LOSA, Nicolò
Nacque intorno al 1564 da Alessandro e forse dalla seconda moglie di questo, Secondina Della Porta di Nicolò, sposata in data imprecisata dopo la morte della prima moglie, Bianca Calusio.
La famiglia apparteneva alla "onesta magistratura piemontese" con "antenati tutti eminenti, chi per scienze, e dignità togate, chi per valore, e virtù militare, ed altri in dignità ecclesiastiche" (patenti del 10 sett. 1632, in Dionisotti, pp. 437 ss.). Il padre del L., Alessandro (1514-71) avvocato, giureconsulto e lettore di diritto a Tolosa e Torino, fu autore della raccolta In tertium codicis librum interpretationes (Lione 1537 e 1542), curò l'edizione della Prima et Secunda super primo Decretalium di Niccolò Tedeschi (Lione 1546 e 1549) e annotò l'opera di Bartolo da Sassoferrato (Venezia 1543); inoltre fu membro del ristretto gruppo di giureconsulti piemontesi che collaborarono con i Francesi a metà secolo XVI e successivamente dovettero fare i conti con la dinastia sabauda. Ebbe anche peripezie giudiziarie per un omicidio commesso nel 1531, per il quale ottenne un indulto.
Il L. comparve sulla scena pubblica intorno agli anni 1584-85, elogiato per la prudenza e la destrezza palesate "in molte occorrenze [(] in negotii di rilievo [(] in diverse cariche" (Arch. di Stato di Torino, Camerale, Patenti controllo finanze, 1621, n. 84). Non è chiaro l'esordio nella carriera, che in ogni caso non pare aver toccato lo Studio torinese. È invece attestata l'attività nelle magistrature provinciali: nel 1590 fu prefetto - una carica dotata di mero e misto imperio - della provincia di Moncalieri, considerata di notevole importanza. Da lì passò nel 1593 all'amministrazione centrale: fu nominato consigliere di Stato e referendario, con lo stipendio di scudi 500 di 3 libbre, e nel 1599 divenne senatore ordinario nel Senato piemontese. Ebbe anche la cittadinanza torinese. Fu in seguito governatore vicario di Chieri e presidente del Consiglio presidiale di Racconigi (1624); infine, nel 1632, Vittorio Amedeo I lo nominò primo presidente del Senato di Nizza, costituito nel 1614.
Nel frattempo aveva raggiunto lo status nobiliare con l'acquisto del feudo di Crissolo, nell'alta valle del Po, in quel marchesato di Saluzzo che nel 1588 Carlo Emanuele I di Savoia aveva strappato alla Francia. Il feudo fu concesso l'8 luglio 1621 "illimitatamente", con il titolo comitale, il diritto di "prima appellatione et giurisdizione di tutte le cause civili et criminali et miste" e l'abbuono del laudemio.
L'acquisto del feudo si inseriva in una vera e propria politica familiare imperniata sull'investimento nel debito delle universitates, come dimostra una serie sistematica di acquisti di censi di Comunità, eseguita negli anni Ottanta e soprattutto negli anni Novanta del Cinquecento, conservata in quel che resta dell'archivio privato. Sorprendentemente, tale attività portò la famiglia alla rovina a causa dell'insolvenza delle Comunità a seguito della guerra civile del 1639-40. Il debole legame della famiglia con la cerchia dei duchi di Savoia si fece a questo punto sentire: testimonianza diretta ne è il fatto che il primogenito del L., Alessandro, nato dall'unione con Flaminia Margherita del protomedico Giovanni Antonio Bocco e primo di numerosi figli, si lamentò amaramente di non avere assunto cariche nella magistratura piemontese, che lo avrebbero messo al riparo dall'insolvenza delle Comunità.
Il L. morì il 31 marzo 1642 probabilmente a Nizza, dove lo obbligava a risiedere l'ufficio. Aveva eretto una primogenitura con il testamento dell'8 luglio 1637 (ma irreperibile; Manno).
Il L., meglio conosciuto come "Losaeus" o "Loseo", è autore di un fortunatissimo Tractatus de iure universitatum (Torino 1601, numerose le ristampe: Venezia 1601; Spira 1611; Colonia 1617; un'edizione dubbia, Spira 1617, è citata in Gierke, III, p. 882, n. 140; Milano 1617; Lione 1627; Colonia 1693, 1727). Altre due opere, De iure parentum in bonis liberorum e De rigore et aequitate iuris gli sono attribuite da Rossotti, ma non sono rintracciabili.
Il Tractatus è in cinque parti: la prima, Quid sit universitas, ricerca una definizione che permetta di analizzare tutte le specie di universitates e le modalità di amministrazione, in consonanza con una consolidata tradizione giuridica; quindi vengono considerati gli atti giudiziali e stragiudiziali (negozi e contratti) delle università; la quarta parte è dedicata ai delitti delle università; l'ultima sezione esamina le successioni. L'opera si colloca esplicitamente nella tradizione del diritto comune, di cui sembra dare una versione molto vicina a Bartolo da Sassoferrato, facendo cioè dell'aspetto volontaristico della civitas il perno del sistema politico e giuridico. Il L. si muove su un piano deliberatamente tecnico-giuridico, che tuttavia gli permette di accogliere le specificità locali. Ciò emerge in particolare dalla definizione di universitas, la cui importanza non sfuggì a J. Althusius, che l'adottò nell'edizione della Politica methodice digesta (1614), con ben 62 riferimenti solo nei capp. IV-VI, e quasi altrettanti sparsi nell'opera.
Il punto di partenza del L. è dato dalle definizioni di universitas nel campo sapienziale del diritto comune. In questa tradizione l'universitas è una "corporum collectio, inter se distantium, uno nomine specialiter eis deputato". L'affermazione della natura astratta della universitas ha il pregio di farne emergere la qualità di collettività locale. Presi separatamente e singolarmente, i membri di una comunità non costituiscono l'universitas: questa è una finzione giuridica: "secundum fictionem iuris" rappresenta "unam personam quae est quid alium diversum ab hominibus universitatis". Infatti essa è cosa diversa dai suoi componenti ed esiste anche dopo la loro morte; non ha animo, intelletto consenso e corpo, ma esiste in un momento specifico: quello in cui è legittimamente congregata.
Questa definizione nasconde una duplicità dell'universitas, che (già secondo Baldo) può essere considerata in due modi: in astratto essa è un corpo intellettuale che ha nome giuridico; in concreto rappresenta il nome degli individui e la si assume in luogo dei singoli membri. Si tratta, dunque, più che di un'entità, di un modo di considerare le collettività umane: vassalli, chierici, servi, debiti, beni, cause dell'universitas appartengono a una sfera della realtà che non tocca materialmente i singoli individui. Altra e decisiva prova è costituita dal fatto che l'universitas si mantiene concettualmente inalterata pur in presenza della mutazione dei componenti, o addirittura della loro eliminazione (purché almeno un membro sopravviva). L'universitas può vivere "sine corpore" e può essere oggetto di promesse e giuramenti; considerata come un astratto, consente di limitare la portata distruttiva delle discordie interne senza per questo sopprimerne l'identità.
Nella parte seconda del Tractatus, il L. passa a esaminare le diverse specie di universitas, e ne distingue quattro: provincia, civitas, castrum seu villa, simplex collegium, divise secondo la giurisdizione di cui godono. La provincia, per esempio, ha mero e misto imperio. La civitas si distingue per il "vincolo di società": non è individuata né dall'autorità episcopale, né dalle mura, né da ricchezza (commoditas); è una forma di communitas, che è il termine più generale capace di attribuire legittimità a una pluralità di forme di convivenza. Un'affermazione di cui non può sfuggire la portata egualitaria, o quantomeno antigerarchica, nella considerazione dei rapporti tra centri demici, forme di governo e legittimità politica. In contrasto con la lettura accreditata del L. (Ruffini Avondo), il principe non è presente come attore nel Tractatus. Le universitates esistono a prescindere dalla volontà principesca, anche se all'autorità giurisdizionale di quest'ultimo è riconosciuta una superiorità del tutto ovvia nella tradizione del diritto comune.
L'individuazione della legittimità dell'universitas in una forma giuridica permette al L. di definire la capillarità con cui essa si può manifestare. Egli pare tuttavia più interessato alla dimensione territoriale dell'universitas che non a quella collegiale, una propensione dovuta probabilmente alla scarsa penetrazione degli istituti corporativi nel tessuto sociale del Piemonte cinque-seicentesco. Ma la Comunità territoriale non si identifica neppure in un puro fattore di potere. Per il L. l'universitas esiste ogniqualvolta e in ogni luogo in cui vi sia una vita collettiva legalmente fondata. Questo significa che, perché esista universitas, è necessaria la presenza di un nucleo abitato per quanto modesto. Il L. dedica notevoli sforzi all'identificazione di questi nuclei, e li ritrova nella dimensione della villa, intesa come una piccola contrada, una borgata, fino al limite inferiore di una somma di cinque capi-casa, alla quale è riconosciuta una legittimità giuridica a condizione che vengano rispettate le formalità legali. Si tratta di una formulazione adatta a quell'insieme di villaggi che costituiva, anche per i contemporanei, lo specifico della regione piemontese.
Il tentativo del L. è di dare legittimità a questa dimensione: come investitore in debiti di Comunità, egli è interessato a dare la maggiore legittimità possibile a coloro di cui compra l'indebitamento, al fine di eliminare gli ostacoli sociali all'assolvimento dei debiti contratti. La dimensione legale e pubblica dell'universitas è insomma una dimensione che consente la solvibilità. I privilegi interni alle Comunità non possono essere abrogati (e del resto si fondano anche su aspetti legittimi), ma vanno accuratamente limitati soprattutto per quanto riguarda il principio pericolosissimo secondo cui l'esercizio di cariche interne all'universitas possa condurre all'immunità fiscale.
L'ultimo punto, molto importante, della riflessione del L. riguarda i delitti delle Comunità. Con un'argomentazione di matrice canonistica egli giunge ad affermare che le Comunità non sono perseguibili penalmente: la natura astratta e collettiva dell'universitas rende impossibile che un'azione sia sottoscritta da tutti i suoi membri, e allo stesso tempo che questi compiano qualcosa di efferato e che non possano dissociarsi da quel che è stato fatto dagli altri. La vera responsabilità è civile, cioè è quella debitoria, e quindi si pone su un piano diverso da quello della repressione, di natura contrattuale e pattizia.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Corte, Conventi soppressi, Gesuiti, mm. 540-543; Protocolli ducali, 213, c. 85; J. Althusius, Politica methodice digesta, Herbornae Nassioviorum 1614, passim; F.A. Della Chiesa, Catalogo de' scrittori piemontesi, savoiardi e nizzardi, Carmagnola 1660, p. 7; A. Rossotti, Syllabus scriptorum Pedemontii, Monteregali 1667, p. 19; O. Derossi, Scrittori piemontesi savoiardi e nizzardi, Torino 1790, s.v.; C. Dionisotti, Storia della magistratura piemontese, Torino 1881, pp. 437 ss.; O. von Gierke, Das deutsche Genossenschaftsrecht, III, Berlin 1881, nn. 140, 143, pp. 882 s.; E. Ruffini Avondo, Il trattato "De jure universitatum" del torinese N. L. (1601), in Riv. di storia del diritto italiano, IV (1931), pp. 5-28; F. Todescan, Dalla "persona ficta" alla "persona moralis". Individualismo e matematismo nelle teorie della persona giuridica del sec. XVII, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, XI-XII (1982-83), p. 65; S. Cerutti, Mestieri e privilegi. Nascita delle corporazioni a Torino, secolo XVII-XVIII, Torino 1992, pp. 128-157 passim; S. Hunziker, Die ländliche Gemeinde in der juristischen Literatur, 1300-1800, in Gemeinde und Staat im alten Europa, a cura di P. Blickle et al., München 1998, pp. 426-433; A. Torre, Universitas (Losaeus), in Il lessico della "politica" di Johannes Althusius. L'arte della simbiosi santa, giusta, vantaggiosa e felice, a cura di C. Malandrino - F. Ingravalle, Firenze 2005, pp. 339-360; Torino, Biblioteca reale, A. Manno, Il patriziato subalpino, vol. LAZ-LUS (dattiloscritto), pp. 342, 345 s.