GUARCO, Nicolò
Nacque, probabilmente a Genova, da Montanaro verso il 1325; è ignoto il nome della madre.
L'origine della famiglia Guarco (detta talora Goarco o Gualco) è oscura, nonostante il tentativo fatto da numerosi genealogisti di ricollegarla a una nobile casata Guaraco che, già nel XII secolo, era ricordata tra le prime di Genova. È più probabile invece che i Guarco provenissero da Gavi, nell'Oltregiogo genovese, da dove si erano trasferiti, già nel sec. XII, nell'alta Val Polcevera, a ponente di Genova. Qui, intorno a Campomorone e, in particolare, a Cesino, essi si costruirono un solido patrimonio immobiliare, arricchito dal possesso di mulini e ferriere. Il peso sociale ed economico acquisito nella valle e la rete di relazioni clientelari intessuta con altre importanti parentele della zona costituirono la base di partenza della successiva ascesa politica dei Guarco che, trasferitisi a Genova, in pochi decenni riuscirono a farsi strada tra le numerose famiglie inurbatesi dal contado, figurando ben presto tra le prime del partito popolare e della fazione ghibellina. Il padre del G. fu quasi certamente mercante, come testimoniato da un paio di documenti che, nel 1290, lo vedono commerciare allume e altre mercanzie a Caffa, Tana e in altri porti del Mar Nero.
Nulla si sa dei primi anni del G.; il suo nome compare, per la prima volta, nel 1351, fra gli ambasciatori genovesi inviati in Francia, a omaggiare il nuovo sovrano Giovanni II di Valois: segno evidente di una posizione sociale ormai consolidata. Come questa sia stata acquisita non è noto, ma restano testimonianze di proficui investimenti finanziari operati dal G. in varie occasioni, il che presupporrebbe un suo impegno nella mercatura, comune del resto a quasi tutti i Genovesi del tempo e che non escludeva professioni come il notariato o l'avvocatura.
Egli percorse un po' tutto il cursus honorum proprio di ogni cittadino genovese di alto livello, certo beneficiando del regime strettamente popolare instaurato da Simone Boccanegra dopo che, nel 1356, era riuscito a riprendere per una seconda volta il dogato. In quell'anno, infatti, il G. figura tra i dodici anziani costituenti il Consiglio del doge e la più importante magistratura ordinaria genovese. I buoni rapporti con la famiglia Boccanegra (non a caso sua figlia Benedetta sposò in seguito Battista, figlio ed erede del doge) e con i Montaldo, suoi alleati, non pregiudicarono la carriera del G. quando, nel 1363, morto Simone, gli successe al dogato Gabriele Adorno. Nel 1365, infatti, questi lo nominò vicario di Chiavari; poco tempo dopo fu eletto alla magistratura cittadina preposta alla conservazione e alla manutenzione del porto e del molo ("Salvatores portus et moduli") e nel 1367 fu nuovamente anziano.
Dopo di allora, per alcuni anni, il suo nome non compare negli elenchi sopravvissuti di magistrature comunali: segno, forse, di un suo progressivo allontanamento dall'Adorno. Tale ipotesi sembrerebbe trovare conferma dal fatto che lo ritroviamo con incarichi pubblici solo dopo la deposizione dell'Adorno (agosto 1370) e l'assunzione del potere da parte di Domenico Fregoso.
Con il nuovo doge il G. fu mandato ambasciatore in Portogallo (1371), rivestì la delicata carica di sindacatore e nel 1372 ricevette l'incarico di recuperare il castello di Roccatagliata che i Fieschi, da tempo ribelli al governo popolare dei dogi, avevano occupato. La spedizione ebbe successo e la posizione del G., già ragguardevole, si rafforzò ulteriormente. Negli anni successivi egli fu infatti più volte degli Ufficiali di provvisione e di abbondanza ("officiales victualium"), restando eletto una terza volta anziano nel 1375. Nello stesso anno fu tra i partecipanti alla società, o maona, che finanziò la spedizione contro Cipro, assumendo l'amministrazione della città di Famagosta, ceduta in pegno dal re Pietro II di Lusignano ai Genovesi. Sempre nel 1375, poi, fu incaricato di una prestigiosa missione diplomatica ad Avignone, per invitare a Genova il papa Gregorio XI, ormai in procinto di partire per Roma.
Questi importanti e delicati incarichi fecero di lui non solo uno dei più stretti e influenti collaboratori di Domenico Fregoso ma, soprattutto, gli conferirono un considerevole prestigio nel partito popolare ormai al potere da decenni, nonostante le lacerazioni interne. Su tali divisioni facevano leva i nobili fuorusciti per rientrare a Genova e ottenere la partecipazione al governo comunale su un piano di parità. Essi - grazie al riaccendersi della guerra tra Genova e Venezia determinato dalla contesa per l'isola di Tenedo, nell'Egeo - avevano ottenuto l'aiuto finanziario dei Veneziani e, soprattutto, quello, militarmente ben più consistente, dei Visconti che, dopo avere perso il dominio di Genova nel 1356, aspiravano a riprenderne il controllo.
Nella primavera 1378 i marchesi Del Carretto, con l'aiuto di milizie viscontee, si impadronirono di Albenga e Noli; in giugno a Genova si diffusero voci sul minaccioso avvicinarsi della compagnia di ventura della Stella, al soldo dei Visconti, che, insieme con la flotta veneziana (segnalata al largo della Riviera di Levante), avrebbero dovuto stringere la città da terra e da mare.
Tali notizie suscitarono tra i Genovesi un'ondata di panico, di cui seppero trarre vantaggio Antoniotto Adorno e lo stesso G., che aspiravano ormai a sostituirsi a Domenico Fregoso nel dogato. Questi, il 16 giugno, emanò un decreto che autorizzava i cittadini a prendere le armi in vista dell'attacco nemico, ma il provvedimento gli si ritorse contro perché il popolo, anziché accorrere in sua difesa, prese d'assalto il palazzo pubblico, facendolo prigioniero. Nel mezzo del tumulto fu acclamato doge Antoniotto, ma la scelta non fu condivisa dai capi del partito popolare che, temendo il carattere ambizioso e prepotente di quest'ultimo, scelsero invece il Guarco. L'Adorno, consigliato dai suoi stessi amici, si lasciò convincere a rinunciare e, infatti, il 18 giugno, con una solenne cerimonia, il G. fu eletto ufficialmente doge.
Con i suoi elettori egli si sdebitò accettando l'imposizione di "regole che non dovessi trapassare in modo alcuno" (Giustiniani, c. CXLIv) e acconsentendo a che i Fregoso fossero posti al bando. Così, insediatosi al potere, sua prima preoccupazione fu quella di ottenere una generale pacificazione, in modo da concentrare tutti gli sforzi nella lotta con Venezia, giunta ormai a una fase cruciale. Per questo, nell'agosto, egli si liberò della gravosa amministrazione della Corsica, assegnandola in feudo a un cartello di imprenditori genovesi (la cosiddetta maona), seguendo peraltro quella che era già stata l'intenzione di Domenico Fregoso. La grossa novità del dogato del G. fu però l'apertura di trattative di pace con la nobiltà che, molto probabilmente, aveva segretamente favorito i suoi maneggi per assumere il potere.
Il 22 sett. 1378 egli stipulava con i rappresentanti dei fuorusciti, Adamo Spinola di Lucoli e Giovanni Fieschi, una convenzione: la nobiltà era riammessa a tutti gli uffici del Comune (escluso il solo dogato), e due dei sei seggi spettanti ai nobili nel Consiglio dei dodici anziani dovevano essere riservati, a turno, alle "quattro famiglie": Spinola, Doria, Fieschi e Grimaldi. Tale ordine nel conferimento degli uffici e nella composizione degli Anziani si sarebbe conservato, salvo brevi parentesi, fino alla grande riforma costituzionale del 1528.
La conclusione della pace con la nobiltà fu seguita, dopo pochi mesi, da quella con i Del Carretto che, agli inizi del 1379, restituirono al Comune Albenga e Noli. Maggiori preoccupazioni diede invece la compagnia della Stella che Astorre Manfredi, suo capitano, condusse in Val Polcevera poche settimane dopo che il G. fu eletto doge. Il G. se ne liberò una prima volta con un donativo di 10.000 fiorini d'oro e il permesso di portarsi via il bottino, ma nell'estate del 1379 - su istigazione dei Veneziani - la compagnia ricomparve, ponendo il campo a levante della città, sulla collina di Albaro. Il G., che disponeva ora anche delle bellicose milizie dei Fieschi e degli Spinola, affidò il comando dell'esercito genovese al fratello Isnardo che, il 24 settembre, riportò una completa vittoria sui mercenari, salutata con entusiasmo non solo a Genova ma anche in altre città, che ne avevano subito le angherie. Questi successi consentirono al G. di portare avanti con rinnovato vigore la guerra con Venezia.
Si era nella seconda fase del conflitto pluridecennale tra le due città che si era riacceso nel 1376 con l'occupazione veneziana dell'isola di Tenedo, quasi all'imbocco dei Dardanelli, in posizione strategica per i collegamenti con le colonie genovesi del Mar Nero. Per recuperarne il possesso, il doge Domenico Fregoso aveva stretto alleanza con il re d'Ungheria, il duca d'Austria e alcuni signori della Terraferma veneta, tra i quali il signore di Padova Francesco da Carrara e il patriarca di Aquileia, portando la guerra ai Veneziani non solo nell'Egeo, ma nel fondo dell'Adriatico, in quello che essi chiamavano "il golfo di Venezia". Questa scelta strategica fu seguita anche dal G. che, nell'agosto 1378, vi destinò l'ammiraglio Luciano Doria e, dopo la morte di costui, Pietro Doria, il quale saccheggiò varie località della costa istriana e della laguna di Grado, assediò Chioggia - stretta da terra dalle milizie carraresi e del patriarca di Aquileia - e il 6 ag. 1379 la espugnò, costringendo quindi i Veneziani a chiedere la pace. Le condizioni poste dal Doria furono però tanto dure da convincere Venezia a continuare la guerra. Fu così persa un'ottima occasione di concludere favorevolmente il conflitto e, a loro volta, i Veneziani nei mesi successivi riuscirono a chiudere l'esercito genovese in Chioggia. Nei combattimenti Pietro Doria fu ucciso; una nuova spedizione, condotta da Gaspare Spinola di S. Luca, non riuscì a forzare il blocco che circondava la città costretta, il 26 giugno 1380, a capitolare. Per il G. fu un duro colpo, a stento mitigato dai successi dello Spinola a Trieste e Capodistria. Per di più, grazie all'oro veneziano, scoppiarono rivolte nella Riviera di Levante, a opera dei Fregoso e degli Spinola, inducendo il G. a fortificare la Val Polcevera, base del suo potere, con la costruzione del castello di Bolzaneto. La ribellione fu domata in autunno grazie al richiamo della flotta di Gaspare Spinola e all'energica repressione di Ludovico Guarco, fratello del G., ma le forti spese e l'aumento delle gabelle per sostenere i costi della guerra accrebbero il malumore negli strati più bassi della popolazione.
La pace di Torino (8 ag. 1381), ottenuta grazie alla mediazione di Amedeo VI di Savoia, mise fine alle operazioni militari, ma la tensione con Venezia rimase, per il ritardo con cui questa procedette alla distruzione delle fortificazioni erette a Tenedo. L'esercito e la flotta non poterono quindi essere congedati per tutto il 1382 e ciò creò malumore, accresciuto da alcune infelici iniziative del Guarco. L'aumento della guarnigione di palazzo, l'esautoramento del podestà a vantaggio di un "maestro di giustizia" alle dirette dipendenze del doge e l'imposizione di un'addizionale sulla gabella della carne portarono, nel marzo 1383, a uno scontro con l'ufficio della Moneta, responsabile dell'amministrazione finanziaria comunale.
Il G. cercò di stroncare ogni dissenso, ma in città scoppiarono tumulti che coinvolsero gran parte della plebe urbana. Accusato di favorire la nobiltà e di essere un docile strumento nelle sue mani, egli si lasciò travolgere dagli eventi, cedendo su tutta la linea. I nobili vennero cacciati dal governo, gli aumenti fiscali aboliti e, come chiesto a gran voce dalla piazza, furono richiamati a Genova gli Adorno e i Fregoso, da alcuni anni relegati a Savona e nelle Riviere. Questi provvedimenti giunsero però troppo tardi, anche perché Antoniotto Adorno aveva ormai il controllo del popolino. Il G. fu dapprima costretto ad accettare di essere affiancato nel governo da otto provvisori e, il 6 aprile, dovette abbandonare il palazzo ducale. Con il figlio Antonio riuscì a raggiungere via mare Finale, accolto dal marchese Del Carretto, mentre i fratelli ripararono in Val Polcevera; l'Adorno non riuscì però neppure questa volta a farsi eleggere doge perché i capi popolari, come già nel 1378, gli preferirono Leonardo Montaldo.
Il nuovo doge, che nei tumulti dei mesi precedenti aveva cercato un accordo col G., gli permise di rientrare a Genova, ma pochi mesi dopo morì di peste. Antoniotto Adorno non si lasciò scappare l'occasione e, senza contrasto, prese il potere (12 giugno 1384). Il G. riprese la via di Finale ma il marchese, che nel frattempo aveva affidato all'Adorno la composizione di una lunga controversia con i suoi familiari per il possesso della valle Arroscia, conclusa con una sentenza a lui favorevole, pensò di sdebitarsi consegnando all'Adorno il G. che fu condotto prigioniero nel castello di Lerici.
Qui il G. morì poco tempo dopo, forse già nell'estate 1384.
Dal matrimonio con Linò Onza ebbe vari figli, tra i quali si ricordano Antonio, Isnardo, Gaspare, Domenico, Benedetta (sposa di Battista Boccanegra).
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