ERIZZO, Nicolò
Primogenito del cavaliere Nicolò, detto Andrea, e di Caterina Grimani di Marcantonio di Pietro, nacque a Venezia, nella parrocchia di S. Martino di Castello, il 15 genn. 1722.
Il padre fu prestigioso uomo politico e ricoprì diverse ambascerie nelle principali corti europee dove, sulla scorta di una consolidata tradizione, fortemente sentita dagli Erizzo, portò con sé i figli, per avviarli con tale scuola alla conoscenza degli ambienti della politica internazionale e dei loro protagonisti.
L'E. fu così a Vienna fra il 1735 ed il 1738, proprio negli anni della guerra di successione polacca; completò poi la propria educazione a Venezia, dove poté valersi - afferma il Gennari - "d'eccellenti maestri", quindi, il 20 genn. 1743, sposò Fontana Zorzi di Alvise, detto Antonio, di Gabriele, con la quale si sarebbe estinto questo ramo degli Zorzi, che risiedeva alle Zattere. Fu però un matrimonio sterile, ed il compito di assicurare la continuità del casato l'avrebbe assunto il fratello Nicolò detto Marcantonio, sposando nel 1758 Matilde Bentivoglio di Guido.
L'E. poté quindi dedicarsi completamente alla carriera politica, che ebbe inizio con il saviato agli Ordini, sostenuto dal 27 aprile al 30 sett. 1748 e per il semestre aprile-settembre dell'anno seguente; fu poi ufficiale alle Cazude sino a maggio del 1750 e due anni dopo assumeva la carica di capitano a Bergamo, alla quale più tardi avrebbe anche affiancato quella di vicepodestà.
Nella Lombardia veneta egli si sarebbe trattenuto per trenta mesi, dal luglio 1752 al dicembre 1754, occupandosi del controllo delle truppe e delle fortificazioni, della riscossione delle entrate fiscali, dell'amministrazione della giustizia, come risulta dalla relazione, presentata in Senato il 20 dic. 1754.
L'importanza della relazione consiste soprattutto nel rilievo conferito dall'E. - evidentemente sulla scorta delle realizzazioni d'ispirazione mercantilista, ch'egli aveva avuto modo di osservare a Vienna - alla necessità di tutelare ed incrementare le attività industriali e commerciali, che in un territorio cronicamente deficitario di biade, a causa dei limitati spazi concessi all'arativo da una natura prevalentemente montuosa, rappresentavano la principale, se non l'unica risorsa della popolazione. Ora, la provincia era buona produttrice di seta, cuoio, carta e ferro, ma - al pari dei rimanenti territori dello Stato marciano - era sprovvista di strade, malanno aggravato dalla mancanza di corsi d'acqua; donde la necessità, ravvisata dall'E., di procedere al riattamento della cosiddetta "via Priula" che congiungeva Bergamo con i Grigioni; un'impresa da tempo prevista ed anzi ordinata dal governo della Repubblica, ma praticamente inattuabile per esserne stata addossata la spesa a Comunità misere e pertanto incapaci di far fronte a tali incombenze. La proposta dell'E. era che lo Stato si facesse carico di questa realizzazione, rifacendosi poi coi proventi di una gabella da istituirsi al confine, "dove potrebbero fare scala le merci …, et indi difondendosi nell'alta Germania, e nella Baviera stessa darebbero un respiro ben grande al commercio et a' publici dacij". La quale dogana, "gravando anche insensibilmente li colli che vi entrassero, vi ritrarebbe una fertile rendita per sufficiente rissarcimento della publica spesa", né tale imposizione sarebbe risultata a scapito dei mercanti, "perché non sarà mai comparabile con ciò che pagano passando per li Stati della Regina, e molto sarebbe il sollievo, che sentirebbero nella maggior brevità de' viaggi, e nel nuovo commercio che verrebbe introdotto".
Allorché l'E. leggeva questo scritto ai Pregadi, aveva ricevuto ed accettato, da cinque mesi, la nomina di ambasciatore in Francia; le commissioni però gli furono consegnate solo un anno e mezzo più tardi, il 14 febbr. 1756, quando ormai era nell'aria la firma del trattato di Aranjuez, che avrebbe determinato il cosiddetto "rovesciamento delle alleanze" e, con esso, lo scoppio della guerra dei Sette anni. Così, lasciata Venezia alla fine di marzo, dopo un difficile viaggio "per le nevi ritrovate nelle aspre montagne della Savoia", l'E. giunse a Parigi due mesi dopo, a qualche settimana dall'apertura delle ostilità.
Come rappresentante della Repubblica, avrebbe dovuto cercare di risolvere, con i ministri di Luigi XV, alcune pendenze di natura diplomatica e commerciale, ma tutta l'attenzione di quella corte era rivolta a ben altre urgenze, come del resto è facile immaginare; inoltre gli esordi della missione vennero resi ancora più delicati dalla repentina scomparsa del suo predecessore, Giovanni Alvise Mocenigo, morto per un violento assalto di febbri l'8 giugno, senza aver potuto fornire all'E. le necessarie informazioni circa i compiti che l'attendevano, e soprattutto senza averlo reso partecipe delle proprie conoscenze negli ambienti della diplomazia parigina.
Alla luce di questa realtà, dunque, non stupisce se nel corso di quattro anni i dispacci dell'E. siano stati pressoché interamente assorbiti dalla narrazione delle vicende belliche, mentre l'unica questione di un certo rilievo concernente la Repubblica fu la richiesta francese, inoltrata appunto tramite l'ambasciatore veneziano, di sospendere pro tempore il decreto del 7 sett. 1754, con il quale il Senato aveva sostanzialmente proibito ai propri sudditi di rivolgere a Roma richieste che comportassero un qualsiasi esborso di denaro.
L'iniziativa, peraltro del tutto consona alla tradizione giurisdizionalista veneta, era scaturita come una forma di ritorsione per la recente soppressione, da parte del pontefice, dell'antico patriarcato di Aquileia e non aveva mancato di sollevare forti proteste, poiché la S. Sede temeva che un tale esempio potesse essere imitato da altre corti. L'occasione per uscire da uno stato di tensione e reciproca diffidenza, che minacciava di degenerare, venne fornito, nel 1758, dall'elevazione al soglio pontificio del veneziano Carlo Rezzonico: nel clima di generale esultanza - sincera o apparente che fosse - il Collegio sospese il decreto, quale sicuro preannuncio di futura revoca, e toccò all'E. darne notizia a F. J. de Bernis, che attivamente si era adoperato in tal senso.
All'infuori, però, di questo diretto contatto tra i due governi, la corrispondenza dell'E. fu - come si è accennato - totalmente dedicata al conflitto.
Dal privilegiato osservatorio parigino egli aveva modo di seguirlo e descriverlo dettagliatamente, dai primi entusiasmi per la presa di Port-Mahon, a Minorca, sino al loro rapido ripiegare di fronte alla tenacia esibita ancora una volta da un popolo che sapeva di poter disporre della superiorità marittima, ed anche all'allargarsi del teatro delle operazioni militari nella Germania, che ben presto avrebbe assorbito l'impiego di tre armate francesi.
Un anno dopo, mentre gli orizzonti del conflitto toccavano ormai l'America, raggiungendo dimensioni mondiali, le vicende e gli umori registrati dall'E. sembrano ormai chiaramente improntati al pessimismo, a causa del malessere serpeggiante nel paese, finanziariamente prostrato dalle esorbitanti spese del duplice impegno marittimo e terrestre, e duramente penalizzato, sul piano dell'economia, dalla paralisi del commercio: "Molte già delle provincie - scriveva nell'agosto 1757 - si ritrovano di maniera aggravate, a' non poter somministrare l'annuale contributo, con il pericolo, quando fossero imposti nuovi aggravii, di ritrovar l'opposizione delli respettivi Parlamenti, con il pericolo pure di qualche tumulto".
L'E. trascorse così gli anni della sua legazione a riferire alternativamente di successi e rovesci, di speranze di pace e di battaglie perennemente rinnovantisi; in uno degli ultimi dispacci (giugno 1760) la guerra sembra anzi prendere nuovo vigore e dilatare il suo ambito: "L'arresto praticato dagl'Inglesi nel Senegal di vari bastimenti appartenenti alla repubblica d'Olanda, ha fatto incominciare in quelle parti qualche ostilità fra le due nazioni...".
Non c'è commento in questi scritti, così lucidi eppure così freddi: Venezia voleva sapere, ma non partecipare, essere informata senza coinvolgimenti di sorta, a nessun livello, e l'E. offre il suo servizio nelle forme richieste, nei limiti auspicati; registra con l'acume e la finezza tradizionali nella diplomazia veneziana, ma non sa o non puo suggerire, insinuare tra le pieghe del discorso una considerazione costruttiva, far balenare un'ipotesi operativa: i suoi concittadini ora vogliono solo assistere, evitando di svolgere, nel concerto politico europeo, una funzione che non sia meramente coreografica.
Pressoché analogo fu il comportamento dell'E. nel corso della prima fase della successiva ambasceria, che lo portò a Vienna nel giro di pochi mesi; era stato eletto rappresentante della Repubblica presso la corte imperiale sin dal 24 nov. 1759; pertanto, lasciata Parigi nel luglio 1760, dopo una breve permanenza a Venezia, nella quale gli venne confermato il titolo di cavaliere conferitogli dal re di Francia, ricevette le commissioni il 14 marzo 1761 e a fine giugno si trovava già presso la corte imperiale.
Vi incontrò ancora l'eco della guerra, che continuava, e nuovamente i suoi dispacci presero a narrare di marce e di battaglie, tra illusioni di pace e nuove recrudescenze ostili; in quest'ultima fase del conflitto il ruolo dell'Austria appare alquanto defilato, mentre su tutto e su tutti giganteggia la figura di Federico II, che solo l'intervento russo potrebbe sconfiggere. Verso la metà di agosto l'evento parve concretizzarsi: "Li russi gettarono due ponti sull'Oder, e fecero passare un corpo di cosacchi, li quali senza verun ostacolo raggiunsero l'armata austriaca"; sennonché allo sguardo attento dell'E. non sfuggiva che, per quell'anno, la campagna militare poteva considerarsi conclusa senza ulteriori sviluppi: "si considerano in quelle parti imminenti avvenimenti di somma conseguenza; ma la stagione di molto avanzata, le difficoltà di far agire di concerto due armate alleate, le molte piazze fortificate nella Slesia, e la celerità ed attività del re di Prussia fanno considerare essere necessaria per questa Corte una continuazione di prosperità per conseguire l'acquisto di quella provincia". Poi la morte della zarina Elisabetta, l'effimero regno di Pietro III e il colpo di Stato di Caterina II, un "successo che va a cambiare nuovamente il sistema politico dell'Europa"; quindi la pace, nel febbraio 1763.
Con la pace fu la ripresa della normale attività diplomatica; sin dall'ottobre del 1762 il Senato aveva incaricato l'E. di trattare con l'ambasciatore russo a Vienna, principe D. A. Golicyn, la fissazione delle basi di un trattato commerciale, quale punto di partenza per l'avvio di regolari relazioni tra Venezia e Pietroburgo, da tempo sollecitate da questa corte in funzione antiturca. Ma la Repubblica intendeva soprattutto temporeggiare, timorosa di suscitare il risentimento di Istanbul e la gelosia di Vienna, per cui il compito dell'E. non superò limiti meramente interlocutori, come riferiva al suo governo in uno degli ultimi dispacci: "Usai delle maggiori riserve nel rispondere..., valendomi di termini generali" (26 febbr. 1763); e così sarebbero dovuti trascorrere altri vent'anni, perché Venezia e la Russia allacciassero normali scambi diplomatici.
Lasciò la corte imperiale nel novembre del 1765, ancora una volta nell'imminenza di una nuova ambasceria: quella presso la S. Sede, cui era stato eletto il 10 maggio 1764. Giunse a Roma nella tarda primavera del 1766 e vi si sarebbe fermato poco più di un anno: pure, questa legazione segna il momento maggiormente significativo ed alto della sua carriera, e l'azione da lui espletata è stata giustamente ritenuta decisiva, nell'ambito dell'offensiva giurisdizionalista condotta dalla Repubblica a cavallo degli anni Cinquanta e Settanta del secolo; a Roma infatti, per la prima volta, l'E. si trovò libero dai precedenti condizionamenti derivanti dalla debolezza politica dello Stato che rappresentava, e finalmente poté agire in maggior uniformità con la propria indole e le proprie convinzioni.
Consapevole della crisi che travagliava il pontificato, decise di trarne il massimo partito, magari coniugando l'interesse della Repubblica con quello personale, o meglio, della sua famiglia: Venezia infatti, su iniziativa dei Tron, dei Querini, dei Da Riva, si apprestava a sferrare un pesante attacco alla proprietà ecclesiastica e qualche anno più tardi proprio l'E. sarebbe risultato il principale acquirente dei beni monastici posti in vendita, assicurando in tal modo, e per decenni, le fortune economiche del casato.
Nell'intenso periodo che precedette l'abolizione dei gesuiti l'E. non mancò di sfruttare ogni occasione per sottolineare la bontà delle iniziative giurisdizionaliste che da più parti muovevano contro la Chiesa e l'iniquità delle prerogative sulle quali poggiava quella solenne istituzione; quasi a sintetizzarne il pensiero e il giudizio, F. Venturi ha sottolineato la "splendida frase" con cui l'E., nel marzo del 1767, indicava al suo governo quanto ormai apparisse "invecchiato" il vasto edificio del dispotismo romano, "il qual per gli urti che da più parti va ricevendo, crolla, e già apparendo in esso gl'insulti del tempo, minaccia maggiori rovine".
Ma la personalità dell'E. non deve essere fatta semplicemente rientrare nell'ambito della ventata anticuriale che allora attraversava l'Europa, toccando proprio a Venezia uno dei traguardi più avanzati; né può essere ricondotta al carattere, determinato ed energico, del soggetto: è in lui, infatti (e ne costituisce probabilmente il tratto maggiormente interessante), un'esigenza di novità, un'apertura sincera e coerentemente perseguita di prendere le distanze da concezioni sociali e culturali che ormai gli apparivano irrimediabilmente condannate, nel tentativo di rinnovare ed arricchire le strutture del vivere civile, come ebbe a dimostrare - e basti questo esempio - a proposito dell'indipendenza della Corsica e dell'operato di P. Paoli, sulle cui posizioni egli si trovò sempre pienamente d'accordo.
Con questo - beninteso - non si vogliono accordare patenti democratiche all'E., che rimase pur sempre un tipico rappresentante dell'Ancien Régime, come provano anche l'amore per il lusso di cui si circondò in tutte le sue ambascerie e la pronta accettazione della nomina a procuratore di S. Marco, avvenuta il 22 febbr. 1767. Ne conseguì l'abbandono della legazione romana, dove però, con clamorosa procedura, venne a sostituirlo, in luglio, il fratello Nicolò detto Marcantonio.
Non appaiono del tutto chiare le ragioni di tale scelta: una plausibile spiegazione potrebbe consistere semplicemente nell'aver voluto cogliere un significativo riconoscimento politico; un'altra nell'opportunità di favorire l'opera della deputazione ad pias causas premendo contemporaneamente su Venezia e su Roma; certo, da allora l'E. non lasciò più la sua città, delegando ad altri membri della famiglia l'esercizio della diplomazia internazionale (nel 1768 rifiutò un'ambasceria straordinaria alla regina delle Due Sicilie, nel 1774 analoga missione presso il re di Francia), e badando soprattutto a raccogliere i frutti di tanti anni di servizio.
Prestigiose, ma assolutamente di routine le cariche esercitate: regolatore alla Scrittura (1768-69), provveditore sopra i Feudi (1770-71), sopraprovveditore alle Legne (1771), provveditore agli Ori e monete (1772-73), esecutore contro la Bestemmia (1774), sopraprovveditore alla Giustizia Nuova (1776-77), provveditore sopra gli Ogli (1777-79), inquisitore sopra i Dazi (1779-82, e poi ancora nel 1786-88), inquisitore all'Arsenale (1783-84), inquisitore sopra l'esazione dei Pubblici Crediti (1789-92), aggiunto all'inquisitore sopra Ori e monete (1792-94), deputato alla provvision del Denaro (1797); rifiutò invece più volte il saviato del Consiglio per non impedire l'ingresso in Collegio al nipote Nicolò, detto Andrea.
Maggior importanza rivestono notizie solo in parte attinenti all'esercizio della politica e che invece coinvolgono l'uomo, dispiegandone la personalità, gli interessi e ancora i limiti. Si è accennato all'amore per il lusso e alla piena adesione al sistema politico della Repubblica, culminato nel tentativo di farsi eleggere doge, nel 1789, in concorrenza con Ludovico Manin; appena ritornato da Roma, poi, si fece costruire un'elegante villa a Mestre, dove nel 1782 avrebbe ospitato Pio VI in procinto di recarsi a Vienna, e pari riguardo dimostrò nel 1775, in occasione della visita a Venezia dell'imperatore Giuseppe II, allestendo una splendida "bissona" per la regata in onore dell'illustre ospite; nel 1779, infine, fece innalzare nel prato della Valle, a Padova, una statua del letterato Andrea Navagero, probabilmente per ricordarne l'omonimo discendente che proprio un secolo prima, con tocco squisito, aveva lasciato erede delle sue sostanze la casa Erizzo.
Accanto a queste iniziative, in fondo niente più che superficiali concessioni alla moda del tempo e al tono di vita morbida imperante sulle lagune, di ben altra valenza si carica la figura dell'E. nel campo economico e sociale, ove seppe operare col respiro del grande capitalista: all'inizio degli anni Settanta, infatti, realizzò massicci acquisti di proprietà fondiarie dei monasteri soppressi (tra i quali va ricordato il pingue patrimonio dell'abbazia di S. Stefano di Carrara), per un ammontare di 460.285 ducati; ancora, nel 1788 fu tra i principali azionisti della Compagnia veneta di sicurtà, una nuova società di assicurazioni marittime con capitale in buona parte ebraico.
È questo un segno indubbio di nuovi tempi, di una sensibilità nuova: due anni prima, del resto, nel corso di un serrato dibattito sulla questione della "nazione" israelita, l'E. aveva propugnato una posizione di apertura, affermando a chiare lettere che egli guardava "gli Ebrei come tutti gli altri uomini", né gli faceva senso "alcuna differenza di religione", e che bisognava invece badare solo al "vantaggio" dell'economia, senza prevenzioni di sorta, ancora, nel 1784 era stato aggregato alla prestigiosa Accademia patavina di scienze, lettere ed arti, che radunava gli spiriti migliori del milieu politico-culturale veneto, come colui "che, forse prima d'ogni altro, favorì il progetto dell'Accademia e se ne mostrò protettore"; e sappiamo che nel 1785 il suo nome figurava tra gli iscritti alla loggia massonica di Rio Marin.
Dunque questo doge mancato fu giurisdizionalista, filoebraico, massone e attivo imprenditore; la sua non fu l'esperienza di un Tron o di un Pesaro, ma semmai quella di Memmo o di Querini: sotto questo aspetto, egli fu tra coloro che più intensamente avvertirono, e coerentemente vissero, i fermenti dell'illuminismo, nella Venezia settecentesca.
Caduta la Repubblica, l'E. si ritirò dalla politica e morì nel suo palazzo, a S. Martino, il 4 febbr. 1806.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. ven. 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii veneti..., III, c. 420; Ibid., Segretarioalle Voci. Elezioni del Maggior Consiglio, reg. 28, cc. 36, 208; reg. 30, c. 113; Ibid., Elezioni dei Pregadi, reg. 23, cc. 17, 28, 78; reg. 24, cc. 3, 12, 71, 73, 77 s., 80; reg. 25, cc. 47, 56, 66 ss., 73, 85, 90, 93, 100, 132, 155, 161; reg. 26, cc. 6, 42, 78, 94, 104, 134, 136, 142, 179; Ibid., Lettere di rettori ai capi del Consiglio dei dieci, b. 17, nn. 69-78, 80-87, 89-135, 138-185 (Bergarno); Ibid., Dispacci ambasciatori Francia, ff. 244-248, ed anche Ibid., Expulsis papalistis, ff. 39-41; Ibid., Dispacci ambasciatori Germania, ff. 267-271, ed anche Ibid., Expulsis papalistis, f. 42; Ibid., Dispacci ambasciatori Roma, ff. 285-287; per alcuni suoi interventi nel collegio delle Acque, Ibid., Savi ed esecutori alle Acque, b. 559, passim; sull'inquisitorato in Arsenale, Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3277/II, sub 1/3/1784; la relazione di Bergamo, in Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, XII, Podestaria e capitanato di Bergamo, Milano 1978, pp. 715-722.
Si veda inoltre: Poesie per le solenni nozze di SS. EE. N. E. primo e Fontana Zorzi, Venezia 1743; G. Gennari, Delle lodi di S. E. il sig. cav. N. E. procuratore di S. Marco, Venezia 1767; Poesie in occasione del glorioso ingresso di S. E. cav. N. E. alla dignità di Procuratore di S. Marco per merito, Venezia 1767; Catal. degli Accad. distribuiti nei loro diversi ordini, in Saggi scientifici e letterarj dell'Accad. di Padova, I (1786), p. LXXXVIII; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane..., Venezia 1834-1853, IV, pp. 554 s.; VI, pp. 209, 302 s.; L. von Pastor, Storia dei papi, XVI, 1, Roma 1933, pp. 841, 851 s., 871; Relaz. degli ambasciatori veneti al Senato, s. 3, Francia, a cura di R. Moscati, Milano 1943, p. XXIII; G. Luzzatto, Sulla condiz. economica degli ebrei veneziani nel sec. XVIII, in La Rassegna mensile di Israel, XVI (1950), 6-8, p. 166; G. Stefani, L'assicurazione a Venezia dalle origini alla fine della Serenissima, II, Trieste 1956, p. 548; P. Duparc, Recueil des instructions données aux ambassadeurs et ministres de France, XXVI, Paris 1958, p. 235; A. Da Mosto, I dogi di Venezia..., Milano 1960, pp. 534 s.; F. Seneca, F. L. Morosini e un fallito progetto di accordo veneto-russo, in Archivio veneto, s. 5, LXXI (1962), pp. 23 s., 30 s., 33 s.; Relaz. di ambasciatori veneti al Senato, II, Germania (1506-1554), a cura di L. Firpo, Torino 1970, p. LXXII; G. Gullino, S. Foscarini e il decreto del Senato veneto 7 sett. 1754, in Archivio veneto, s. 5, XCII (1971), p. 73; P. Preto, P. Ceoldo (1738-1813) tra ancien règime e rivoluzione, in Fonti e ricerche di storia eccles. padovana, VII (1976), p. 29; F. Venturi, Settecento riformatore, II, La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, 1758-1774, Torino 1976, pp. 106, 185, 219, 223; V, L'Italia dei lumi (1764-1790), ibid. 1987, t. 1, pp. 98, 327 s.; J. Georgelin, Venise au siècle des lumières, Paris-La Haye 1978, pp. 491, 524, 662; M. Infelise, Censura e politica giurisdizionalista a Venezia nel Settecento, in Ann. della Fondaz. L. Einaudi, XVI (1982), p. 238; G. Scarpa, Terra e proprietà nel Veronese all'aprirsi del sec. XIX, in Uomini e civiltà agraria in territorio veronese, a cura di G. Borelli, II, Verona 1982, p. 491; F. Trentafonte, Giurisdizionalismo illuminismo e massoneria nel tramonto della Repubblica veneta, Venezia 1984, p. 27; R. Calimani, Storia del ghetto di Venezia, Milano 1985, p. 418; P. Del Negro, Appunti sul patriziato veneziano, la cultura e la politica della ricerca scientifica nel secondo Settecento, in La Specola dell'Univ. di Padova, Brugine 1986, p. 287; R. Derosas, I Querini Stampalia. Vicende patrimoniali dal Cinque all'Ottocento, in I Querini Stampalia. Un ritratto difamiglia nel Settecento veneziano, a cura di G. Busetto - M. Gambier, Venezia 1987, p. 75; R. Targhetta, La massoneria veneta dalle origini alla chiusura delle logge (1729-1785), Udine 1988, pp. 154, 158, 164, 204; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s. v. Erizzo, tav. I.