bontà del generante e l'influenza dei cieli) si aggiunge per intervento di Dio l'intelletto possibile, ossia l'anima razionale. Dalla perfezione di tale confluenza dipende la misura maggiore o minore di n. concessa alla persona. Che se la disposizione dell'anima, per l'eccellenza di tutte le sue componenti, fosse ottima, tanto discenderebbe in quella de la deitade, che quasi sarebbe un altro Iddio incarnato (XXI 10). Il modo teologico si riferisce agli specifici doni dello Spirito Santo in cui la n. s'identifica come in abiti dell'anima eletta: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietate e timore di Dio (cfr. XXI 12). In tale stadio sarà oltremodo difficile distinguere la n. dalla grazia santificante: l'una e l'altra sono ormai divenute una cosa sola.
Si noti che sinora, se si è sottolineato il carattere personale della n., si è anche però insistito su una sequenza di momenti soprannaturali e naturali del tutto indipendenti dalla responsabilità individuale, attraverso i quali il seme della felicità viene deposto nell'anima umana: si consideri infatti che la disposizione dell'anima stessa ad accogliere il dono divino risulta da fattori non connessi alla volontà. La responsabilità del singolo viene chiamata in causa successivamente all'infusione del seme divino: beati quelli che tale sementa coltivano come si conviene (XXI 12), dove il fuoco dell'interesse è tutto concentrato sul come si conviene.
L'intervento umano tendente a trasmutare in abito razionale e consapevole l'insieme delle premesse necessarie all'avvento della n. opera sull'appetito dell'animo, originato appunto dal dono del creatore: Ove è da sapere che 'l primo e lo più nobile rampollo [si noti qui l'accezione metaforicamente araldica del termine] che germogli di questo seme... si è l'appetito de l'animo, lo quale in greco è chiamato ‛ hormen '. E se questo non è bene culto e sostenuto diritto per buona consuetudine, poco vale la sementa, e meglio sarebbe non essere seminato (XXI 13). Solo adesso la n. entra in un'orbita decisamente morale e si completa di un elemento senza del quale tutti gli altri suoi requisiti mancano di valore. Che se essa qualifica e dirige tutte le potenze interiori, differenziandosi secondo le esigenze dell'anima vegetativa e sensitiva (cfr. XXIII 3), massimamente si disvela nell'atto dell'anima razionale, la nostra nobilissima parte (XXII 13) che più di ogni altra ci sospinge al limite della beatitudine godibile in terra.
Circa i segni per i quali la n. si rende manifesta nell'uomo, essi mutano da età a età: obbedienza, soavità, vergogna, adornezza corporale nell'adolescenza (cfr. XXIV 11); temperanza, forza, amore, cortesia e lealtà nella giovinezza (cfr. XXVI 2); prudenza, giustizia, larghezza o liberalità, affabilità nella ‛ senettude ' (cfr. XXVII 2); il ritorno della mente a Dio e la benedizione del cammino compiuto nel ‛ senio ' (cfr. XXVIII 2).
In tal modo sotto l'insegna della n. D. ricostruisce la carriera ideale dell'uomo dalla nascita alla morte, riconfermando in termini esclusivamente morali e personali il prestigio che da essa scaturisce: n., in senso proprio, è proprietà inconfondibile dell'individuo, che ha anima e volontà; la schiatta, priva di anima, può venir detta nobile in modo estensivo, come insieme di individui nobili: sì come d'una massa bianca di grano si potrebbe levare a grano a grano lo formento, e a grano [a grano] restituire meliga rossa, e tutta la massa finalmente cangerebbe colore; così de la nobile progenie potrebbero li buoni morire a uno a uno e nascere in quella li malvagi, tanto che cangerebbe lo nome, e non nobile ma vile da dire sarebbe (XXIX 11).
L'area di diffusione competente a quest'accezione dei vocaboli ‛ nobile ' e ‛ nobiltà ' (un'area sfumante dal grado agnatizio a quello cortese e stilnovistico a quello etico) è, come si comprende, assai vasta: vi appartengono, per ‛ nobiltà ', le seguenti occorrenze: Rime XLVII 2, XC 47, Vn XII 4, XIX 18, Cv I IX 8, II XV 3, IV Le dolci rime 89 (ripreso in XVIII 1), I 7 e 11, III 1, VIII 5 e 9 (tre volte), X 1 (due volte), 2 (tre volte), 3, 5 (due volte), 6, 7 (due volte), 8, 9, 10, 11 e 12 (due volte), XI 1 (due volte), XIII 16 (due volte), XIV 1, 3 (due volte), 5, 7, 8, 9, 10 (due volte), 11 (due volte), 13 (due volte) e 15, XV 1, 3 e 5, XVI 3, 4, 8, 9 e 11, XVIII 2, 3 e 6, XIX 3 (tre volte), 4, 6 (due volte), 7, 8 e 10 (quattro volte), XX 1 (tre volte), 2 (tre volte), 9 (tre volte) e 10, XXI 1 e 3, XXII 16, XXIII 1 e 2, XXIV 7, XXV 3, XXVIII 19 (due volte), XXIX 1 (due volte), 2 e 3, XXX 6 (due volte); per ‛ nobile ' (più volte usato al superlativo e anche sostantivato) le seguenti occorrenze: Vn XXIX 1, 9 36, XXII 1, XXIII 8, XXXIV 11 13, XXXV 3, XXXVI 1; Cv I IX 5 (due volte) e 8, III XII 13, IV VI 12 e 19, VIII 5, XIV 12 e 14 (tre volte), XV 4 (due volte) e 5 (due volte), XVI 5, XX 4, 5 e 7, XXI 2, XXIII 1 (due volte), 2 e 4, XXV 3 (due volte), 9 (due volte), 11 e 13 (tre volte), XXVI 1, 2, 3 e 6 (due volte), 13 e 15, XXVII 1 (due volte), 2 e 20, XXVIII 1, 5, 7, 8 (due volte), 11, 13, 15, 17 (due volte) e 19, XXIX 1 (due volte), 3 (due volte), 4 (traduzione da Giovenale Sat. VIII 30-32: il termine latino corrispondente è generosus), 8 e 10 (tre volte).
Retrocedendo al livello semantico più comune, da cui D. ha preso le mosse, e che assegna a ‛ nobiltà ' il valore di " perfezione ", " eccellenza " di una cosa in rapporto alla sua natura, il vocabolo può riferirsi ad Amore (Vn VII 4 8), oppure al corpo di Beatrice (XIX 18), o al latino rispetto al volgare (Cv I V 7, due volte), o alla scienza (II XIII 30, due volte), o alla stella (IV XXI 2), o alla memoria (If II 9 qui si parrà la tua nobilitate), o anche genericamente, come " elevatezza spirituale ", all'animo: avarizia che da ogni nobilitade d'animo li rimuove (I IX 2). Esempi affini in Vn XLI 1, Rime LXVII 74, XC 4, Cv II V 6 e 8, VI 10, VII 3, III II 14, 1V XXI 2.
In particolare allude alla dignità originaria dell'uomo, creatura di Dio: Di tutte queste dote s'avvantaggia / l'umana creatura, e s'una manca, / di sua nobilità convien che caggia (Pd VII 78; v. anche Cv III III 5).
Nobiltà-di-cuor (v.) è personificazione del Fiore (LXXIV 2).
Più frastagliata la situazione semantica di ‛ nobile ': anche questo termine ha alla base il significato di " perfetto secondo le possibilità di natura ": nulla è quindi più n. di ciò che si correla con la natura di Dio: è il caso della filosofia in quanto amoroso uso di sapienza, nobilissima di tutte [le cose] assolutamente (Cv III XII 12) se la si considera attività divina (cfr. le due occorrenze in III XII 13): " Deus... qui non est aliud quam suum esse, est universaliter ens perfectum. Et dico universaliter perfectum cui non deest alicuius generis nobilitas. Omnis enim nobilitas cuiuscumque rei est sibi secundum suum esse " (Tomm. Cont. Gent. I 259-260).
Così con diversa intensità espressiva e forza caratterizzante, sottolineata nelle più alte tensioni concettuali dall'uso assai frequente del superlativo, l'aggettivo qualifica di volta in volta gli angeli (Cv II V 5), l'essenza del cielo (II V 18), l'anima umana (III II 6), la ragione (II VII 3), la mente (III II 16), un circolo ben fatto (IV XVI 7; all'opposto lo circulo che ha figura d'uovo non è nobile, § 8), il latino che seguita arte (I V 14) laddove il volgare seguita uso, il castello del Limbo (If IV 106., dove nobile vale " signorile " per molti commentatori, oppure " abitato da gente nobile ": ma vedi la nota del Barbi, in " Studi d. " XIX [1935] 21). Di tipo conforme gli esempi di Vn XIV 5, XXI 5 (due volte), Cv I I 2, II III 15 e 16, V 6, VII 3, III II 6 e 15, III 12, V 5 (due volte), VI 13, IV VII 11, IX 13, XIII 9 perfetta e nobile perfezione (ridondanza altre volte riscontrabile nel Convivio), XIV 9 (quattro volte), XV 11, XIX 4, XX 10, XXI 2, XXII 8 (due volte) e 10, XXIII 15, XXX 5.
Più specificamente corrisponde talora a " eccellente ", " elevato ", anche in dittologia con ‛ alto ': e questa [scienza: l'Astrologia] più che alcuna de le sopra dette è nobile e alta per nobile e alto subietto... e alta e nobile per la sua certezza (Cv II XIII 30); è da porre e da credere fermamente, che sia alcuno tanto nobile e di sì alta condizione che quasi non sia altro che angelo (III VII 6); uno filosofo nobilissimo (XI 3: di alto ingegno e amatore di sapienza: cfr. il § 5); nobile nome (III XI 18); e anche Cv III V 20, VIII 5, XIV 9, IV XXI 9 (traduzione dal De Causis, prop. 3 e lect. 3); Pg XII 25 colui che fu nobil creato / più ch'altra creatura (Lucifero, la somma d'ogne creatura: cfr. Pd XIX 47); Detto 223. Singolare la rielaborazione di " ab alto / aethere " (Ovid. Met. I 80-81), che alla lettera significa " dalle regioni alte dell'etere ", in dal nobile corpo sottile e diafano (Cv IV XV 8) dove l'altezza è estratta dalle misure fisiche in una direzione di eccellenza ontologica.
Altrove offre una significazione morale (non sempre ben distinguibile dall'accezione precedente) e si accosta al valore di " virtuoso ", congiungendosi spesso proprio col sostantivo " virtù " in una sorta di duplicazione intensiva: era di sì nobilissima vertù (VII II 9); tutte queste nobilissime vertudi (Cv III II 16); la prima semplicissima e nobilissima vertude (VII 5); La nobile virtù Beatrice intende / per lo libero arbitrio (Pg XVIII 73).
Nel nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno (Vn II 3), di cui Beatrice è vestita al suo primo apparire a D., va visto, assai probabilmente, un riflesso simbolico della carità (cfr. Pg XXX 32-33 donna m'apparve, sotto verde manto / vestita di color di fiamma viva); del pari i nobili e laudabili portamenti (II 8) di lei si caricano della virtù spirituale che investe ogni particolare di quell'immagine.
Metteremo in questa sezione le occorrenze di Rime dubbie XXIV 1, Cv I X 1, II X 6, XII 9 nobilissima e bellissima Filosofia, " omnium magistra virtutum " (Boezio Cons. phil. I III 3), III XII 14.
A parte vanno considerati i due luoghi di Vn XVII 1 e If X 26. Il primo (a me convenne ripigliare macera nuova e più nobile che la passata, alla vigilia di Donne ch'avete intelletto d'amore) indica lo stacco tra due maniere poetiche di diverso pregio, l'una di scuola, l'altra originale e contrassegnata da elevatezza di dottrina e di stile (lo stilo de la loda). Nel secondo (La tua loquela ti fa manifesto / di quella nobil patria natio, / a la qual forse fui troppo molesto) confluisce un'inveterata tradizione storica fatta propria da D. con forte slancio di fede, quella che proclamava Firenze figlia di Roma: La bellissima e famosissima figlia di Roma (Cv I III 4); e v., per un risvolto autobiografico, i noti versi di lf XV 74-78.
Nel Fiore il vocabolo si depotenzia al livello di " buono " (nobile novella, XX 1), " bello " (questa nobile ghirlanda, CXXXVIII 11, in un elenco di gioielli e ornamenti), " garbato ", " abile " (molto nobili parliere, XV 5).
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