NILO il Giovane, santo
NILO il Giovane, santo. – Secondo la principale fonte biografica – la Vita Nili, scritta da un anonimo agiografo greco (nessuna evidenza si ha della tradizionale identificazione con Bartolomeo di Grottaferrata) – nacque, secondogenito, nel 910 a Rossano, nella Calabria settentrionale. Il suo nome da laico sarebbe stato Nicola, secondo una tradizione attestata per la prima volta nell’Encomio in onore di Bartolomeo di Grottaferrata, composto nel 1229 da Giovanni Rossanese.
Consacrato dai genitori al servizio della locale chiesa cattedrale, intitolata alla Madre di Dio, ricevette gli ordini ecclesiastici minori (presumibilmente non oltre il grado del lettorato) e dopo la morte dei genitori fu allevato dalla sorella maggiore; uscito dall’adolescenza, sposò una giovane di Rossano, di umili origini, da cui ebbe una figlia.
All’età di trent’anni, dopo una grave malattia, decise di abbandonare la famiglia per farsi monaco (possibilità prevista, a Bisanzio, sia dalla legislazione civile, sia da quella ecclesiastica). Si diresse, dunque, verso i cenobi della celebre regione monastica del Mercurion, ai confini fra Calabria e Lucania, dove, pur accolto favorevolmente dai monaci ivi residenti, non poté appagare il suo desiderio di ricevere la tonsura, a causa di una minacciosa proibizione del governatore bizantino, probabilmente da mettere in relazione con la novella − promulgata da Romano I Lecapeno nel 934 al fine di impedire la formazione di estesi latifondi laici ed ecclesiastici − che vietava, in particolare, il trasferimento ai monasteri di beni fondiari da parte di coloro che abbracciavano la vita monastica: Nilo possedeva ancora, infatti, almeno un terreno nell’entroterra rossanese (Follieri, 2000).
Si recò, allora, nel monastero di S. Nazario, nel principato longobardo di Salerno e dunque fuori dalla giurisdizione bizantina, dove riuscì, finalmente, a farsi monaco. Trascorsi pochi giorni in tale cenobio vivendo in rigida penitenza e dedicandosi al lavoro di copista, dopo aver rifiutato la proposta dell’egumeno di essere posto a capo di un metochion dello stesso monastero, fece ritorno al Mercurion, dove condusse per un certo periodo vita cenobitica (fra gli asceti che frequentò fu soprattutto Fantino quello che, per cultura e per intelligenza, sentì a sé più vicino: oltre alla Vita Nili, anche la praticamente coeva Vita Fantini attesta il rapporto di grande familiarità esistente fra i due). In seguito, però, spinto dal desiderio di condurre vita solitaria, si ritirò in una grotta della medesima regione posta sulla cima di un’altura, contenente un altare dedicato all’arcangelo Michele, dove attese allo studio dei Padri e all’attività di amanuense (sono pervenuti tre codici autografi di Nilo, oggi conservati nella biblioteca dell’abbazia di Grottaferrata con le segnature Β.α.XIX, Β.α.XX e Β.β.I: cfr. Gassisi, 1904).
A causa dell’inasprirsi della frequenza e della virulenza delle incursioni saracene nella regione del Mercurion fu costretto a trasferirsi, negli anni centrali del secolo X, in una sua proprietà presso Rossano, dove si trovava un oratorio dedicato a S. Adriano, e intorno a lui iniziarono a riunirsi molti monaci fra i quali, con ogni probabilità, anche il futuro biografo, di modo che, a poco a poco, finì per costituirsi lì un vero e proprio cenobio. Primo egumeno della nuova comunità non fu però Nilo, bensì un suo erudito discepolo di nome Proclo, dal momento che sin dal tempo della originaria tonsura egli aveva fatto voto che non avrebbe mai accettato alcuna dignità ecclesiastica (in seguito in due occasioni si sarebbe, perciò, coerentemente sottratto alla nomina a vescovo, sia a Rossano, sia a Capua).
Durante la permanenza nel cenobio di S. Adriano ebbe modo di fare visita, in diverse occasioni, alla sua città natale: una prima volta per constatare i danni provocati da un’ingente frana; in seguito per riformarvi il monastero femminile annesso all’oratorio dedicato a S. Anastasia; altre volte, poi, per intrattenersi a colloquio con notabili e prelati della cittadina sull’interpretazione di passi problematici della Scrittura e anche con ebrei, fra i quali il ben noto medico, astronomo e filosofo nativo di Oria Shabbĕtay Bar Abrāhām, detto Donnolo.
All’epoca del soggiorno presso S. Adriano avvennero anche gli incontri di Nilo con l’arrogante giudice imperiale dei temi italiani di Calabria e Langobardia Euprassio e con l’alto ufficiale militare di Mesiano Polieutto.
Euprassio, secondo il racconto della Vita Nili, giunto a Rossano dalla capitale Costantinopoli al culmine della sua tracotante potenza, ma progressivamente prostrato da un terribile morbo, sentendosi ormai vicino al trapasso (avvenuto prima del 969), supplicò il santo di degnarsi di incontrarlo, impetrandone il perdono e la tonsura. Polieutto, invece, avrebbe ottenuto da Nilo la guarigione per il figlio ossesso (episodio affrescato dal Domenichino nella cappella Farnesiana della chiesa di S. Maria di Grottaferrata).
Nilo beneficò anche l’intera popolazione di Rossano, ribellatasi violentemente a una gravosa corvée imposta dal governatore dei temi bizantini di Calabria e Langobardia, Niceforo Ἑξακιονίτης (che si fregiava dell’elevato titolo di magistro).
Mediante l’esattore delle tasse alle sue dipendenze Gregorio Maleino, il governatore aveva imposto agli abitanti di Rossano di concorrere all’allestimento di una flotta di chelandie (veloci navi d’assalto) che avrebbe dovuto partecipare alla spedizione militare organizzata dal magistro per conto dell’imperatore Niceforo II Foca contro gli Aghlabiti di Sicilia, all’indomani della rovinosa disfatta subita dai bizantini nell’isola, a Rametta (964). I rossanesi, dopo la ribellione, sotto la minaccia di ricevere dal governatore una punizione esemplare, ricorsero al patronato di Nilo, il quale riuscì a ottenere che non venisse loro comminata la pena capitale, né la confisca totale dei beni, ma soltanto una modesta ammenda pecuniaria.
La totale parresia del santo nei riguardi degli uomini di potere si dimostrò ancora quando giunse a Rossano da Costantinopoli un potente cubiculario imperiale (addetto alla camera da letto dell’imperatore, solitamente, come in questo caso, eunuco), il quale tentò invano di convincerlo a seguirlo nella capitale, dopo aver cercato di allettarlo con la promessa di introdurlo a corte.
La notorietà di Nilo non rimase peraltro circoscritta entro i confini del tema di Calabria e nel cuore dell’impero bizantino, ma si diffuse ampiamente anche nella vicina Sicilia araba, tanto che l’emiro di Palermo Ali ibn Ahmad, succeduto nel 970 al padre Ahmad ibn al Hasan e destinato a morire nella battaglia pur vittoriosa delle milizie musulmane contro Ottone II a Capo Colonne (13 luglio 982), si sarebbe risolto, proprio a motivo della reputazione di Nilo, a rilasciare, su richiesta del santo, tre monaci della comunità niliana che erano stati fatti prigionieri dagli Aghlabiti.
L’ultimo episodio riferito nella Vita Nili al periodo calabrese della biografia del protagonista concerne l’incontro con Basilio, lo stratego successore di Niceforo magistro a capo del tema di Calabria, che avrebbe manifestato a Nilo il suo desiderio di arricchire di doni l’oratorio di S. Adriano, venendo però dissuaso dal santo che gli preconizzò l’imminente dilagare dei saraceni in tutta la regione e la conseguente distruzione dello stesso oratorio.
Tale vaticinio costituì il preludio al definitivo abbandono della patria calabrese da parte di Nilo, che, schivo di ogni onore, si diresse non in Oriente, dove era ben noto, bensì in territorio longobardo, nel quale era ancora pressoché sconosciuto. Ma la sua fama di santità si diffuse presto anche fra i latini, tanto che a Capua fu accolto con attestazione di grande stima da Pandolfo I Capodiferro, principe di Capua e Benevento (marzo 961-marzo 981); qualche tempo dopo, morto Pandolfo, i capuani fecero assegnare a Nilo e alla sua comunità dall’abate di Montecassino Aligerno (948-985) una delle dipendenze del celebre monastero di S. Benedetto, e precisamente il cenobio di Valleluce dedicato all’arcangelo Michele. I benedettini, stando al racconto della Vita Nili, avrebbero allora invitato i monaci greci a celebrare nell’abbazia di Montecassino una funzione sacra nella loro lingua e Nilo avrebbe composto, a tale scopo, una ufficiatura per s. Benedetto (conservata sino ai nostri giorni, insieme a pochi altri suoi componimenti poetici: cfr. Gassisi, 1906).
A Valleluce Nilo fu visitato, all’inizio del 990, da Adalberto di Praga, in occasione di un suo pellegrinaggio verso Gerusalemme (tale incontro è riferito dalla più antica delle tre redazioni della Vita Adalberti prior, ma non nella Vita Nili: per una possibile spiegazione di tale omissione cfr. Follieri, 2004). Nell’arco del quindicennio trascorso a Valleluce Nilo fu convocato a Capua dalla vedova di Pandolfo I Capodiferro, Aloara, in preda al rimorso per aver fatto uccidere a tradimento un suo nipote e desiderosa di ottenere il conforto spirituale del santo, ma, secondo il racconto della Vita Nili, la dura penitenza impostale allora da Nilo come condizione per l’espiazione del delitto, ossia la consegna di uno dei figli di Aloara ai parenti dell’ucciso, non fu accettata dalla donna, alla quale sarebbe stata profetizzata dal santo la futura estinzione della dinastia capuana. A un certo punto Nilo ritenne la permanenza nel monastero di S. Michele intollerabile per la sua comunità, sia a motivo della mondanità del nuovo abate di Montecassino Mansone, succeduto nel 985 al pio Aligerno, sia per le eccessive agiatezze del cenobio, inconciliabili con un’autentica vita di perfezione spirituale. Così, qualche tempo prima della destituzione di Mansone (novembre 996), decise di abbandonare Valleluce – scontrandosi con la riottosità di una parte della sua comunità che si rifiutò di seguirlo – per insediarsi in una località desolata e inospitale presso Gaeta, denominata Serperi (probabilmente da identificarsi con l’attuale sito di Serapo), dove sarebbe rimasto poco meno di un decennio. Quivi il santo acconsentì, dopo essere stato a lungo pregato, a ricevere Emilia, la consorte del duca di Gaeta Giovanni III (986-1008).
Nonostante l’età ormai piuttosto avanzata, non si fece scrupolo, nella quaresima del 998, di recarsi a Roma presso l’imperatore tedesco Ottone III e il di lui cugino papa Gregorio V (al secolo Brunone), per perorare la causa del suo concittadino Giovanni Filagato, proclamato antipapa col nome di Giovanni XVI all’inizio del 997 per volontà del più potente rappresentante dell’aristocrazia romana del tempo, Crescenzio Nomentano, nel tentativo, poi fallito, di sbarazzarsi dei due cugini tedeschi. Filagato, dopo la sconfitta e l’uccisione di Crescenzio nel febbraio 998, era stato catturato mentre cercava di rifugiarsi in Campania, accecato, mutilato del naso e della lingua e rinchiuso in prigione a Roma. Nilo chiese al papa e all’imperatore di affidargli lo sventurato, ma se ne tornò deluso a Serperi senza Filagato, dopo che quest’ultimo ebbe subito, per volere di Gregorio V, un nuovo e umiliante oltraggio: essere trasportato per la città a cavalcioni di un asino con la faccia rivolta all’indietro.
A Serperi, però, l’anno successivo Nilo ricevette la reverente visita di Ottone III (rappresentata da Domenichino nel grande affresco sulla parete sinistra della cappella Farnesiana nella chiesa di S. Maria di Grottaferrata), nel viaggio di ritorno dal pellegrinaggio penitenziale effettuato dall’imperatore al santuario di S. Michele Arcangelo presso il Gargano. In quell’occasione, secondo il resoconto della Vita Nili, Nilo avrebbe declinato l’offerta imperiale dell’assegnazione di un monastero in una località a sua scelta.
Qualche tempo dopo il duca di Gaeta Giovanni III manifestò a Nilo, ormai prossimo alla morte, l’intenzione di dargli onorata sepoltura nella città e non a Serperi, come sarebbe stato suo desiderio. Decise, allora, nell’estate del 1004, di andarsene anche di là, dirigendosi a fatica, con una parte della comunità, verso Roma, sino a fermarsi nei dintorni della cittadina di Tuscolo, dove sorgeva un piccolo monastero greco dedicato a S. Agata. Il potente conte di Tuscolo Gregorio I si affrettò a rendergli omaggio, offrendogli in dono un terreno su cui edificare un nuovo monastero, dono che venne accettato.
Nella chiesa del cenobio di S. Agata, attorniato da tutti i suoi monaci, dopo aver lasciato precise disposizioni sul luogo della sua sepoltura (il terreno ricevuto dal conte Gregorio, dove sarebbe poi sorta l’abbazia di Grottaferrata), morì la sera del 25 settembre 1004 alla veneranda età di 95 anni.
È possibile stabilire la data esatta del decesso in base all’epigrafe iscritta su una transenna appartenente all’antico monastero criptense, in cui è riportato l’anno 6513 dell’era bizantina, corrispondente al periodo compreso fra il 1° settembre 1004 e il 31 agosto 1005 dell’era cristiana, e alla Vita Nili, dalla quale si apprende che Nilo morì ai vespri della festa di s. Giovanni apostolo, ovvero al tramonto del giorno che precede il 26 settembre.
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