DONÀ (Donati, Donato), Nicolò
Nacque a Venezia il 1° nov. 1705 dal patrizio Francesco di Nicolò, che apparteneva ad un ramo secondario dei Donà riva de Biasio, e da Fontana Maria Zen. Dal 1722 al 1725 fu a Vienna al seguito del padre, ambasciatore della Repubblica presso Carlo VI.
Si sa ben poco della sua educazione. Al D. appariva in ogni caso, nel corso di un severo bilancio tracciato a venticinque anni. quanto mai carente: gli era "mancato nella prima età ogni metodo" negli studi, "nulla di retorica, nientissimo di filosofia (gli) era noto", "per ciò che spetta alle fisiche niuna esperienza era(gli) nota". In parte queste carenze erano addebitabili ad una salute assai malferma: "oltre il levar(gli) la lena et il tempo", "li pregiudizi nella salute notabili" gli avevano fatto "raffionevolmente temere ... vita non lunga".
Nonostante tutto, il D. aveva coltivato con un certo impegno le lettere: tra il 1727 e il 1729 aveva scritto, al riparo di un anagramma, Doncio Lodano, una tragedia, Druso, più tardi "rifiutata dall'autore", un dramma giudicato "forse non dispreggievole", Pisistrato, la cui trama gli era stata suggerita dalla lettura dell'"opera ultimamente stampata" del cavaliere di Ramsay "intitolata li Viaggi di Ciro", e alcune poesie, tra le quali un simpatico Capitolare amoroso e alcune ariette forse destinate ad essere musicate dallo stesso D., il quale amava suonare il cembalo e "altri strumenti" e aveva al suo attivo "vari pezzi di musicali composizioni". Aveva atteso anche alla redazione di un interminabile poema epico in ottave, Alessandro Magno, che risulta condotto a termine al più tardi nel 1731.
Il D. riteneva di potersi "arrogar(e) di Poeta / il bel nome", ma non diede alle stampe neppure una delle sue incursioni nei territori della poesia e della drammaturgia: esse testimoniano, ad ogni modo, una rispettosa adesione ai canoni estetici tradizionali (ad esempio, "nel teatro non si ricerca la sposizion delle storie, ma le occasioni di ammirazione e di movimento") e uno spiccato interesse per i soggetti offerti dalla storia.
Nel 1729 una grave disavventura colpi la casa del D., una casa le cui mediocri entrate non erano sempre all'altezza delle ambizioni politiche: il padre dovette rinunciare all'assai remunerativa carica di bailo a Costantinopoli, alla quale era stato eletto dal Maggior Consiglio, a causa di un grosso debito, che aveva contratto durante il soggiorno viennese e il cui pagamento era stato ufficialmente chiesto dall'ambasciatore imperiale a Venezia. L'episodio segnò profondamente la vita del D.: forse fu, unitamente alla salute "non lievemente pregiudicata", all'origine della decisione di rimanere -come scrisse uno dei suoi primi biografi - "lontano dall'amministrazione del governo politico", certamente l'indusse ad accantonare le giovanili velleità letterarie a favore di studi destinati a riflettere più direttamente, nella loro genesi e nei loro temi, il suo destino di patrizio veneziano dimidiato.
In quello stesso anno intraprese la redazione di un'opera, la Filosofia direttiva, di cui portò a termine, a quanto pare, soltanto la prima parte, Delli corpi (inedita), mentre rimasero nella penna le altre tre previste nella prefazione generale, parti nelle quali avrebbe dovuto occuparsi della teologia e dell'anima umana, delle "operazioni degli uomini" e della "perfetta morale".
Nelle intenzioni del D. questa enciclopedia non doveva essere soltanto una raccolta ragionata di "scolastiche cognizioni", ma anche e soprattutto offrire una risposta "filosofica" al problema politico-morale sollevato dalle "fatali sciagure", che avevano colpito la casa: la "ragione, per la quale tanti uomini siano universalmente graditi e tanti abborriti da tutti", una "ragione" che non era agevole penetrare dal momento che tra gli "abborriti da tutti" figuravano sia gli "intieramente cattivi" sia i "buoni al possibile".
Il D. sperava che "una perfetta morale, ma regolata, dedotta dalle sue cause, commune ad ogni uomo" potesse offrirgli la chiave per risolvere il problema. Nella prima parte della Filosofia direttiva il D. esibiva un bagaglio culturale mediocre (si pronunciava, tra l'altro, a favore della teoria tolemaica), credenze religiose del tutto ortodosse (invocava la "divina assistenza" e s'appellava alle "verità delle Dottrine Cattoliche") e una scelta stilistica e linguistica avversa al purismo ("né altro linguaggio, ch'il mio familiare usar volli").
L'interminabile itinerario "filosofico", che avrebbe dovuto condurlo alla scoperta della "perfetta morale", fini per scoraggiare il D., che ben presto decise di prendere direttamente per le corna il toro della politica con L'uomo di governo. Trattati due, un'opera la cui pubblicazione fu autorizzata dal S. Offizio nel 1734 e che tuttavia diede alle stampe, dopo una revisione per lo più limitata alla forma, soltanto nel 1753 presso l'editore veronese Dionigi Ramanzini (sarà anche tradotta in francese sotto il titolo di L'homme d'Etat, I-III, Paris 1767).
"I più celebri autori. che trattano dell'arte politica", peccavano, a detta del D., di astrattezza oppure si rivolgevano "a quelle sole persone, che debbono regolare gli Stati con autorità assoluta": il suo obiettivo era invece quello di "formare un buon politico pratico", un uomo "abile ad esercitar il ministero di Stato in ogni forma di governo". Non voleva affatto lasciarsi coinvolgere dalle abusate polemiche sulla ragion di Stato, né offrire ai lettori un'ennesima filippica contro "le tante scellerate massime di Niccolò Machiavelli e di Tacito".
Ciò che si proponeva era un ritratto in positivo dell'uomo di governo, la descrizione delle sue qualità e del suo "esercizio" (e di conseguenza evitava di parlare delle tradizionali degenerazioni del Potere, la tirannia, l'oclocrazia e l'oligarchia): il "politico pratico" doveva "regolare il sistema dello Stato, ed indirizzarlo alla possibile felicità", assicurare "l'utile, e la felicità de' popoli" conservando "contenti i sudditi mediante la prudenza, e la dolcezza del governo". L'uomo di governo era il frutto dell'innesto della lezione, che il "celebre Paolo Mattia Doria" aveva offerto "nel suo libro della Vita Civile", nel tronco della tradizionale politica paternalistica del regime veneziano.
Nel 1734, l'anno in cui aveva pensato di pubblicare L'uomo di governo, ilD. concepi un'altra opera politica, i Ragionamenti politici intorno al governo della Repubblica di Venezia, che avrebbe poi redatto tra il maggio del 1736 e il febbraio del 1738. Con i Ragionamenti politici, rimasti inediti, si concludeva la lunga e contorta marcia d'avvicinamento iniziata con la Filosofia direttiva: dopo aver reagito al trauma del 1729 con risposte oblique, indirette (la "perfetta morale", una politica "pratica" valida per "ogni forma di governo"), egli si risolse ad affrontare senza altre mediazioni la questione delle "dolorose vicende", alle quali erano state "innocenternente" esposte fla infelice (sua) casa e persona".
I Ragionamenti politici erano dedicati agli inquisitori di Stato, ritenuti dal D. lo spiritus vitae della Repubblica marciana (ma, per evitare l'"odio commune", l'opera doveva essere consegnata ai triumviri soltanto dopo la morte dell'autore). Egli metteva in conto l'emarginazione della propria casa allo "zelo, ultroneo, o piuttosto (all')invidia ed indignazione" delle grandi famiglie del patriziato. Ma il D. non aveva scritto i Ragionamenti politici per vendicarsi dei "grandi": aveva invece voluto rendersi "non inutile cittadino a questa repubblica" segnalando agli inquisitori i "principali disordini di questo governo", quei "disordini", che erano all'origine della disgrazia della casa.
Il D. non si limitava a denunciare i mali che affliggevano la Repubblica, ma tracciava un vero e proprio piano di trasformazioni strutturali non tanto delle istituzioni (le innovazioni che consigliava in questo ambito erano tutto sommato secondarie) quanto dei rapporti di potere tra le diverse "classi" del patriziato: il piano avrebbe dovuto essere gestito dagli stessi Inquisitori e attuato nel lungo periodo. Il patrizio individuava cinque principi fondamentali del governo aristocratico: "dee esser composto da un numero moderato di persone"; "non dee passare molta differenza tra le loro facoltà"; "debbono essere tutte al possibile erudite"; "debbono amar la Patria più del loro interesse"; "debbono essere indifferenti per ogn'altra cosa".
Venezia era ben lontana dal soddisfare queste condizioni. Nel Maggior Consiglio era rappresentata "un'intiera Cittade": l'Assemblea generale del patriziato era accusata di essere "una piccola Democrazia", inoltre una "perniziosissima e fatale differenza di facoltà" separava le quattro "classi", tra le quali il D. ripartiva la nobiltà veneziana in base alla ricchezza e alle funzioni: i "proceri" (i "grandi"), i "benestanti", i "meccanici" (i nobili delle Quarantie) e i "plebei". Era manifesto che tra le quattro "classi" regnava una "non buona connessione" e che era difficile la "loro corrispondenza reciproca". Gli obbiettivi dell'"Aristocrazia perfettissima" e dell'"armonia di tutto il corpo della Repubblica" esigevano tutta una serie di provvedimenti.
Dal momento che "la estrema povertà e la eccedente ricchezza (erano) i principali semi del vizio e della virtù e delle scienze i più gagliardi nemici", era necessario, da un lato, "minorare" il numero dei "plebei" (i membri del Maggior Consiglio dovevano essere ridotti di un buon terzo) e, dall'altro, dividere le case più ricche dei "proceri" in modo da evitare che "la povertà si sparga per tutto e la ricchezza tutta s'acoli in pochissimi luoghi". Inoltre era necessario assicurare un'"equa" divisione del potere tra le quattro "classi" (ad esempio, i sei seggi di savio grande, gli incarichi più importanti del governo, dovevano essere occupati da due "proceri", tre "benestanti" e un "meccanico").
Il piano del D. mirava chiaramente, nel lungo periodo, ad una repubblica di "benestanti" e, a breve termine, ad una costituzione materiale fondata su rapporti più "razionali" tra le "classi", su un più saldo "equilibrio delle varie classi e magistrati de' nobili, avendo in mira altresi che non si accrescano le autorità de' magistrati de' nobili plebei". Con i Ragionamenti politici il discorso politico veneziano s'apriva una strada affatto ignota anche al contemporaneo sapere europeo, la strada di uno studio rigoroso delle divisioni sociali di una classe dirigente "chiusa" e del loro impatto sulle istituzioni.
Nel 1736 il D. aveva sposato Maria Vendramin di S. Fosca, un matrimonio che gli aveva permesso di migliorare la situazione finanziaria di una casa, nella quale "non abbonda(va) il peculio", e dal quale sarebbero nati due maschi, Francesco (nel 1744) e Francesco Alvise (nel 1752), e due femmine, entrambe accasate con nobili "nuovi" moderatamente agiati: Dolfina con Carlo Zino e Chiara con Francesco Lodovico Curti. Il D. si occupò attivamente dell'educazione dei figli: per Francesco scrisse tre tomi, che attualmente risultano smarriti, di Istruzioni pei giovani nobili "in forma di dialogo" (con ogni probabilità un arrangiamento della Filosofia direttiva) e nel 1758 un Compendio storico de' fatti ed avvenimenti più notabili della Repubblica di Venezia, tratto dalla collana de' storici veneti (prob. identificabile con il Trassunto dell'istoria veneta cod. Cicogna 2680).
Come scriveva ad un amico nel 1751, il D. non aveva "mai lasciato da parte il proseguimento del (suo) libro dell'Uomo di governo": era sua intenzione "riuscire estendere qualche opportuno sistema dell'instituzione dei buoni governi", senza dimenticare che era necessario "andar sommamente guardinghi nell'introdur novità sostanziali nelle forme de governi". Il frutto di queste sue fatiche fu un'incompiuta Instituzion de' governi in due volumi, anch'essi andati smarriti.
Nel 1751-52 egli partecipò a modo suo al dibattito, che maggiormente animava in quegli anni la cultura italiana, redigendo una Dissertazione intorno alle monete (inedita), nella quale ribadiva, una volta di più, la fede mercantilistica, che aveva sempre professato, così come insisteva sul fatto che l'"aricchimento ed ingrandimento della intiera Nazione" non poteva derivare che da un valido equilibrio nei rapporti tra il governo ed i sudditi.
Nonostante fosse sempre rimasto fuori dell'agone della politica, il D. s'era in ogni caso guadagnato, soprattutto grazie alla pubblicazione dell'Uomodi governo, la sola opera che si era deciso a dare alle stampe, la fama di persona assai dotta. Quando, nel 1763, morì il doge e storiografo pubblico Marco Foscarini, il Consiglio dei dieci affidò al D. l'incarico di scrivere la storia di Venezia a partire dal 1714, vale a dire dal punto d'arrivo del secondo e ultimo tomo dell'Istoriadella Repubblica di Piero Garzoni. Se si esclude il modesto Compendio storico scritto "per istruzione di Francesco Donato suo figlio", il D. non s'era mai occupato di storia veneta. Molti anni prima, nel 1734, aveva tradotto Delle cose romane di Lucio Anneo Floro e aveva redatto una Storia di Carlo XII rè di Svezia "secondo le memorie di M. Voltaire".
Ma non fu certamente la lezione storiografica di Voltaire che il D. segui quando s'accinse con la massima sollecitudine ad assolvere il compito, che gli era stato assegnato. Nel 1764 condusse a termine una scialba e disuguale Storia della Repubblica di Venezia in quattro libri (inedita), nella quale riassumeva le vicende della patria dalla fondazione della città fino alla pace di Rastatt. L'armatura del riassunto era data da una serie di documenti pubblici, quasi tutti tratti dai Commemoriali: di qui una particolare insistenza sulla politica estera della Repubblica. Rimaneva da scrivere la storia contemporanea. Nell'aprile del 1765 il D. fu eletto consigliere ducale per il sestiere di Cannaregio e s'affrettò ad aggiungere il titolo di senatore all'intestazione del libro quinto della sua opera. Ma la morte, sopravvenuta a Venezia il 7 ag. 1765, troncò ad un tempo la tardiva carriera politica del patrizio e la prosecuzione della storia.
Le opere del D. sono conservate a Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Codici Cicogna, 2695: Capitolare amoroso, Rime, versi, Pisistrato, Druso, Alessandro Magno, copia di quattro lettere degli anni 1731 e 1751; 1859: Uomo di governo; 3597/2: Storia di Carlo XII; 2586: Ragionamenti politici (orig.); 2253: Dissertazione intorno alle monete; 2680: Trassunto dell'istoria veneta; 3597/1: Storia della Repubblica di Venezia (orig.); e a Vicenza, Biblioteca Bertoliana, Manoscritti 1432 (G. 5. 4. 10.): Storia della Repubblica di Venezia (copia): 1235 (G. 8. 6. 21.): Filosofia direttiva; 1234 (G. 5. 4. 19.): Ragionamenti politici (copia).
Fonti e Bibl.: Padova, Bibl. universitaria, ms. 137, 1: G. P. Gasperi, Catalogo della Biblioteca veneta, cc. 271-72; Nuovo Dizionario istorico, V, Bassano 1796, p. 150; G. A. Moschini, Della letter. venez. del sec.XVIII..., II, Venezia 1806, pp. 167-69; G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia..., I, Venezia 1855, p. 109; F. Cavalli, La scienza politica in Italia, IV, Venezia 1881, pp. 8 s.; P. Rigobon, Di N. e F. Donà veneziani del Settecento e dei loro studi storici e politici, Venezia 1910 (estr. da Ann. d. R. Scuola super. di commercio in Venezia per l'anno scol. 1909-1910), pp. 5-17; Arch. stor. ital., XLVI (1910), pp. 71 s.; Nuovo Arch. ven., XX (1910), 2, pp. 365 ss.; P. Del Negro, Venezia allo specchio. La crisi delle istituzioni repubblicane negli scritti del patriziato (1670-1797), in Studies on Voltaire, XXV (1980), pp. 924 s.; G. Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani..., Torino 1982, pp. 290 n., 343 s., 358 ss., 369 n., 373, 376 n., 381, 383; P. Del Negro, Politica e cultura nella Venezia di metà Settecento..., in Comunità, XXXVI (1982), pp. 329 ss.; Id., La distribuzione del potere all'interno del patriziato veneziano del Settecento, in I ceti dirigenti in Italia..., Udine 1984, pp. 316, 324, 329, 334 n.