DONÀ (Donati, Donato), Nicolò
Nacque a Venezia, nel 1434, da Bernardo di Maffeo (Maffio) e da Lucia Loredan di Giovanni di Nicolò. Il padre, assai ricco, percorse una prestigiosa carriera politica; ebbe dalla moglie numerosi figli maschi, ma ciononostante questo ramo della famiglia era destinato ad estinguersi proprio con la generazione di Nicolò.
"Aetate tenerior, moribus gravis": così il De Rubeis, per spiegare come il giovane D., di indole tranquilla, pacata e persino accomodante, riflessivo e portato allo studio, pur senza distinguervisi in modo particolare, fosse indirizzato per tempo alla carriera ecclesiastica. Conseguito dunque il dottorato in diritto canonico, il 28 nov. 1464 risultava primicerio della chiesa di S. Marco a Candia, allorché pose la sua candidatura al patriarcato di Aquileia: fu però respinto e tentò di nuovo l'8 apr. '66, ancora una volta con esito negativo; nello stesso giorno cer . cò di ottenere, in subordine, il vescovato di Treviso, vacante per la morte di Teodoro De Lellis, ma la scelta cadde sul canonico Francesco Barozzi.
Fu probabilmente dopo questo duplice insuccesso che il D. si recò a Roma (un documento del 1477 accenna ad una "diuturnam moram eius in Curia Romana"), dove ottenne il titolo di protonotaro, mentre a Venezia i suoi famigliari cercavano di appoggiarne la candidatura al conseguimento di benefici vacanti: nel testamento, redatto il 10 marzo 1491, il D. ricorderà infatti con gratitudine i fratelli Francesco, Marco e Maffeo, "per averse ben portato tuti tre ale cose mie". Tuttavia, nonostante il Senato lo raccomandasse più volte al papa (il 6 febbr. 1476, e poi ancora '1 31 dic. '77, non mancando di sottolinearne le qualità: "egregiani virtutem, doctrinam et optimos mores"), il D. ottenne solo il rettorato della parrocchia di S.Lorenzo di Soave, nel Veronese, e dovette attendere sino al 7 giugno 1479 per conseguire il titolo vescovile: in tale data, infatti, gli venne affidata la diocesi di Limassol, suffraganea di Nicosìa, nell'isola di Cipro, dove succedette, previo esborso di 1.000 fiorini, al defunto canonico trevisano Antonio Di Zucco.
La sede non era prestigiosa né ricca; per di più il neoeletto dovette combattere le indebite ingerenze dell'arcivescovo di Nicosìa, Vettore Marcello, nella collazione di alcuni benefici che invece spettavano a Limassol; e che la ragione fosse dalla parte del D. lo prova implicitamente una lettera dello stesso Marcello a Sisto IV, in data 23 maggio 1481, nella quale si tenta di minimizzare la contesa, attribuendone le cause a disguidi e cattiverie di taluni imprecisati maligni, e non certo al collega, che viene anzi definito "vir probus et fide dignus". E che tale egli fosse riteneva senza dubbio anche il Senato, dal momento che, alla morte del Marcello, il 24 marzo 1484, il suo nome fu proposto alla S. Sede quale successore nella diocesi; senonché l'atteggiamento dei pontefice verso la Repubblica si era andato irrigidendo in seguito alla guerra dei Polesine, per cui nel concistoro del 2 giugno Sisto IV si pronunciò invece a favore del protonotaro Benedetto Soranzo, giustamente considerato strumento meno docile del D. nelle mani del governo veneto, di cui erano ormai evidenti le mire sull'isola di Cipro. Il Senato non ritenne comunque di insistere sulla nomina ad esso più gradita, limitandosi a raccomandare nuovamente il D. all'attenzione del papa, in caso di futuri benefici che si fossero resi disponibili (26 sett. 1485), ed in termini ancor più pressanti alcuni anni più tardi, dopo che alla sede di Concordia era stato eletto Leonello Chiericati.
In tale circostanza, il 18 ag. 1490, Venezia prendeva atto di una scelta che sacrificava "episcopuni Limonenseni nobilem nostrum prelatum singularis doctrine virtutibus et exemplari vite ornatum, ab omnibus illis populis maximopere concupitum", ma faceva anche esplicitamente capire che in futuro non sarebbe stata tollerata un'ulteriore emarginazione del D.: "oramus et obsecramur dignetur in gratiam nostram singularem eidem Reverendo domino Nicolao de prima ecclesia et dignitate vacatura in ditione nostra providere convenienter gradui et dignitati sue quod nobis et senatui nostro adeo gratuin cedet ac si nobis ipsis collatuin fuisset".
L'occasione si presentò il 6 marzo 1491, allorché pervenne a Venezia una lettera dell'ambasciatore presso la S. Sede, Ermolao Barbaro, con l'annuncio della morte del cardinale Marco Barbo, patriarca di Aquileia. L'indomani il Senato scelse fra diciassette personaggi il D. quale successore da proporre al pontefice, ma prima ancora che la notizia giungesse a Roma, questa aveva provveduto a nominare proprio il Barbaro.
L'episodio è ben noto: benché l'eletto fosse degno di ogni considerazione, le leggi della Repubblica vietavano ai propri diplomatici di ricevere doni ed emolumenti dai principi presso i quali erano accreditati. Per tre giorni il Consiglio dei dieci dibatté la questione, ma alla fine la pregiudiziale politica e le pressioni dei Donà ebbero la meglio, cosìcché il Barbaro fu revocato dall'incarico. Pertanto, mentre quest'ultimo restava a Roma, formalmente ritenuto il legittimo patriarca da parte pontificia, il Senato gli negò il titolo al godimento dei benefici, affidando la riscossione di quelle rendite al vescovo di Capodistria, Giacomo Vallaresso, già vicario del defunto patriarca Barbo nei pontificali, e che in seguito il capitolo aquileiese nominò governatore del patriarcato. Poi. se la scomparsa di Innocenzo VIII (luglio 1492) valse a far decantare la tensione, quella prematura del Barbaro, avvenuta nell'estate del '93, risultò decisiva, mentre già a Venezia si paventavano le mire di alcuni vescovi tedeschi, che approfittando della anomala situazione del patriarcato, sembravano intenzionati a chiederne la spartizione, per liberare il clero ed i sudditi di parte asburgica dalla soggezione ad un prelato veneto. Infatti, sin dal 17 maggio '93 il Senato aveva chiesto all'ambasciatore presso la S. Sede, Andrea Cappello, di sollecitare nuovamente il conferimento della nomina per il D., "praelatum sane aetate, virtute integritate ac moribus apprime laudabilem"; la qual cosa Alessandro VI poté infine concedere il 4 novembre di quello stesso anno, non senza aver prima riscosso dall'interessato la bella cifra di 13.000 ducati, per la spedizione delle bolle.
Soltanto il 2 giugno del 1494, tuttavia, il D., che in tutti questi anni aveva continuato a risiedere presso la sua famiglia, rilasciò a Girolamo De Zendatis la necessaria procura perché prendesse in suo nome il possesso canonico del patriarcato, dove fece il suo ingresso il 12 ottobre, accompagnato dai parenti e da molti prelati e senatori. Contrariamente ai predecessori, non fissò la residenza ad Udine, ma a Cividale, secondo alcuni per risparmiare, ma forse a motivo dei contrasti ben presto insorti con i suoi amministrati, in particolare con gli abitanti di San Daniele, ai quali il D. volle imporre come gastaldo un loro concittadino, diversamente da quanto stabilito dagli statuti della Comunità. Pare che dietro l'iniziativa del patriarca ci fossero le pressioni di taluni suoi collaboratori, ai quali l'animo troppo debole e remissivo del D. era incapace di resistere: la questione dunque si irrigidi dall'una e dall'altra parte, e venne portata davanti al Consiglio dei dieci ed alla Curia pontificia. Alessandro VI pensò di delegarla al suo ambasciatore a Venezia, l'arcivescovo di Durazzo Martino Firmiano; senonché il D. richiese che quest'ultimo fosse affiancato da altro giudice, a lui più gradito, e che venne scelto nella persona dell'arcivescovo di Spalato: ma neppure tale mossa sorti esito positivo, giacché sia il tribunale ecclesiastico sia il Consiglio dei dieci finirono per pronunciarsi in favore degli antichi statuti della Comunità friulana.
Senza contrasti si svolse invece l'amministrazione del D. nei confronti dei sudditi austriaci (contrariamente a quanto si sarebbe verificato con i suoi successori), come risulta dagli atti della visita effettuata in suo nome dal vescovo di Corone, Sebastiano Nascimbeni.
Morì inaspettatamente il 3 sett. 1497, a Cividale del Friuli, e fu sepolto nel coro davanti all'altare di S. Bartolomeo, con due iscrizioni latine che ne esaltavano la bontà, la semplicità dei costumi, la modestia e la giustizia.
Lo celebrarono numerosi letterati, tra i quali Emiliano Cimbriaco, Nicolò Canussio e M. Antonio Sabellico, che il defunto patriarca aveva amato e protetto. Più accorato fu tuttavia il dolore dei suoi fratelli, secondo la precisazione del Sanuto, che accompagnò la notizia della scomparsa del prelato con questo breve calcolo: "Aduncha, dicto patriarcha Donado pagoe ducati 13 milia, et have il possesso del 1494. Ergo, ha vixo et abuto le intrade anni tre, sichè apenna, computà le spexe et decime, potete li soi recuperar quello al pontifice disborsono".
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