FOSCARINI, Nicolò Filippo
Nato a Venezia il 23 ag. 1732, da Alvise di Nicolò, del ramo di S. Stae, e Chiara Nani di Giovanni, percorse una tradizionale e fortunata carriera politica. Dopo essere stato più volte savio di Terraferma (1769-1773), savio alla Scrittura (1771-1773) e savio del Consiglio (1773 e 1774), spesso su posizioni favorevoli al Senato e contrario al partito di Giorgio Pisani e dei nobili più poveri ("barnaboti"), il 6 marzo 1777 venne nominato ambasciatore in Germania.
La sua missione a Vienna (aprile 1778-ottobre 1781) si svolse durante importanti avvenimenti politici; il F. seguì con attenzione le controversie e la breve guerra austro-prussiana per lo smembramento della Baviera, sino alla pace di Teschen (13 maggio 1779), e assistette alla fine del lungo regno di Maria Teresa, morta il 29 nov. 1780, e ai primi rivoluzionari atti di governo del figlio Giuseppe II.
Il 9 giugno 1781 raccolse le voci di un imminente piano per dare agli ebrei "grandissimi privilegi che li porranno in una approssimazione di eguaglianza con tutti gli altri sudditi cristiani"; il 21 luglio 1781 comunicò senza commento la parificazione fra cattolici e protestanti, ma il 29 settembre dello stesso anno, in occasione delle due patenti imperiali che vietavano ai sudditi di ricorrere a Roma per le dispense matrimoniali e ponevano limiti al solito giuramento dei vescovi al pontefice, osservò che questi provvedimenti mostravano la decisa volontà di togliere "li più radicati abusi, ripristinando alla Sovranità imperiale tutto quello, che fu nei tempi addietro negletto, con tanto danno di quei Principi che l'hanno voluto sopportare"). Tra le vicende di ordinaria amministrazione della sua ambasciata ci furono le solite vertenze confinarie nel Bergamasco, in Tirolo, in Istria e in Schiavonia, le proteste asburgiche per i disguidi nel servizio postale veneto tra Ala e Verona e negli espurghi delle lettere dirette da Costantinopoli a Venezia via Vienna e alcuni problemi di pesca tra Marano e Precenico. Reiterate, ma alla fine del tutto vane le sue insistenze per ottenere la revoca delle "mute" (dazi), imposte dall'Austria sulle merci che transitavano per Monfalcone da terra veneta a terra veneta.
L'ambasceria a Vienna, in cui gli successe nell'ottobre 1781 il fratello Sebastiano, fu foriera di prestigio ma anche di notevoli danni finanziari.
Ritornato a Venezia, fu di nuovo più volte tra i savi del Consiglio (1782, 1784, 1785); nel gennaio 1782 fu nominato sopraintendente alle Decime del clero, nell'agosto dello stesso anno provveditore sopra Feudi, nel gennaio 1784 aggiunto sopra la Provigione del danaro, nel gennaio 1785 provveditore alla Giustizia vecchia e nel luglio 1786 aggiunto ai provveditori sopra Monasteri. Il 20 maggio 1787 venne eletto bailo a Costantinopoli (una delle cariche più ambite nel cursus honorum dei patrizi veneziani), che raggiunse l'anno successivo, in compagnia dell'abate G.B. Casti e di P. Zaguri, e dove si trattenne sino al giugno 1793.
Il F. si occupò innanzitutto degli interessi commerciali dei Veneziani in Oriente: seguì le vicende delle navi predate dai corsari barbareschi, intervenne a favore dei capitani e marinai veneziani che con le loro "frequenti maliziose direzioni" (ovvero contrabbandi e truffe) si trovavano nei guai con le autorità turche, si occupò di vertenze doganali e di abusi nelle esportazioni di lastre di vetro e di carta. La sua azione diplomatica fu energica e ottenne buoni risultati: migliorò l'efficienza e la celerità del servizio postale per Venezia da poco ripristinato in alternativa a quello via Vienna (8 dic. 1788), curò la consueta liberazione di schiavi, cercò di risolvere spinosi incidenti di frontiera a Vonizza e Parga, placò il risentimento della Porta per l'aiuto fornito dai sudditi veneti di Cerigo al corsaro russo Lambro Cassoni. Tra i compiti più gravosi del suo bailaggio fu la sorveglianza della numerosa comunità degli schiavoni, "infesti" e "perturbatori" dell'ordine pubblico, promotori di risse e omicidi quasi quotidiani e quindi di infinite vertenze giudiziarie.
Sul piano politico più generale il F. arrivò a Costantinopoli quando era in corso la guerra dei Turchi contro Austria e Russia per il recupero della Crimea, che si concluse nel gennaio 1792 con una sostanziale sconfitta dell'Impero ottomano; seguì con attenzione le operazioni militari e le complesse trattative diplomatiche che prepararono la soluzione del conflitto, riconfermando nel contempo alla Porta la rigorosa neutralità della Repubblica.
Quando il 7 apr. 1789 morì improvvisamente il sultano Abd ul-Hamid I il F. venne nominato ambasciatore straordinario presso il successore Selim III; sia nei settimanali dispacci al Senato e agli inquisitori di Stato sia nella tradizionale relazione finale il F. segnalò i tentativi di modernizzazione dell'Impero turco da parte del giovane sultano: la creazione di un Consiglio di Stato, la riduzione dell'autorità del gran visir, la limitazione della durata delle cariche per frenare le malversazioni del pascià, le leggi suntuarie, il contenimento del dispotismo dei feudatari, l'istituzione dei nuovi corpi dei cannonieri e bombardieri e la rinascita degli studi scientifici gli parvero segnali incoraggianti di rinnovamento, sia pure finalizzato quasi esclusivamente al sognato recupero della Crimea e delle altre terre perdute nelle ultime guerre.
La sua relazione, presentata al Senato il 29 luglio 1793, richiama per impianto e lucidità alcune delle più celebri scritte dai suoi predecessori nel Cinquecento: dopo un'ampia esposizione delle vicende politico-diplomatiche, e in particolare della guerra austro-russo-turca, traccia un profilo del nuovo sultano Selim III, del gran visir Melech-Mehemet e degli altri principali ministri ottomani, ricorda le opportunità offerte alla marina veneziana dalla recente apertura al commercio del Mar Nero e infine riassume le principali riforme attuate o progettate nell'Impero dopo la fine della guerra. La Rivoluzione francese fa capolino in alcuni significativi passi: il F. avverte che le "cose posteriormente succedute in quel regno [la Francia]… saranno memorabili nei secoli avvenire". Commentando l'atteggiamento di Venezia verso l'Impero ottomano si lascia andare a una valutazione di cui di lì a pochi anni dovrà personalmente sperimentare l'inconsistenza: la Repubblica ha confermato alla Porta la sua amicizia e le ha "fatto conoscere, che Vostre Eccellenze si attrovano in quel vigore di mezzi e di forze che sono li soli atti a farsi rispettare dalle potenze vicine".
Rientrato a Venezia il F. ottenne successivamente l'incarico di scansatore alle Spese superflue (novembre 1794-dicembre 1795), savio del Consiglio (31 dic. 1794-1° giugno 1795, 31 dic. 1795-1° giugno 1796), revisore e regolatore delle Entrate pubbliche (23 luglio-31 dic. 1795). Chiusa nella sua rassegnata e impotente neutralità la Repubblica assisteva sempre più preoccupata alla guerra tra la Francia e le potenze coalizzate, mentre le armate francesi cominciavano a lambire i confini italiani: intervenendo il 7 marzo 1795 nell'acceso dibattito in Senato sull'invio di un ambasciatore a Parigi presso il governo rivoluzionario, il F. ne contestò la necessità "datti li felici successi dell'armi francesi in tutta Europa e la sicura idea dell'invasione d'Italia" (Verbali…, p. 214).
Mentre il Bonaparte si avvicinava ai confini della Repubblica, nel Senato si alternavano paura, rassegnazione, illusorie speranze in una neutralità sempre più impraticabile e inutile; nell'estate del 1796 le armate francesi, inseguendo le truppe austriache in ritirata, erano ormai nella Lombardia veneta e si avvicinavano a Verona. Premuto da Austriaci e Francesi, incerto e diviso nelle sue determinazioni, ma comunque in larga maggioranza ostile ad azioni militari di resistenza, il Senato il 12 maggio 1796 nominò il F. provveditore generale in Terraferma, affiancato dal segretario Rocco Sanfermo, inviso agli Austriaci e di sentimenti filofrancesi; "senza soldati, senza cannoni, e senza munizioni", il F. doveva "confortare le provincie…, mantenere la tranquillità, la subordinazione ed il buon ordine, non alterando punto i riguardi della più impuntabile neutralità" (Tentori, p. 140). Il F. trovò una situazione militare disastrosa: inconsistenti le forze militari, le munizioni, le artiglierie; semidiroccate le fortezze (a Peschiera vi erano sessanta invalidi e l'artiglieria addirittura smontata); sfiduciati e inerti i rettori; sbandati i sudditi, incerti tra rassegnato fatalismo e sporadiche velleità di resistenza alle brutalità delle milizie francesi; ma soprattutto da Venezia nessun ordine preciso, ma solo generici inviti a calmare i sudditi, blandire Austriaci e Francesi, assicurare a gran voce una sempre più impossibile neutralità. Che poi il F., come diranno concordi i contemporanei e poi molti storici, non avesse un cuor di leone e ferma volontà è altrettanto certo; e ciò contribuì senz'altro all'esito rovinoso del celebre incontro di Peschiera col vittorioso generale Bonaparte. La fortezza di Peschiera, quasi totalmente sguarnita dai Veneziani, venne occupata di sorpresa dagli Austriaci e poi ripresa, dopo un breve combattimento, dai Francesi. Sdegnato per quello che considerava un vero e proprio tradimento, ma anche pronto a trarre abilmente profitto da un fatto che poteva aprirgli le porte del Veneto, il Bonaparte convocò perentoriamente il F. per un colloquio che si svolse il 1° giugno 1796 e del quale lo stesso F. ci ha lasciato una drammatica relazione in un dispaccio al doge.
Il 31 maggio preannunciava di partire "con animo… ricolmo di sommo dolore nel vedere improvvisamente avvicinarsi sommi pericoli" per Venezia e di sentirsi pronto al personale "olocausto per il bene della Patria"; l'accoglienza fu gelida, la conversazione "ingratissima" e "triste", "amara" la "circostanza" dell'incontro con "questo Giovine Generale, ebro di ambizione, e di gloria". Bonaparte lo investì di accuse: Venezia aveva tradito l'amicizia francese consentendo agli Austriaci l'occupazione senza colpo ferire di Peschiera, per il cui recupero erano morti 1.500 soldati francesi, e permettendo il prolungato soggiorno a Verona del conte di Lilla e di altri emigrati. La minaccia era esplicita: avrebbe dato Verona alle fiamme ed entro sette giorni avrebbe dichiarato guerra alla Repubblica se non avesse ottenuto la pacifica occupazione della città e dei ponti sull'Adige.
Privo di ordini precisi, senza alternative praticabili, terrorizzato dal minaccioso ultimatum il F., "non avendo altro in mira in questi brevi momenti, che di render meno pesante a questa popolazione gli effetti di queste ingrate combinazioni", cedette alla violenza delle circostanze e capitolò (Tentori, pp. 167-169). I Francesi entrarono a Verona, occupando i punti chiave e, di fronte a qualche minaccia di resistenza popolare (prodromo delle imminenti "Pasque veronesi"), progettarono il disarmo delle milizie venete; con i buoni uffici del clero, dei nobili e degli anziani delle arti il F. cercò di calmare la popolazione.
Secondo le accuse dei suoi avversari, fors'anche eccessive, il F. avrebbe assunto un atteggiamento apertamente disfattista, disarmando gli schiavoni, incitando tutti a mettersi in salvo e preoccupandosi per primo di far sparire gli effetti personali: inoltre, una volta rientrato a Venezia, avrebbe presentato una nota spese esorbitante.
Il malcontento generale della popolazione e di molti patrizi per il suo atteggiamento, unanimemente considerato troppo arrendevole, ma anche l'esplicito desiderio del Senato di "dar alla Corte di Vienna un segno di disapprovazione dell'avvenuto in Verona, a colpa del Provveditor general e delli altri ufficiali subordinati" (Verbali…, p. 231), provocarono la sua sostituzione con Francesco Battaglia. Il 18 luglio 1796 il F. fu eletto capitano di Bergamo ma dopo qualche giorno rinunciò per motivi di salute, ritornò a Venezia e poi si ritirò nella villa di Pontelongo (Padova), circondato dall'universale disprezzo.
I contemporanei furono unanimi nel coprire di infamia la sua resa senza condizioni: soprannominato "Don Cicio", "Provveditor general per le zanzare" e "Provveditor general Lucietta" (Lucia era la moglie), si disse che durante il colloquio di Peschiera fosse rimasto addirittura silenzioso e tremante e che il segretario Sanfermo avesse dovuto inventare la scusa di un attacco di paralisi per giustificare il suo comportamento; un quadro lo raffigurò con le natiche all'aria e con calzoni divenuti grandissimi per effetto della paura e poi sostituiti dal segretario; il poema allegorico Venezia tradita, di G.A. Molin, lo raffigurò sotto lo pseudonimo di Fusco, "debile e vile", pronto a rinunciare alla "sua propria dignità", un "labro a blandir nato", uomo in cui "la viltà maestra è sola" (pp. 88-91, 109).
Il risentimento popolare per il suo comportamento rinunciatario verso il Bonaparte trovò sfogo il 12 maggio 1797, quando la sua casa veneziana venne saccheggiata insieme con quella di altri veri o presunti democratici filofrancesi. Non meno impietose e senza appello le condanne dei cronisti e degli storici ottocenteschi, tanto di orientamento conservatore e filoaustriaco quanto di ispirazione liberale e democratica. Sulla condanna senza appello del F. pesa come un macigno il giudizio di Carlo Botta: "Uomo amatore della sua patria, e di sana mente, ma di poco animo, e certamente non atto a sostenere tanto peso… pieno di spaventi e di pensieri sinistri", il F. visse a Peschiera uno dei momenti chiave della storia d'Italia ma mancò clamorosamente l'occasione di diventare un eroe: "Quello era il momento fatale della veneziana repubblica, quello il momento fatale d'Italia e del mondo, e se Foscarini avesse avuto l'animo e la virtù di Pietro Capponi, non piangerebbe Venezia il suo perduto dominio, non piangerebbe Italia il principale suo ornamento, non piangerebbe il mondo tante vite infelicemente sparse per fondare il dispotismo di un capitano barbaro… Non con le umili protestazioni, non col privar Verona delle sue difese doveva Foscarini rispondere a Bonaparte, ma con un suonar di campana a martello continuo, con un predicare alto di preti contro i concultatori della sua innocente patria, con un dare armi in mano a uomini, a donne, a fanciulli, con un fracasso di cannoni incessabile dalle lagune all'Adige, dalle bocche del Timavo all'emissario di Lecco" (pp. 13 s., 150). Sulla sua scia il Romanin e il Bratti; con maggior equilibrio e aderenza alla realtà storica R. Cessi sottolinea invece che, se la "scelta dell'uomo… non fu forse felice", "la responsabilità dei grandi sinistri, che nel corso di poche settimane si accumularono sopra la nazione, non può essere tutta addossata all'inettitudine e alla debolezza di chi non disponeva né di mezzi, né di istruzioni, né di poteri sufficienti a fronteggiare una situazione assai più grave e delicata di quanto si presumesse" (p. 729).
Durante la breve stagione democratica del 1797 e il successivo governo austriaco il F. scomparve dalla scena pubblica; benché il bailaggio a Costantinopoli gli avesse fruttato, secondo l'interessata valutazione del nipote Giacomo, ben 65.000 ducati, la dispendiosa ambasceria in Germania e la vita dissipata ne avevano compromesso il patrimonio. Per assicurare alla moglie Lucia Fantinati (sposata in seconde nozze nel 1789, dopo un primo matrimonio con Andrianna Barbaro nel 1766) un "congruo provvedimento", stese, insieme con il fratello Nicolò, una donazione inter vivos sed causa mortis con cui assicurò alla consorte 5.500 ducati di rendita annua, destinando il resto dei beni al pagamento dei debiti; il vincolo del fedecommesso, abolito durante la Municipalità democratica, ripristinato dagli Austriaci e di nuovo soppresso dal Regno d'Italia, non salvò il patrimonio di casa Foscarini; la vendita dei beni, suoi e dei fratelli, compresi libri e codici antichi, si susseguì vorticosa e inesorabile sino alla morte del F., avvenuta a Venezia l'8 febbr. 1806.
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