CRASSO, Nicolò
Figlio di Marco di Nicolò di Alvise e di Triffona di Dominici, si sposò nel 1607 con Laura Zuccaredda, da cui ebbe due figli, Alvise e Lucrezia.
Dalla fede di battesimo presentata dal padre all'Avogaria di Comun nel febbraio del 1606, per giustificare la nascita legittima del C. e il conseguente suo diritto ad appartenere pleno iure alla classe cittadina, sappiamo che egli fu battezzato a Venezia nella chiesa di S. Maria del Giglio il 6 luglio 1585. È quindi da anticipare la data di nascita del C., che dagli accademici Incogniti (Le glorie degli Incogniti, Venezia 1647) venne fissata al 2 luglio 1586.
Iniziati gli studi nel seminario dei nobili di Murano, dove apprese i primi rudimenti delle lingue greca e latina, si iscrisse poi all'università di Padova, dove nel 1602 conseguì la laurea in diritto. Fermatosi ancora qualche tempo in città, strinse amicizia con Mario Cremonini, dal quale durante gli studi aveva ricevuto alcune lezioni private di filosofia, e partecipò attivamente alla vita culturale cittadina iscrivendosi alle accademie dei Ricovrati e degli Stabili, in cui lesse le sue prime composizioni sotto gli pseudonimi di Publio Licinio e di Incerto.
Ritornato a Venezia nel 1606, mentre la Repubblica stava attraversando il difficile momento dell'interdetto, ebbe modo di manifestare il suo entusiasmo patriottico e la sua verve polemica in scritti che attaccavano assai vivacemente le pretese curialiste dei sostenitori della Chiesa. In questo periodo dava infatti alle stampe, oltre alle tre Canzoni nelle presenti turbationi di stato - edite separatamente senza nome d'autore e luogo di stampa, ma attribuite al C. dagli Incogniti - la mordace Antiparaenesis ad Cesarem Baronium..., s.l. 1607, confutazione teologico-canonistica delle pretese curialiste, in cui con tono aspro ed acceso, che pur si ravvisa tra le gonfiezze retoriche e le metafore inusitate tipiche del suo tempo, egli proclamava che Venezia s'inchinava a Dio e non ad altri e che il suo leone avrebbe saputo difenderla, mentre il pontefice non poteva pretendere sia il potere temporale sia quello religioso.
Negli anni seguenti sappiamo che, in qualità di avvocato fiscale, fu al seguito dei tre inquisitori in Levante, inviati dalla Repubblica per controllare l'operato dei giusdicenti e degli amministratori di quelle terre e poté così visitare, tra gli altri luoghi, le isole di Cefalonia, Zante e Corfù, dove ebbe soprattutto modo di accrescere la sua collezione di oggetti antichi, passione che molto probabilmente gli era stata trasmessa dal nonno paterno Nicolò. Ritornato a Venezia, proseguì l'attività forense in qualità di avvocato nel foro civile fino alla morte, il 30 sett. 1656.
Nonostante l'impegno forense la produzione letteraria del C. fu vastissima e può essere sostanzialmente divisa in tre filoni. Il primo, di tipo encomiastico-celebrativo, senza originalità artistica e privo di serietà d'intenti, si rivela a volte interessante per le notizie storiche fornite. Del 1612, editi a Venezia, sono gli Elogia patritiorum Venetorum... .
L'opera, dedicata al doge Leonardo Donà, è composta di quattro deche, suddivisa ognuna in dieci brevi elogi; ma, come attesta lo stesso C. al termine del libro, essa doveva essere composta di quaranta deche, che egli si riprometteva di portare a termine appena ne avesse avuto il tempo. Le quattro deche, dedicate ognuna a personaggi allora tra i più in vista a Venezia, Leonardo Mocenigo, Nicolò Contarini, Filippo Pasqualigo e Giorgio Corner, celebrano i fasti politici di quaranta patrizi veneti, tracciando brevemente le tappe più significative della loro carriera.
Nel 1621uscì a Venezia Andreae Mauroceni Veneti senatoris prestantiss. vita..., nella cui dedicatoria, preceduta da un epigramma di Marcantonio Romiti in sua lode, il C. ricorda le esperienze giovanili nelle isole del Levante e di Candia. Negli anni seguenti il C. scrisse molti componimenti in lode di patrizi veneti, tra cui ricordiamo: nel 1626 una delle Due canzoni all'illustriss. sig. Francesco Viaro... (l'altra di Francesco Busenello); nel 1646la Canzone all'illustriss. et eccellentiss. sig. Giovanni Cappello...; nel 1648 la Canzone al sig. Leonardo Foscolo... per le sue gloriosissime imprese contro Turchi;ed infine nel 1652 Pisaura gens..., in cui narra le origini di ca' Pesaro e tesse le lodi di alcuni suoi patrizi.
Il secondo gruppo d'opere è caratterizzato dall'ispirazione amorosa o da brevi composizioni indirizzate ad amici e fu pubblicato in gran parte sotto lo pseudonimo di Publio Licinio. Edito a Parma nel 1611 in due parti, Dell'amoroso trofeo di Publio Licinio, vuol commemorare gli amori giovanili del Crasso.
L'opera, composta di madrigali scritti "tra la copia del tempo e l'inopia del senno", rievoca l'amore ardente del C. verso una donna chiamata Tina, ma assai raramente raggiunge accenti d'originalità. Il gusto del cavalier Marino dettava ormai legge anche a Venezia - nel 1602 erano usciti in due volumi le Rime, ristampate nel 1608 con il nome di La Lira - e il C. non sa staccarsene "se non con fatica e raramente", come quando, preso dalla rievocazione amorosa, viene ispirato da una vena melodica sensuale che fa sentire i suoi versi più sinceri ed appassionati.
Nello stesso anno viene edito a Parma Il simulacro della bellezza, composto da una serie di madrigali amorosi che il C. definisce "scherzo giovanile". Canzoni e lodi scrisse poi il C. in onore degli amici Paolo Veronese, Tiberio Tinelli e Giulio Strozzi. Nel 1623usciva in Venezia l'Elpidio consolato, favola marittima, pubblicata sempre con lo pseudonimo di Publio Licinio e dedicata al patrizio veneziano Francesco Viaro. L'opera, divisa in cinque atti, fu rappresentata a Venezia, come ricorda lo stampatore Angelo Salvadori nell'introduzione, nel carnevale del 1623 e riscosse molto successo.
Il terzo filone vede invece impegnato il C. nelle diatribe politiche ed è indubbiamente quello in cui egli ha saputo dare il meglio di se stesso. Nel 1619 il C. dava alle stampe De iurisdictione sereniss. Reip. Venetae in mare Adriaticum epistola, che appare stampata a Eleutheropolis cioè Venezia, polemicamente chiamata città libera.
In realtà l'opera fu scritta da Paolo Sarpi e successivamente tradotta dal C., cui sotto lo pseudonimo di Liberio Vincenzio Oliando fu dallo stesso Sarpi indirizzata con quello di Francesco Degli Ingenui. "La rozzezza del linguaggio e la incoltezza dello stile indussero il procuratore Foscarini a respingere questa attribuzione, conoscendo lo stile forbito del C. e il vigore polemico del servita, ma come dimostrò F. Griselini (Memorie anedote spettanti alla vita ed agli studi del... frate Paolo Servita, Losanna 1760, pp. 271-272) essa era ancora la più verosimile. L'anno seguente, infatti, veniva pubblicata ad Amsterdam Nescimus quid vesper serus vehat, satira menippea sullo stesso tema, che il C., sotto lo pseudonimo di Liberio Vincenzo Ollando, dedica al Sarpi chiamato Francesco Degli Ingenui.
L'opera di più vasto e valido impegno del C. fu il commento agli scritti di Donato Giannotti e Gasparo Contarini sulla Repubblica, apparso sotto il titolo di Notae in Donatum Ianotium et Casparem Contarenum cardinalem de Republica Veneta, Lugduni Batavorum 1631, ristampato successivamente nel 1642 e nel 1653. Premessa alle note è la traduzione in latino dell'opera del Giannotti, fatta probabilmente dallo stesso Crasso. La nota numero ventotto, intitolata De forma Reipublicae Venetae liber singularis, fu stampata separatamente nel 1704 nel quinto volume del Thesaurus antiquitatum Italiae "ob elegantiam suam". L'opera è dedicata a Domenico Molino, senatore tra i più prestigiosi e potenti che ci fossero a Venezia alle soglie del quarto decennio del sec. XVII, che ebbe probabilmente una parte non trascurabile nella stesura delle note. Il C. stesso nell'introduzione, rivolgendosi al Molino, riconosce che non solo egli promosse ed ispirò l'opera, ma anche "multa adiumenta subministrasti".
Resta da precisare che significato potesse avere in quel momento mandare alle stampe un commento del Giannotti e del Contarini, sviluppando inoltre al suo interno un trattato sulla forma istituzionale della Repubblica. Il Contarini e il Giannotti, come osserva lo stesso C., non avevano estesamente affrontato tale problema, il primo volutamente e il secondo per averlo rinviato ad altro momento. Nel sec. XVI contemporaneamente al suo decadimento economico e al suo declino politico, una sapiente pubblicistica aveva diffuso in Italia e all'estero il mito di Venezia come Stato misto e città libera per eccellenza. Tra le poche voci di dissenso, quella di Jean Bodin, teorico dello Stato assolutistico, più aveva contribuito a demistificare la mitica visione di Venezia come Stato in cui si realizzava il perfetto equilibrio tra organi di diversa natura. Il Bodin, che nel suo Methodus ad facilem historiarum cognitionem, pubblicato a Parigi nel 1566 aveva sostenuto che la Repubblica di Venezia era essenzialmente uno stato "popolare", dieci anni più tardi, nel sesto libro della République, affermava invece che essa era una repubblica squisitamente aristocratica, con tendenze invero a divenire oligarchica. Il C. nel corso delle note e soprattutto nel trattato sulla forma della Repubblica si scaglia vivacemente contro questa visione riduttiva dello scrittore francese, polemizzando con le argomentazioni da questo addotte a sostegno della sua tesi e per riaffermare infine la natura mista della Serenissima. Ma con ciò non si spiega il livore polemico e l'uso delle più sottile argomentazioni usati dal C. per controbattere le idee di un libro stampato più di cinquant'anni prima. Il contesto storico e sociale in cui usciva il commento del C. era assai diverso da quello che aveva visto il Bodin enunciare le sue tesi. Nel 1582 e nel 1628 due "correzioni" del Consiglio dei dieci avevano notevolmente modificato l'assetto politico della Repubblica, a tutto favore di una potente oligarchia che da questo organo era essenzialmente rappresentata. Il rapporto di forze tra il Maggior Consiglio e il Consiglio dei dieci s'era modificato a favore di quest'ultimo, ch'era divenuto un organo prettamente giudiziario con amplissimi poteri. Varie erano le cause che avevano condotto a questa situazione, tra le quali indubbiamente avevano giocato un ruolo di primo piano la crescente crisi economica e l'indebolita posizione di Venezia in campo europeo. Era perciò necessario più che mai riaffermare la continuità storica della forma istituzionale della Repubblica, giustificando nel contempo come un'evoluzione naturale e necessaria il mutamento d'equilibrio politico avvenuto tra alcune magistrature e la loro trasformazione interna. Era una nuova forma di pubblicistica che, pur ricollegandosi alla visione tradizionale di Venezia come Stato misto, sentiva la necessità di riaffermare, pur negli evidenti e sostanziali mutamenti, la natura immutabile della Repubblica, togliendo in tal modo fiato ad ogni opposizione interna. Così il C., dichiarando che quanto aveva affermato il Bodin era "faisissimus" e privo di ogni fondamento, aggiungeva che quantunque "maiestas ipsa sit quamvis una, nihilominus complectitur varias potestates, vel in ferendis legibus, vel in creandis magistratibus, vel in bello indicendo, vel in pace facienda"; e come la vita umana, anche la forma istituzionale della Repubblica aveva attraversato vari stadi: quello dell'infanzia, "unius dominationi", quello dell'adolescenza e della giovinezza, "omnium", ed infine quello della maturità "paucorum imperio propensi videri, posset". Ciò nonostante, egli concludeva, essa era rimasta immutata, poiché ogni magistratura, dal doge alle quarantie, aveva conservato i suoi poteri sovrani.
Del C. esistono anche molte opere inedite manoscritte. Gli Incogniti ricordano le sue De re testamentaria libri VI e De re politica libri XXIV. Presso la Biblioteca nazionale Marciana sono poi conservate l'operetta encomiastico-celebrativa Balba gens... (cl. XI, cod. 68) e l'Andreade ovvero Venetia conservata (cl. IX, cod. 213), poema epico in ottave che narra la vittoria riportata a Chioggia contro i Genovesi dal doge Andrea Contarini e da Vettor Pisani. Presso la Biblioteca del Civico Museo Correr di Venezia esistono l'Elegia ad Danielem Heinsium (cod. Cicogna 3231 Il 18), in cui il C. ricorda la morte di fra Paolo Sarpi, e la Scrittura di Nicolò Crasso sopra le locuste.
Il C. partecipò attivamente alla vita culturale cittadina che in quegli anni si andava svolgendo sotto l'insegna delle accademie, improntate spesso al cattivo gusto e alla vanità retorica, ma che ebbero comunque il merito di costituire un veicolo tra letterati ed artisti di diversa provenienza ed estrazione culturale: come l'Accademia degli Incogniti, cui il C. aderì, che venne fondata nel 1630 da Gianfrancesco Loredano e riunì sotto le sue insegne uomini di diverse regioni d'Italia.
Il C. possedeva una casa a S. Maurizio, posta sulle fondamenta Corner Zaguri, dove abitò per gran parte della vita. Erano inoltre di sua proprietà alcune case e terre poste in "villa" di Riese sotto Castelfranco, lasciategli in eredità dal padre e che egli accrebbe con numerosi acquisti. Nella sua abitazione di Riese il C. conservava un patrimonio artistico notevolissimo, tra cui un ritratto dell'avo Alvise di mano di Giorgione ed alcune tele di Tiziano, Tintoretto e Palma il giovane. Il C. venne raffigurato dall'amico Tinelli in un quadro che è poi andato smarrito nel sec. XIX, ma di cui abbiamo una riproduzione nella citata pubblicazione degli Incogniti, in cui egli è ritratto "in veste di lupo cerviero con libro in mano in atto di discorrere".
Non è conservato il testamento originario del C., ma nella cedola testamentaria del 1653 egli destinava il figlio Alvise in qualità di erede di "tutti li libri stampati, scritti et scritture mie", nonché delle rendite di Riese. Il C. venne sepolto nella chiesa di S. Sebastiano nella tomba di famiglia fatta costruire nel 1563 dei nonno Nicolò.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, Cittadinanze originarie, busta 367, fasc. 17; Ibid., Savi alle decime, Quaderni trasporti, reg. 1493, c. 345; Ibid., Testamenti, busta 705, fasc. 12; busta 1139, fasc. 286; Ibid., Giudici di petizion, Inventari, busta 250, fasc. 15, 16; busta 366, fasc. 36, 55; Venezia, Bibl. del Civ.Museo Correr, Cod. Cicogna 840, 1050/158-180, 1078, 1084, 1197/25, 1715, 2760/40, 2952/84, 3204/34, 3231/18; N. Macro, Disceptatio de Paraenesi card. Baronii..., Venetiis 1607; G. Bordoni, Ghirlanda di varii fiori, Padova 1608; Rime funebri di diversi in morte di Camilla Rocha Nobili detta Delia, Venezia 1613, p. 96; G. Ferro, Teatro d'imprese, Venezia 1623, pp. 12, 167, 168, 174, 507, 602, 615; G. Strozza, Il Barbarigo ovvero l'amico sollevato, Venezia 1626; L. Pignoria, Symbol. epistolicarum..., Patavii 1628, p. 97; Imeneo in Pindo. Rime di diversi, Bologna 1637, p. 6; F. Pallavicino, Scena retorica, Venezia 1640, p. 204; P. A. Spera, De Profess. gramat. et human., Neapoli 1641, p. 509; F. Liceto, Responsa ad quaesita per epistolas, II, Utini 1646, pp. 310-311; C. Ridolfi, Le maraviglie dell'arte, Venetia 1648, I, pp. 102, 194, 339, 351; II, pp. 55, 199, 200, 260, 272, 283; L. Querini, Vezzi d'Erato, Venezia 1649; G. Martinoni, Catal. degli uomini letter., in M. F. Sansovino, Venetia città nobiliss. et singolare, II, Venezia 1663, p. 8; L. Nicodemo, Addiz. alla Bibl. napol. del Toppi, Neapoli 1683, p. 60; A. Aprosio Vintimiglia, Visiera alzata, Parma 1689, pp. 52, 73; F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d'ogni poesia, Milano 1741, I, p. 85; II, pp. 570, 679; G. Fontanini, Bibl. dell'eloquenza ital., con note di A. Zeno, Venezia 1753, I, pp. 237, 450; II, p. 222; M. Foscarini, Della lett. venez., Venezia 1854, pp. 65, 151, 331-332, 343, 350; E. A. Cicogna, Delle Inscriz. Veneziane, II, Venezia 1827, pp. 71, 233, 266, 281; 111, ibid. 1830, pp. 220, 291-292; IV, ibid. 1834, pp. 163-170, 430, 466, 474, 563, 688; V, ibid. 1842, pp. 395, 641; Id., Saggio di bibliografia veneziana, Venezia 1885, pp. 89, 491; G. Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori ital., Milano 1852, 11, pp. 126, 385; F. Scaduto, Stato e Chiesa... durante l'interdetto di Venezia del 1606-1607, Firenze 1885, p. 170; G. Soranzo, Bibl. venez., Venezia 1885, pp. 89, 491; C. A. Levi, Le collez. venez. d'arte e d'antichità dal sec. XIV ai nostri giorni, Venezia 1900, I, pp. LXIX, LXXII; II, pp. 31, 32; A. Medin, La storia della Repubbl. di Venezia nella Poesia, Milano 1904, pp. 82, 293-296, 540-541; A. Livingston, La vita veneziana nelle opere di Gian Francesco Busenello, Venezia 1913, pp. 5, 16, 32, 43, 75 s., 86 s., 91, 114-118, 130, 133, 139, 143, 148, 208, 257, 329; P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, III, Bergamo 1929, pp. 69-70, 75, 88; G. Getto, Lettere e poesia, in La civiltà venez. nell'età barocca, Sancasciano Val di Pesa 1959, p. 156; C. Cozzi, Una vicenda della Venezia barocca: Marco Trevisan e la sua eroica amicizia, in Boll. dell'Ist. di storia della soc. e dello Stato veneziano, II (1960), p. 102; S. Savini Branca, Il collezionismo veneziano nel '600, Bologna 1965, pp. 115-116, 130-134, 147-148, 209-210; H.Macandrew, Vouet's portrait of Giulio Strozzi and its pendant by Tinelli of N. C., in The Burlington Magazine, CIX (1967), pp. 267-271; G.Benzoni, La fortuna, la vita, l'opera di Enrico Caterino Davila, in Studi venez., XVI (1974), p. 102.