CARRARA, Nicolò da
Nacque a Padova nella seconda metà del secolo XIII da Ubertino il Vecchio, figlio di Bonifacio, e da Iselgarda, di cui si ignora il casato.
La sua vicenda politica si colloca agli inizi del Trecento, in un momento particolarmente agitato della vita cittadina, che vide la prima instaurazione della signoria carrarese.
Insieme col parente Obizzo Papafava da Carrara, il 18 apr. 1314 il C. promosse e capeggiò la sommossa, conclusasi con una strage, contro gli Alticlini e i Ronchi, famiglie ricche e potenti di parte guelfa che contendevano il predominio in città ai Carraresi. Partecipò poi attivamente alle vicende della lunga guerra scoppiata fin dal giugno del 1312 tra Padova e Cangrande Della Scala, provvedendo ai preparativi militari, collaborando alla difesa delle fortezze e organizzando numerosi assalti al campo nemico. Dopo che lo zio Giacomo (I), non potendo più oltre resistere all'assedio delle milizie scaligere, cedette il 4 nov. 1319 la Signoria di Padova ad Enrico di Gorizia, quale vicario di Federico d'Asburgo, re dei Romani, il C. fu nel marzo del 1320 tra gli ambasciatori inviati al congresso di Bolzano, convocato per cercare una soluzione al conflitto. In quell'occasione non si giunse però ad alcun risultato: Cangrande, tornato all'assedio di Padova, tentò di occuparla nella notte del 3 giugno 1320, facendo entrare alcuni dei suoi attraverso la fossa dietro il monastero di S. Giustina. Ma il piano fallì per il tempestivo intervento del C., che, accorso sul luogo, riuscì a respingere i nemici. In suo onore e a ricordo dell'impresa, il Comune di Padova istituì una festa annuale con corsa del palio e il 30 apr. 1324 investì poi il C. di un castello a Cervarese. Un valido apporto il C. dette anche nel luglio del 1321, quando, recatosi come ambasciatore presso Federico d'Austria, ottenne che venissero dichiarati ribelli dell'Impero i fuorusciti che guerreggiavano contro la città e, nel contempo, la nomina di Enrico di Carinzia, fratello del re, a vicario in Padova.
Compiuta questa missione, il C. rimase lontano da Padova per circa due anni. Dopo essere stato podestà di Bologna nel primo semestre del 1322, il 17 dicembre dello stesso anno fu eletto podestà di Parma per volere del legato pontificio Bertrando del Poggetto: entrato in carica l'11 genn. 1323, vi restò sino al 6 maggio, giorno in cui ripartì, lasciando a reggere per lui la città il padovano Giacomo Capodivacca.Rientrato in patria, il C. partecipò nuovamente alla vita politica cittadina. Nel maggio del 1324 fu tra coloro che si accordarono con Enrico di Carinzia, convincendolo a venire personalmente a Padova: l'arrivo del vicario regio non fruttò però né la pace né la fine delle devastazioni ad opera dei fuorusciti, ma solo una tregua con Cangrande Della Scala (26 luglio). Alla morte di Giacomo (I), il 22 0 23 nov. 1324, fu prima vicino al cugino Marsilio, designato da quello a succedere nella signoria. Quando Paolo Dente, per vendicare l'assassinio del fratello Guglielmo, compiuto dal carrarese Ubertino, organizzò il 22 sett. 1325 un tumulto contro i Carrara, il C. si adoperò con energia per sedare la rivolta, combattendo accanitamente insieme con gli altri membri della sua famiglia. Diede nuovamente prova di valore il 27 febbr. 1326, quando riconquistò la torre del Curame, importante castello padovano posto ai confini con la Repubblica veneta, che era stata occupata da Corrado da Vigonza, confinato a Venezia in seguito alla congiura dei Dente.
Ma la dominandi libido del C. e l'invidia per la potenza raggiunta dal cugino Marsilio, che dopo la morte di Giacomo (I) deteneva il primato in città e all'interno della famiglia, provocarono ben presto tra i due cugini gravi dissensi. La rivalità sfociò in lotta aperta nel giugno del 1326, quando Marsilio, per indebolire l'autorità e il prestigio del C., bandì da Padova gli amici e seguaci suoi più intimi, accusandoli di macchinare congiure e accordi segreti con lo Scaligero (secondo il Cortusi, p. 46, costoro "fuerunt false accusati"). Questa imputazione venne poi mossa più o meno direttamente anche contro lo stesso C., che il 2 luglio 1327 fuggì perciò a Venezia. Qui si unì agli altri estrinseci e si alleò con Cangrande, proponendogli il matrimonio della propria figlia Iselgarda con Mastino, nipote di lui. Informati dell'accaduto, i Padovani rasero al suolo la sua casa e arrestarono i figli Giacomo e Giacomino, mandandoli prigionieri in Germania.
Nel frattempo il C., divenuto capitano dei fuorusciti, riusciva nel giro di pochi mesi a impadronirsi di quasi tutto il contado padovano. Il 13 ott. 1327 si avvicinò alla città e cercò di entrarvi provocando tumulti presso la porta di S. Croce, mentre Cangrande poneva il suo esercito a Monselice. Non essendo riuscito il tentativo, il C., tra saccheggi e devastazioni, si diresse a Bovolenta e ad Este, dove si asserragliò e sostenne l'assalto sferrato il 25 novembre dalle truppe tedesche, guidate da Corrado di Owenstein.
L'urgenza del pericolo spinse il cugino Marsilio a rivolgersi anche al pontefice Giovanni XXII e ne ottenne due brevi da Avignone in data 14 marzo del 1328 (Ceoldo, pp. 50 s.): uno, indirizzato al C., per persuaderlo a desistere dalla lotta contro la patria e la famiglia; l'altro, rivolto all'abate della Vangadizza e al canonico Rotondo, suo nunzio, affinché si adoperassero per ottenere la rappacificazione. Ma questo intervento non sortì alcun esito, per cui Marsilio, posto di fronte alla gravità del momento, preferì nel settembre del 1328 cedere egli stesso Padova a Cangrande, pur di conservare una posizione di privilegio in città (ottenne infatti il titolo di vicario) e di escludere ogni ingerenza del rivale. Deluso nelle sue aspirazioni, il C. dovette, per ordine dello Scaligero, allontanarsi da Este, dove le fortificazioni da lui erette vennero spianate, e rifugiarsi nuovamente a Venezia. A differenza degli altri fuorusciti, non fu però spogliato dei beni, evidentemente per volere dello stesso Cangrande.
Visse il resto dei suoi giorni parte a Venezia, parte a Chioggia, dove morì il 19 ott. 1344.
Il C. aveva sposato in prime nozze Elena della Torre, che era figlia di Salvino e, dopo la morte di questa, la vicentina Giacoma, di cui non si conosce il casato. Lasciò due figli maschi, i ricordati Giacomo e Giacomino, che saranno entrambi signori di Padova, e due femmine, Beatrice e Iselgarda.
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