ERIZZO, Nicolò
Detto Andrea, nacque a Venezia il 21 apr. 1689, terzo dei sei figli maschi (tutti di nome Nicolò, a motivo di un fidecommesso istituito dal nonno Francesco) del cavaliere Nicolò, del ramo a S. Martino, e di Samaritana Nani, figlia del cavaliere e procuratore Antonio.
Questo ramo della casata era ricco, un poco per l'eredità recentemente pervenutagli dai Navagero (1679) e - a quanto pare - anche per l'eccezionale fortuna al gioco che sempre confortò il padre dell'E., consentendogli di vincere grosse somme in un'epoca e in un ambiente decisamente inclini alla passione dell'azzardo. Superbo e autoritario, costui coltivò alto il senso dell'orgoglio e del prestigio familiare, e per questo (principalmente per questo, ché assai meno contarono le ragioni affettive) portò con sé i figli nelle diverse ambascerie che sostenne.
L'E. trascorse così l'infanzia a Parigi (1694-99) e a Roma (1699-1702).
Del soggiorno presso la reggia di Versailles rimane un cenno nella relazione stesane dal padre, che ricorda come i figli "si presentarono frequentemente alla corte, ed hanno ricevuto dal re, dal Delfino ... onori tali, che produssero ammirazione ed invidia. Compagni delle caccie, dei giochi e dei passeggi, hanno sempre conservato sentimenti di modestia, come conviene al carattere che loro impresse la natura ...".
A prescindere dalla veridicità di quest'ultima affermazione, è certo che un'esperienza di tanto respiro non poteva non dischiudere all'E. le migliori prospettive di una prestigiosa attività politica, tanto più che la prematura scomparsa del fratello primogenito Nicolò, detto Francesco, avvenuta durante la permanenza a Roma (1700), e quindi del padre (1709), insieme con la scelta dell'altro fratello maggiore, Nicolò detto Antonio, di dedicarsi alla carriera militare nell'armata marittima, lo designarono di fatto come il naturale continuatore del ruolo espletato dal genitore nel governo dello Stato marciano.
Esordì pertanto nel mondo della politica come savio agli Ordini (2 maggio-30 sett. 1714 e 1º apr.-30 sett. 1715), donde passò fra i tre provveditori sopra gli Offici (6 giugno 1715-5 ott. 1716); quindi fu savio alle Decime (15 marzo 1718-14 marzo 1719) e poi riprese posto in Collegio come savio di Terraferma per il semestre aprile-settembre, incarico che avrebbe sostenuto ogni anno, ininterrottamente sino al 1726, rivestendo le mansioni di savio alla Scrittura, ossia di responsabile delle truppe per la parte amministrativa, la qual cosa lo metteva in grado di collaborare in qualche misura con il fratello Nicolò Antonio, allora provveditore generale in Dalmazia.
Si era anche sposato, nel frattempo (10 nov. 1719), con Caterina Grimani del cavaliere Marcantonio, del ramo a S. Polo, dalla quale ebbe due figli maschi, entrambi naturalmente di nome Nicolò, e del pari destinati a prestigiose carriere politiche, ed una femmina, Chiara, che nel 1750 avrebbe contratto matrimonio con Giorgio Emo di Giovanni, da S. Moisè.
Quindi, dopo un tirocinio più che decennale, gli venne affidato un incarico di assoluto rilievo: ambasciatore a Madrid. L'elezione si ebbe il 24 luglio 1726, le commissioni gli vennero affidate il 18 genn. '27 e due settimane più tardi era già in viaggio, attraverso Padova, Torino e la Savoia. Si fermò in Spagna circa due anni e mezzo: scrisse l'ultimo dispaccio il 19 nov. 1729, presentò la relazione il 24 maggio 1730. Questo documento, steso al termine di un incarico esercitato nel corso di un periodo di pace e di relativa tranquillità per l'Europa, si pone come una sorta di modello nei confronti di altri consimili scritti settecenteschi, testimoniando l'alta levatura diplomatica dell'Erizzo.
Bandita ogni descrizione geografica del paese, condensati in brevi pagine i tradizionali "ritratti" della famiglia reale e dei principali ministri, la relazione si presenta essenzialmente come una sorta di riassunto delle principali vicende storiche intercorse nella penisola iberica dopo la morte dell'ultimo sovrano asburgico ed altresì come dettagliata analisi della situazione politico-diplomatica europea; in questo senso l'E. è riuscito ad interpretare egregiamente l'ottica e lo stato d'animo con cui da Venezia venivano ormai seguiti gli avvenimenti delle corti estere che non avessero diretti contatti con la Repubblica. Scontato il positivo giudizio su Filippo V, "principe di costumi illibatissimi, pio, a segno d'esser scrupoloso, amante oltre ogni credere della giustizia, e di secreto impenetrabile, parla poco, e solo si trattiene volentieri ne' discorsi di guerra, qual è la sua passione predominante, è intrepido nelle battaglie, costante nelle avversità..., tardo nel deliberare, gelosissimo della propria autorità, et estremamente pieno dell'idea della propria grandezza, il che lo rende assai suscettibile". La Farnese invece appare "eccellente nel dissimulare, inclinata al risentimento delle offese che riceve..., di genio alquanto volubile..., di vivacità incredibile, di consiglio pronto e risoluto..., arbitra assoluta della volontà del marito, e per conseguenza regge a suo talento i popoli, de' quali prova la sfortuna di non posseder l'affetto, il che conoscendo, accresce vie più lo smisurato desiderio che nutre dell'ingrandimento del figlio .... Quindi è che questa passione talmente predomina nel di lei animo, che non gli lascia luogo ad un giusto discernimento delle cose; per tanto non sarà da meravigliarsi se per conseguir il suo intento entrerà anche senza i debiti fondamenti in un grande impegno ...". Le entrate della Corona, le forze militari, i rapporti con gli altri Stati europei (con particolare riguardo a quelli italiani) costituiscono i successivi argomenti toccati dalla relazione, che nella sua parte conclusiva sembra discostarsi alquanto dal taglio impersonale ed oggettivo sino allora seguito, per indulgere a prospettive poggianti su una rielaborazione critica del contesto in esame, a cominciare da quelle maggiormente urgenti alla corte madrilena: "È certo, che non può essere più grande la passione del re di Spagna di ricuperare specialmente Gibralterra, che ... è una porta che dà libero ingresso ne' suoi regni .... È anco verissimo, che sin a tanto ne rimanerà la possessione all'Inghilterra succedano giornalieri motivi di displicenze". Quanto poi ai rapporti con Venezia, "viene fatta la dovuta stima della potenza della repubblica, ma ... è invalsa un'opinione, che VV. EE. o sia per cambiamento di massime o sia per situazione de' loro stati, che da ogni lato sono circondati da quelli dell'imperatore, o sia per riguardo de' Turchi non possano allontanarsi dalla corte di Vienna. Oltre di questo l'aver veduto che l'ecc.mo senato non si è scosso all'occasione di tanti danni e di tante ingiurie inferite nell'ultima guerra d'Italia fa creder, che siano abbandonate quelle generose massime de' maggiori, i quali prendevano parte in qual si sia avvenimento, che riguardava la provincia... Da questi principii deriva che sebbene vi fossero i trattati di far un così gran cambiamento nelle cose d'Italia, non si sono tuttavia fatte quelle positive aperture che in altre simili circostanze sono state sempre avanzate all'ecc.mo senato. Può esser, che col progresso ciò succeda; a me al certo non è stato dato il minimo cenno nel delicato proposito". Si può cogliere, tra le righe, un invito, neppur troppo larvato, ad uscire dalla paralizzante scelta di una neutralità ad ogni costo, che avrebbe finito con lo snervare la Repubblica, e toglierle credibilità di fronte alle potenze europee: una posizione, questa, che l'E. avrebbe accentuato in progresso di tempo, in sintonia con il suo carattere forte ed autoritario e con la scelta di servire nell'apparato militare, fatta propria, oltre che dal fratello, anche da diversi altri esponenti della famiglia, nel corso del secolo.
Rimpatriato, l'E. divenne consigliere per il sestiere di Castello dall'ottobre del 1730 al settembre dell'anno successivo, quindi fu savio alla Mercanzia (1732-33), inquisitore all'Arsenale (1733-34), savio del Consiglio, dall'aprile al settembre '34, e poi, il 9 sett. 1734, fu eletto ambasciatore presso l'imperatore Carlo VI.
Raggiunse Vienna, portando con sé i due figli maschi, alla fine di novembre del 1735, quando stavano gettandosi le basi per i preliminari di pace della guerra di successione polacca. Al conflitto, come pure a quello austro-russo-turco che, pressoché contemporaneamente, si svolgeva nei Balcani, per tre anni l'E. dedicò la sua attenzione e la maggior parte dei dispacci.
Nella relazione conclusiva, letta in Senato il 7 ott. '38, l'E. sembra accentuare ulteriormente la propria insofferenza per l'imbelle politica estera seguita dalla Repubblica che, proprio per suo tramite, aveva accuratamente declinato i replicati inviti della corte imperiale ad accedere alla guerra contro gli Ottomani, né aveva saputo in alcun modo, nonostante la neutralità armata, difendere l'Adriatico e le province della Terraferma dalle violazioni e dalle scorrerie dei contendenti: "...non è sempre il migliore consiglio per allontanare i disturbi, quello di praticare soverchie agevolezze, o di usare inopportune dissimulazioni, mentre un simile contegno somministra anzi addito a prosseguire senza riflesso con nuove ricerche, e con nuovi tentativi, concependo lusinga, che già o quelle saranno concesse, o questi tollerati".
Ancora una volta la permanenza in patria fu di breve durata: neppure un anno più tardi l'E. assumeva un'altra ambasceria, in qualità di bailo presso la corte ottomana. Giunse a Costantinopoli, a sostituire Simone Contarini, agli inizi di agosto del '39, dopo un viaggio reso estenuante dal caldo. Si fermò sul Bosforo circa tre anni, che furono assolutamente tranquilli: le sue incombenze si ridussero soprattutto a rassicurare la Porta della perfetta neutralità veneziana nei confronti della guerra in corso, questo per quanto non mancassero frequenti ed evidenti ragioni di attrito, a causa dell'intensa pirateria esercitata dai Barbareschi e dai Dulcignotti, pervicacemente incuranti dei veti e dei firmani emanati dal sultano. D'altra parte la sua corrispondenza col Senato si limitava alle proteste per la mancanza di un adeguato numero di "giovani di lingua", in sostanza interpreti, per far fronte alla quantità di affari e di pratiche addossate alla sua carica, e alle informazioni sull'andamento delle operazioni militari, sia nei Balcani sia in Asia, dove i Persiani si facevano sempre più minacciosi, rivendicando, ad opera del loro scià Nadir, parte della tutela dei luoghi sacri.
Rimpatriato nell'ottobre del '42, entrò subito a far parte del Collegio in qualità di savio del Consiglio, carica alla quale venne nuovamente eletto nel primo semestre dei due anni successivi; il 24 marzo '42 fu anche nominato ambasciatore straordinario a Carlo VII di Baviera, riconosciuto quale legittimo titolare dell'autorità imperiale, ma la missione non ebbe luogo.
In questi anni l'E., ricco del prestigio che gli derivava dall'aver rappresentato così a lungo la patria presso tre delle principali potenze, forte dell'appoggio di una numerosa famiglia, assiduo ed ascoltato animatore dei dibattiti assembleari, dove non mancava occasione per sostenere una politica più coraggiosa ed attiva, giunse a ricoprire in Senato un ruolo di notevole peso e di grande autorevolezza.
"Padre della patria" lo definiva Andrea Tron, parlandone col cugino Andrea Querini, peraltro non senza manifestare qualche perplessità sul suo "inquieto temperamento": e questo non solo per la diversa visione alla quale, in fatto di politica estera, il giovane Tron e l'ormai maturo E. si ispiravano, ma anche perché questi trovava la base del suo consenso tra i patrizi di medie e basse fortune; era dunque uno "spirito forte", faceva parte della cerchia del gruppo dirigente, alla pari di un Marco Foscarini o di un Giovanni Emo, ma - come del resto quest'ultimo - rappresentava la parte avversa agli oligarchi, riuscendo in tal maniera a costituire un importante momento di equilibrio nel variegato mondo politico repubblicano.
La permanenza dell'E. a Venezia non doveva però durare a lungo, giacché l'attendeva una quarta ambasceria, che l'avrebbe condotto a morire lontano dalla patria. Il 2 sett. 1744 era infatti eletto nobile a Vienna, ossia agente non accreditato ("senza carattere et in via semplicemente privata", precisavano le commissioni), dal momento che la Repubblica non aveva ancora riconosciuto ufficialmente a Maria Teresa se non il titolo di regina d'Ungheria (solamente il 20 nov. 1745 sarebbe stato nominato ambasciatore straordinario a Francesco Stefano, riconosciuto imperatore qualche mese prima).
È possibile che a far cadere la scelta sull'E. siano state ragioni di politica interna, ossia il desiderio di allontanarlo per un certo tempo dalle lagune, ma è più credibile che, in considerazione della delicata congiuntura diplomatica esistente tra le due corti, il governo marciano abbia preferito valersi di un soggetto esperto, ed anche attenuare un poco il declassamento di rango insito nel carattere di "nobile", appoggiandolo a persona che era già stata a Vienna insignita del grado superiore.
L'E. arrivò nella capitale asburgica nell'ottobre 1744 e nuovamente dovette dedicare alle vicende militari (era in corso la guerra di successione austriaca) gran parte dei suoi dispacci, e molte delle proprie energie al tentativo di stornare dalla Repubblica l'ombra dei sospetti d'una qualche parzialità nella fornitura di vettovaglie alle armate gallo-ispaniche che operavano nella Valpadana.
Le forze, intanto, progressivamente lo abbandonavano. Il 20 ag. '46, scusandosi di non aver potuto compilare con la dovuta cura il dispaccio, scriveva: "Mai, e ne chiamo Dio in testimonio, cosa che già mi attendevo per la dolorosa passata esperienza, da che sono per mia fatalità qui, ho goduto buona salute. Ma camminano ormai due mesi all'incirca, ch'ella è ... infelice ed abbattuta"; e il 3 settembre: "Incredibile è il mio abbattimento, e la destituzione di forze".
L'indomani, "colle lacrime agli occhi", il segretario Pietro Vignola ne annunciava al Senato la morte; fu sepolto "in privata forma", per cura del figlio Nicolò [II] che l'aveva seguito nell'ambasceria, nella chiesa degli Scozzesi a Vienna.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Misc. codd. I, Storiaveneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii..., III, cc. 420, 427, 429; Ibid., Segretario alle Voci. Elezioni del Maggior Consiglio, reg. 25, c. 87; reg. 26, cc. 22, 85, 274; reg. 28, c. 219; Ibid., Elezioni dei Pregadi, reg. 21, c. 37; reg. 22, cc. 7, 10, 12, 13, 14, 22, 53, 74, 75, 155, 175; reg. 23, cc. 1, 2, 51, 74, 78, 151, 164; reg. 24, cc. 74, 78; per le ambascerie, nell'ordine cronologico in cui vennero esercitate: Ibid., Senato. Dispacci Spagna, ff. 147-149; Dispacci Germania, ff. 230-234 bis, e Senato. Expulsis papalistis, f. 23; Dispacci Costantinopoli, ff. 191-197; Dispacci Germania, ff. 250-252, ed Expulsis papalistis, ff. 28, 29; una copia di settantadue discorsi pronunciati in Senato dall'E. fra il 1730 ed il '44, talvolta accompagnati da un suo stringato commento, in Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, cod. 2245 (= 8784): Andrea Erizzo, Discorsi. Su queste ed altre cariche da lui esercitate: Inquisitorato dell'Arsenal negli anni 1733-34, sostenuto da S.E. N. E. 3º cavalier, Venezia 1755; per la permanenza giovanile alla corte di Francia: Le relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti..., a cura di N. Barozzi - G. Berchet, s. 2, Francia, VIII, Venezia 1863, p. 596; le relazioni, in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, VIII, Spagna (1497-1598), a cura di L. Firpo, Torino 1981, p. XXXII; X, Spagna (1635-1738), ibid. 1979, pp. 723-790; II, Germania (1506-1554), ibid. 1970, pp. LXVI s., LXIX; IV, Germania (1658-1793), ibid. 1968, pp. 708-794. Cfr. inoltre: G. Tabacco, Andrea Tron e la crisi dell'aristocrazia senatoria a Venezia, Trieste 1957, p. 23; R. Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, II, Milano-Messina 1968, pp. 236, 239; P. Del Negro, Politica e cultura nella Venezia di metà Settecento: la "poesia barona" di Giorgio Baffo "quarantiotto", in Comunità, XXXVI (1982), 184, p. 384; G. Benzoni, Vienna nelle relazioni degli ambasciatori veneziani, in Venezia-Vienna, a cura di G. Romanelli, Milano 1983, p. 12; F. Lucchetta, Una scuola di lingue orientali a Venezia nel Settecento: il secondo tentativo, in Quaderni di studi arabi, II (1984), p. 36.