ERIZZO, Nicolò
Primogenito di Francesco di Nicolò e di Caterina Da Mula di Nicolò di Giovanni, nacque a Venezia, nella parrocchia di S. Martino di Castello, il 30 luglio 1655.
Secondo una anonima e non datata (e per di più prolissa e talvolta inesatta) "memoria" sulla sua vita, l'E. fu collerico sensuale ambizioso, ma anche acuto e sinceramente devoto alla famiglia: caratteristiche, queste, ricorrenti in quasi tutti gli appartenenti alla casata nel corso degli ultimi due secoli della Repubblica. Sulla base di questa biografia, uscito diciottenne dal collegio dov'era stato posto in educazione, e per di più, forte dell'autorevolezza che gli derivava dall'esser divenuto capo della famiglia, essendo nel frattempo morto il padre, l'E. si diede a una vita di "sregolate licenze", di sfrenatezze ed eccessi vivacizzati da avventure galanti. Sennonché proprio a causa di una di queste poco edificanti iniziative, quando, cioè, approfittando della maschera in occasione di pubblici festeggiamenti, prese ad esibire troppo pesanti avances nei confronti d'una dama sposata, gli toccò di ricevere dall'accompagnatore di costei un colpo di sciabola sulla testa che, se non ne provocò la morte, lo segnò per tutto il resto della vita d'una orribile cicatrice.
La brutta avventura - sempre secondo tale fonte - riuscì tuttavia salutare all'E., che da allora mutò radicalmente condotta, fornendosi di una solida educazione e volgendosi all'esercizio della politica, i cui esordi, però, non furono facili: l'elezione a castellano a Brescia, verificatasi il 26 apr. 1676, ha infatti il sapore di una sorta di punizione, quasi un atto di umiliazione inflitto al giovane intemperante, il quale però, quantunque avesse cambiato costumi, non si sentì evidentemente abbastanza forte da sottoporvisi e rifiutò la nomina.
Il gesto gli costò la mancata elezione al saviato agli Ordini, ordinario tirocinio per gli esponenti delle casate maggiori e più ricche. Per questo motivo, la sua carriera, considerata nell'ambito della classe senatoria, appare del tutto anomala.
Il 14 dic. 1681 fu nominato provveditore sopra i Conti, incarico che tenne fino al 13 dic. 1682. Il 1º ott. 1682 sposò Samaritana Nani del cavaliere e procuratore Antonio, dalla quale ebbe sei figli maschi e tre femmine: Lucia, sposata nel 1712 ad Ottaviano Contarini di Gerolamo, Faustina, maritata nel '14 a Giacomo Canal del procuratore Gerolamo, e Maria, che nell'82 andò sposa a Benedetto Pisani di Angelo.
Il 17 genn. 1684, nell'imminenza della guerra contro il Turco, fu eletto sopracomito di galera: rifiutò, ma in cambio dovette accettare un costoso rettorato, ossia la podestaria di Vicenza, ch'egli tenne dal 19 giugno 1684 al 18 ottobre 1685.
L'amministrazione della giustizia portò l'E. ad un confronto pressoché quotidiano con l'abituale congerie di violenze, stupri, furti, ferimenti, omicidi, la cui entità non può ancor oggi fare a meno di stupire, sia che si tratti delle rivalità che rinfocolavano vecchi odi e pregiudizi tra gli abitanti di una stessa Comunità (è il caso, ad esempio, di Montecchio, paese "coppioso d'habitanti, morbido per le sostanze, e dovicioso per il sito", ma lacerato al suo interno da ataviche rivalità), sia che ci si trovi di fronte a dimostrazioni di efferata violenza privata, come risulta dalla drammatica denuncia inoltrata al rettore dai fratelli dell'infelice Valeria Tavola: "essendo la medesima per sua, e nostra sventura collocata già undeci anni in matrimonio con il sig. Felice Mainente, non solo sempre la mal trattò con fiere percosse, et iniquissime procedure, ma finalmente avvisato che la meschina, unita con uno de' suoi piccoli figlioli d'anni otto, servita da un familiare, si era... portata alla chiesa de' RR. PP. Cappuccini, precipitoso si portò alla medesima armato di pugnale, o stilo, e staccatala violentemente da essa chiesa procurò svenarla con cinque mortali ferite, con violatione del Santuario, su gl'occhi dell'innocente tenero corrimune figliolo, e con terrore de' esemplarissimi religiosi spettatori".
Rientrato in patria al termine del mandato, l'E. fu dapprima eletto savio alle Decime per l'intero 1686, quindi sostenne per alcuni anni il saviato di Terraferma, ossia nel primo semestre del 1687 e del 1688 e per il periodo aprile-settembre dei successivi 1689, 1690 e 1691, con funzioni di cassiere del Collegio. Il 2 ott. 1691 riuscì eletto ambasciatore a Parigi: era una designazione di assoluto prestigio, che l'avrebbe portato alla corte del più grande monarca d'Europa, ma che avrebbe altresì richiesto forti spese e un notevole impegno personale, per essere allora entrambi gli Stati, Francia e Venezia, impegnati in conflitti difficili, su fronti del tutto diversi.
Rifiutò, un mese dopo. Non era il primo a declinare la nomina: lo avevano preceduto Giovanni Lando e Giovanni Pesaro; per cui gli inquisitori di Stato decisero di non ritenere valide le ragioni addotte e lo relegarono nella fortezza di Palmanova, a riflettere. Ne uscì il 23 novembre, dopo essersi impegnato a sostenere questa od altra ambasceria che il Senato avesse voluto affidargli, entro due anni. In tal modo, il 25 nov. 1693 gli venne nuovamente offerta la sede di Versailles.
Qui l'E. si recò, conducendo con sé i figli e, contrariamente alla prassi, la moglie, affinché costei potesse "esser proposta in esempio di virtù, e di castità coniugale alle più oneste Penelopi di quella vasta città, s'ella può gloriarsi d'averna avuta alcuna già mai"; e così, mentre la buona samaritana impartiva alle parigine inusitati esempi di domestiche virtù, l'E. ne approfittava per intrattenere un pochino i mariti al gioco, dov'egli riuscì così fortunato - sempre in base alla ricordata "memoria" - da accumulare vincite per 1.000.000 di ducati. Pur facendo la tara ad una cifra decisamente spropositata, è certo che, mentre il suo predecessore Pietro Venier lasciò Parigi in fretta e furia, il 4 nov. 1694, per sfuggire ai creditori, l'E. rese ancora più dispendiose le funzioni connesse con la sua carica per una sorta di naturale superbia e alterigia che lo portavano, in cuor suo, a disprezzare tutti: anche nella successiva ambasceria romana egli avrebbe mantenuto un fastoso tenore di vita e sarebbe stato il primo ad adottare solo carrozze interamente dorate.
A Parigi, dunque, l'E. non mancò di impressionare positivamente; e quel "glorioso regnante" lo creò cavaliere e volle fungere da padrino ad un figlio natogli nel corso della legazione, la quale durò all'incirca cinque anni, dall'ottobre del 1694 all'agosto del 1699.
Il suo principale compito era di cercare di promuovere la pace tra Luigi XIV e la lega nemica, nella speranza che l'Europa si decidesse finalmente a fornire qualche aiuto alla Repubblica impegnata contro i Turchi, ai quali aveva strappato la Morea. Sennonché l'azione del diplomatico per sviluppare gli "studii della pace" non fu poi, nella prassi, adeguatamente avallata dal Senato, com'egli - non senza una punta di polemica - ricordava nella relazione: "Cinque volte, ora dalla bocca di Sua Maestà, ed ora col mezzo de' suoi ministri mi furono dati vivissimi stimoli acciocché l'Ecc.mo Senato si facesse autore della grande opera..., nulla di meno, sebben che il ministro di VV.EE. scrivesse grandi, e non credute circostanze, circa gl'interessi della patria..., piacque a Dio di suggerire diversi consigli. Tale era il destino della Repubblica, e la Svezia, altre volte patria dei barbari, doveva aver sola la gloria del gran trattato di Risvich"; questo però - a suo vedere - nulla toglieva ai propri meriti personali, poiché, giunto a quella corte, "vi trovai il nome pubblico fluttuante per varii sospetti causati dalle congiunture", e "l'ho riconsegnato in mano dell'Ecc.mo successore, sereno e pacifico", grazie anche alla convinzione del re "che la positura dei suoi Stati, non meno che le antiche e recenti querele con gli Austriaci, rendano inseparabili gl'interessi del Senato da quelli della corona cristianissima"; in un tale sovrano bisognava dunque aver fiducia, dar credito alle sue "sublimi inclinazioni", benché "sparse di alcune ombre, tra le quali devono annoverarsi li pesi eccessivi ingiunti al suo popolo, ed il suo genio in passato troppo dedito agli amori ... Ma - e qui il documento propone un giudizio politico non agevolmente accettabile - Iddio che tiene in mano il cuore dei principi, forse per fini che a noi tuttavia sono occulti, togliendoli dappresso Colbert e Louvois, ministri superbi ed autori l'uno di guerre e l'altro di gravezze, ha all'improvviso cambiati i sentimenti di Sua Maestà rendendolo di re belligero, amatore di pace, e mutando quasi in un momento l'antica sua inclinazione a' piaceri in una soda pietà, e quasi non credibile rigore de' costumi". Con simili premesse, scontato appare dunque l'elogio conclusivo: "Tale è la costituzione presente del regno di Francia, patria d'uomini prodi e felici, protetto dalla fortuna, e dalla amenità ed importanza della sua situazione, che può dirsi il centro ed il cuore di Europa. Sarà sempre invincibile e potentissimo, quando non sia dall'interna discordia lacerato, e viva rassegnatissimo al suo sovrano, come al presente".
L'E. non lesse questa relazione in Senato, ma la spedì; si trovava infatti ancora a Parigi, quando venne eletto ambasciatore presso la S. Sede (26 apr. 1697), dove si recò direttamente, senza neppure passare per Venezia.
Fu un drammatico viaggio: ottenuta l'udienza di congedo nell'aprile 1699, si imbarcò a Marsiglia alla volta di Genova, ma la nave fece naufragio presso Monaco, "o per la forza del vento, o per difetto d'esperienza, overo colpa dei miei peccati"; nel frangente, l'E. diede dimostrazione di notevole coraggio (o, perlomeno, così volle far credere): "Io che non havevo da pensare a me solo, ma alla salute di tutta la mia casa, e di sette innocenti creature..., con la forza, e con le preghiere fatti ritirare molti, che volevano entrare nello schiffo, vi gettai dal bordo della galera in braccio di quelli che gl'accolsero, i più teneri de' figliuoli; gli altri con la madre vi saltarono dentro, et io entratovi ultimo di tutti mi ridussi alla riva più vicina".
A Livorno l'E. si separò dalla moglie, che tornò a Venezia, mentre egli proseguiva alla volta di Roma, dove giunse il 28 maggio; colà si trattenne poco più di due anni e mezzo, sino agli inizi del 1702, in un periodo particolarmente delicato.
La sua ambasceria presenta infatti due distinte fasi: la prima si può individuare nel lasso di tempo compreso tra l'arrivo alla corte di Innocenzo XII e la morte di quest'ultimo, seguita di lì a poco da quella di Carlo II di Spagna; con un pontefice debole e accomodante, la forte tempra dell'E. ("parlò di continuo a quei preti - così la biografia - in un tuono da leone che ruggisce e minaccia, tale essendo il suo temperamento") ebbe buon gioco, ed ecco i suoi dispacci al Senato offrire prevalentemente elogi del papa e dei cardinali veneti, eccezion fatta per la lettera del 28 nov. 1699, che annunciava un grave lutto: "Il mio figliol primogenito, ornato di virtù, di bellezza e d'angelici costumi..., è volato al cielo quasi in momenti per il mal di vaiuolo. Tutti gli altri stanno male, ne' so quel che sarà, onde la mia casa infelice geme sotto i flagelli della divina giustizia. Così ogni mezz'anno mi tocca a sentire la pesante mano di Dio, hora nel mar fluttuante, che minaccia d'inghiottirmi, et hora con i sepolcri aperti, che rinchiudono le care mie viscere" (l'E. ebbe molto a cuore la formazione dei figli, che portò sempre con sé nelle ambascerie, ma in realtà nei rapporti personali fu durissimo con loro).
L'elezione di un pontefice giovane e deciso come l'Albani e lo scoppio della guerra di successione spagnola conferirono un'importanza del tutto nuova ai rapporti veneto-pontifici, e quindi al ruolo giocato dall'E.; eccezion fatta per la Savoia, la Repubblica e la S. Sede erano i maggiori Stati italiani e su di essi prese a convergere l'attenzione della diplomazia europea: la Francia, in particolare, premeva per il mantenimento dello statusquo nella penisola, mentre Vienna propugnava la costituzione di un vasto fronte antiborbonico.
Come si è accennato, la posizione dell'E., attraverso il quale passavano i rapporti tra i due Stati, si fece determinante; su di lui pertanto molto fu scritto, e la sua relazione finale (29 ott. 1702) divenne celebre come autorevole fonte per la stessa immagine di Clemente XI: un poco perché egli era il primo ambasciatore veneziano che giungeva a Roma dopo cinque anni che la legazione era appoggiata ad un segretario, ma soprattutto per il fatto che l'E. si adoperò efficacemente per far fallire (come poi avvenne) ogni progetto franco-romano in funzione antiaustriaca.
A partire dal 1701 egli infatti cercò in tutti i modi di mettere in cattiva luce l'operato e le intenzioni del papa, e la relazione ha il tono di un vero e proprio manifesto giurisdizionalista, sulla scorta della migliore tradizione sarpiana, alla quale peraltro dichiara esplicitamente di volersi rifare. Talune sue affermazioni furono addirittura riprese da quanti poi si occuparono di quegli eventi, divenendo quasi una sorta di topos letterario: "Qui devo replicare - eccone degli esempi - che Roma è Chiesa e Sede Apostolica, ma che altresì è Corte e Principato"; quanto al presente pontefice, "si dice che i Papi non possono far più gran bene, essendosi raffreddato nel mondo l'antico rispetto che si aveva de' loro oracoli, bisogna però almeno credere che possano far del gran male e inquietare il mondo anche con uno zelo indiscreto, particolarmente se sono di testa forte, giovani et economici", tanto più che papa Clemente "non volle presso di sé Cardinali di gran testa, né Ministri che dipendessero da loro, preferendo la sua quiete e la sua autorità a quei consigli".
Su questa relazione gli storici espressero giudizi contrapposti, però tutti concordi nell'individuarne le ragioni nello spirito anticuriale dell'E. e nella sua scarsa fiducia nel pontefice, e quindi nel progetto di una lega antiaustriaca; a potenziare questi motivi concorsero però, con notevole probabilità, alcuni altri elementi, che possono essere sbrigativamente indicati nel risentimento provato dal forte temperamento dell'E. nei confronti di un papa certamente meno remissivo ed accomodante del predecessore, e poi nei privati suoi dissapori col cardinale C. d'Estrées, che fu a Roma e a Venezia appunto per promuovere la coalizione e con il quale l'E. si era scontrato al tempo della permanenza parigina.
In riconoscimento del lungo servizio prestato all'estero, in patria l'attendeva la nomina a savio del Consiglio, che ricoprì nel semestre aprile-settembre degli anni 1702-1706, nel corso dei quali l'E. continuò a sostenere una posizione improntata ad intransigente giurisdizionalismo nei confronti della corte pontificia e, quale inevitabile corollario, ad ostilità verso gli eserciti francesi che, agli ordini del generale L.-J. duca di Vendôme, si erano accampati nel Veronese, trasformando la Terraferma veneta in una sorta di base operativa contro gli Imperiali.
La sua animosità (non si potrebbe definirla altrimenti) nei confronti della S. Sede si spinse anzi sino al punto da perorare l'alleanza con casa d'Austria, nel 1706, giungendo in tal modo a rovesciare le convinzioni espresse al termine dell'ambasceria parigina, ma nella circostanza, ed ancora una volta, i fautori della neutralità ebbero il sopravvento (e a questo proposito va ricordato che l'E. uscì raramente vittorioso nei dibattiti assembleari).
All'estero si recò nuovamente tra l'ottobre 1706 ed il giugno dell'anno seguente, assieme al cavaliere Alvise Pisani, come ambasciatore straordinario per l'assunzione al trono della regina Anna d'Inghilterra.
In realtà la legazione era stata prevista sin dall'aprile 1702, ma le circostanze politiche avevano suggerito di procrastinarne l'effettuazione, che avvenne nel corso di una fastosa cerimonia svoltasi nei primi giorni del giugno 1707, nel castello di Saint James, mentre la concomitante apertura di una rappresentanza britannica a Venezia sembrava schiudere una nuova fase nei rapporti tra i due Stati. In realtà questi si sarebbero guastati appena un anno dopo, per una questione di lieve importanza; ma del persistere di una certa diffidenza inglese nei confronti del governo marciano possono essere indizio i pretesti con cui i due diplomatici furono trattenuti a Londra, per tutta la primavera, nel sospetto "che le nostre persone - così essi scrivevano al Senato - siano destinate a trattare gravi negotij in Olanda, niente valendo ... le fermissime asseveranze che facciamo in contrario".Rimpatriato, l'E. riprese il suo posto tra i savi del Consiglio nel 1707 e nel 1708; alla fine di quest'anno fu eletto tra i quattro cavalieri destinati ad intrattenere il re di Danimarca nel corso del suo soggiorno veneziano, ma in quel freddissimo inverno s'ammalò di pleurite rientrando a casa, la sera, da un ballo dato dal sovrano e in pochi giorni morì, il 21 genn. 1709.
Fonti e Bibl.: Nonostante numerose inesattezze, la principale fonte per la biografia dell'E. è costituita dalle 82 pagine manoscritte, che si trovano in Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, cod. 931 (= 7830), II: Memorie intorno la vita di N. E. patrizio, e cavalier veneziano. Siveda inoltre: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd. I, Storia veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii veneti…, III, c. 420; Ibid., Avogaria di Comun, b. 159: Necrologi di nobili, ad diem; Ibid., Segretario alle Voci. Elezioni del Maggior Consiglio, reg. 23, cc. 29 s., 171, 177, 209; reg. 25, c. 217; Ibid., Elezioni dei Pregadi, reg. 20, cc. 19-20, 63, 80; reg. 21, cc. 2, 4-7, 40, 69, 70, 73, 80, 82 s., 110, 118, 150; reg. 23, cc. 71, 109; sulla relegazione a Palmanova, Ibid., Inquisitori di Stato, b. 74, nn. 50 s.; sulla podestaria a Vicenza, Ibid., Capi del Consiglio dei dieci. Lettere di rettori, b. 234, nn. 236-367; per le ambascerie, Ibid., Senato. Dispacci ambasciatori Francia, ff. 187-192; Dispacci ambasciatori Roma, ff. 214-217; Dispacci expulsis papalistis, f. 5; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Codd. Cicogna, 2732/2: Manifesti delli ss.ri card. d'Estrées et amb. veneto N. E. Kr. per le reciproche loro displicenze e pretese. 1700; Arch. di Stato di Venezia, Senato. Dispacci ambasciatori Inghilterra, f. 80, nn. 105-113; f. 81, nn. 1-23. La relazione di Francia è stata pubblicata in Le relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti, a cura di N. Barozzi-G. Berchet, s. 2, Francia, III, Venezia 1863, pp. 577-597 (altre informazioni di natura diplomatica, nei Libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, VIII, Venezia 1914, pp. 52, 59, 77, 93, e in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, V, Francia (1492-1600), a cura di L. Firpo, Torino 1978, pp. XXXVI s.); quella di Roma, in B. Cecchetti, La Repubblica di Venezia e la corte di Roma nei rapporti della religione, I, Venezia 1874, pp. 323-348; per il dibattito suscitato da quest'ultima relazione, si vedano principalmente i seguenti lavori e la bibliografia in essi riportata: oltre al volume di Cecchetti, pp. 359-363; E. Vecchiato, La relazione sulla corte di Roma fatta al Senato di Venezia dall'ambasciatore N. E., in Atti e mem. della R. Accad. di scienze, lettere ed arti in Padova, n. s., VIII (1891-92), pp. 195-215; Relazioni di ambasciatori sabaudi, genovesi e veneti (1693-1713), a cura di C. Morandi, Bologna 1935, pp. LIV-LVIII, 223.
Si veda infine: E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane..., VI, Venezia 1853, p. 504; G. C. Zimolo, Tre campagne di guerra (1701-1703) e la Repubblica di Venezia, in Archivio veneto, s. 5, V (1928), p. 256; L. von Pastor, Storia dei papi, Roma 1932-33, XIV, p. 494; XV, pp. 15, 18, 22; P. Duparc, Recueil des instructions données aux ambassadeurs et ministres de France..., XXVI, Paris 1958, p. 122; A. Vecchi, Correnti religiose nel Sei-Settecento veneto, Venezia-Roma 1962, p. 299; A. Stella, Chiesa e Stato nelle relazioni dei nunzi pontifici aVenezia, Città del Vaticano 1964, pp. 80 s.; G. Moroni, Diz. di erudiz. storico-eccles. …, XXXIX, p. 106; LXXXII, p. 61; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s. v. Erizzo, tav. I; Diz. biogr. degli Italiani, XXIX, p. 205.